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Strindberg e Brecht.

Nel '900 il dramaturg ha cominciato a rivestire anche funzione di “consigliere

letterario”, senza però vere e proprie strutture almeno fino all'intervento di

Brecht, il quale, allontanandosi dalla visione di Reinhardt e rifacendosi agli

insegnamenti pedagogici di Tieck, si è avvalso di ulteriori esperienze esterne,

1. “Bibbia”, secondo Gregorio Magno. 4

2. “Il lavoro del dramaturg”, C. Meldolesi – R. Molinari, 2007 Ubulibri editore.

attraverso il “collettivo dei dramaturg”, in altre parole, cercava di trarre

ispirazione dalle diverse competenze e disposizioni creative dei singoli

componenti della troupe, adeguandole ai bisogni del regista, ma soprattutto

relazionandosi all'invenzione attoriale, mettendo in primo piano il “passato-

futuro”.

Questa nuova modalità di riattivazione fu sviluppata ulteriormente da numerosi

altri dramaturg ed attori durante tutto l'arco del '900, periodo durante il quale la

dramaturgie risentì del “disagio del teatro”¹, che voleva la smaterializzazione e

trasmutazione dell'attore o addirittura l'utilizzo della marionetta al posto

dell'attore stesso, ma una semplice tesina di sole 10-12 pagine non sarebbe

sufficiente per descrivere i momenti salienti di questa evoluzione nemmeno

superficialmente, quindi mi limiterò semplicemente a citare alcuni nomi noti

che hanno contribuito a sviluppare e consolidare il nuovo ruolo del dramaturg

in senso moderno: Eleonora Duse, Copeau, Antoine, Dostoevskij, Pirandello.

Detto questo, prima di proseguire con l'analisi del capolavoro di Shakespeare e

le sue riscritture, è bene chiarire alcuni aspetti dell'Amleto secondo la visione di

Steiner²:

«[…] Ogni uomo nella vita conosce la tragedia. Ma la tragedia come forma

drammatica non è universale.[…] la rappresentazione della sofferenza e

dell’eroismo individuale, che noi chiamiamo tragedia, è tipico della tradizione

occidentale […] l'idea di riprodurre in pubblico, su un palcoscenico, le

sofferenze individuali, non ci appare più né strana né complessa, tanto è entrata

nella nostra concezione del comportamento umano, e a tal punto sono diventate

consuete al nostro spirito l'Orestea, Amleto e Fedra.»²

È con questa affermazione che l'autore apre il primo capitolo del suo testo, La

morte della tragedia², con cui cerca di spiegarci l'origine della tragedia stessa,

che in fin dei conti altro non è che sinonimo di drammaticità e quindi

riconducibile alla teatralità, soprattutto quella sviluppatasi nel periodo Tudor ed

elisabettiano, epoca in cui fu restituito, al concetto di tragedia, il senso

medioevale di rappresentazione teatrale.

Come ben si evince dalla citazione soprastante, la tragedia è un sentimento che

appartiene esclusivamente al mondo occidentale, difatti, ha origine “dalla

visione tragica della vita tipica del pensiero greco”, fondata sull'affermazione:

«[…] la necessità è cieca, e incontrandola l'uomo resterà privo della vista […]»²

di cui l'Illiade è una sorta di manuale in cui sono descritti, per immagini ed

esempi, i temi fondamentali che ruotano intorno alla tragedia;

1. “Pirandello - il disagio del teatro”, C. Vicentini, 1993 Marsilio editore.

2. “Morte della tragedia”, G. Steiner, 2005 Garzanti editore. 5

Analisi dell'Amleto e confronto con la riscrittura di T. Stoppard.

In base a quanto precedentemente detto sulle evoluzioni della dramaturgie,

possiamo valutare i vari rifacimenti, o meglio, le riattivazioni dell'Amleto di

Shakespeare, che conta innumerevoli riscritture teatrali, musicali, operistiche e

cinematografiche, e sarà su queste ultime che mi soffermerò, in particolare, sul

raffronto tra la versione classica e quella di Tom Stoppard.

È importante, prima di tutto, sottolineare che, nella concezione greca, tutti noi

siamo attorniati da demoni che devastano l'anima al punto da spingerci alla

pazzia, defraudandoci della nostra volontà, rendendoci denigratori di noi stessi e

di coloro che amiamo, ed è ciò che succede nella tragedia di Amleto, tragedia

perché, come un simbolico eroe greco, il protagonista è consapevole del suo fato,

verso cui procede con “l'accettazione della catastrofe, sopraffatto da forze oscure

che vanno aldilà della razionalità”, e perché, attraverso l'eccesso di sofferenza,

l'uomo recupera dignità ed elevazione dello spirito.

Molto di questo concetto è contaminato dalla concezione medievale, secondo cui

l'eroe deve essere un emblema che, come in “uno specchio, riflette il destino

dell'uomo” ed è proprio lo specchio che noi ritroviamo in Amleto, quando il

¹,

protagonista chiede agli attori di “riflettere in esso i fatti reali”, anche se nel

teatro elisabettiano, e quindi shakespiriano, questo concetto di tragedia perde un

po' della sua immediatezza per acquisire valore più universale, influenzando

anche la considerazione della condizione umana, come si evince da uno dei

primi monologhi del protagonista, in presenza di Roserncrantz e Guildernstern:

«Che opera d'arte è l'uomo […] L'uomo non m'attrae e neppure la donna […]»¹

in cui Amleto è combattuto tra l'ammirazione per la natura umana e il disprezzo

verso ciò che l'uomo può diventare per meri scopi politici e lussuriosi, in

riferimento a ciò che ha appreso, dallo spettro di suo padre, sulla natura dello zio

e del rapporto ambiguo fra questi e sua madre, fatti che giustificano la sua crisi

esistenziale, che sarà poi alla base della sua ricerca di vendetta.

Tornando all'analisi del teatro elisabettiano, e quindi all'analisi dell'Amleto in

quanto genere teatrale, è necessario ricordare che i drammaturghi coevi

violarono tutte le regole precedentemente imposte secondo i canoni neoclassici,

che si rifacevano alle errate interpretazioni delle opere aristoteliche e oraziesche;

«Infransero le unità, fecero a meno dei cori, e combinarono intrecci tragici e

comici […] era el gran teatro del mundo […] saccheggiarono Seneca. Da lui

presero la retorica, i fantasmi, gli aforismi […] il gusto dell'orrido e della

aggiungendo la follia come machera di difesa, tutto ciò

vendetta […]»,

perché «[…] il pubblico preferiva […] l'atmosfera romanzesca […] della

tragicommedia […] Amava i pagliacci, gli intermezzi comici […] le brutalità

dell'azione fisica. Lo spettatore elisabettiano […] Viveva in un mondo violento e

voleva vederlo riprodotto sulla scena.»²

1. “Hamlet”, trad. di P. Bertinetti, pag. 139, 2005 Einaudi editore.

2. “Morte della tragedia”, G. Steiner, 2005 Garzanti editore. 6

Shakespeare utilizzò tutti questi elementi adeguandoli alle esigenze basate sulla

sua personalissima visione del teatro quale contenitore di “concretezza e

trascendenza, tragedia e commedia, codardia e nobiltà” e, per rappresentarla al

meglio, necessitava di una forma teatrale più malleabile rispetto alla tragedia

classica, ed è forse per questo motivo che è scampato all'influsso ellenico;

In ogni caso, nella sua opera più lunga, l'Amleto appunto, tutto ha una sua

importanza, uno scopo per raggiungere il fine unico del coinvolgimento emotivo-

attivo dello spettatore, a partire dai dialoghi, sempre facili all'equivoco e

all'ambiguità, che danno al principe il fascino del mistero e dell'onnipresente

dilemma “essere o non essere, vivere o morire”, contraddistinto da una perpetua

meditazione, durante i quale il suo essere è conteso tra la possibilità e

l'inattuabilità dell'agire, tra l'azione e la non azione;

«Amleto per definizione è colui che dubita, è l'uomo lacerato e paralizzato dal

¹

dubbio.»

Ed è proprio all'inizio del 2° atto che riscontriamo fattivamente questo suo non

agire, quando il principe ha la possibilità di uccidere il re, assassino di suo padre,

ma decide di non cogliere quest'opportunità perché, uccidere l'usurpatore in atto

di preghiera, sarebbe più

«[…] una ricompensa e non una vendetta […]»¹

prorogando, quindi, l'ineluttabile ad un momento meno propizio per la salvezza

dell'anima dell'omicida, il quale non ha dato questa possibilità a suo padre, colto

²

«[…] nella piena età dei suoi peccati […]»

anche se ci sono altre tesi, sostenute da alcune affermazioni del protagonista,

secondo cui il principe rimanda l'inevitabile più per codardia che non per i

motivi sopra citati, come sottolinea il Coleridge:

«Amleto è tutto risolutezza fintanto che si trattava di dire, e tutto […] irrisolutezza

quando si trattava di fare»¹

O ancora l'ambiguità della sua esitazione sarebbe giustificabile in base a teorie

psicologiche riconducibili al complesso edipico, legate al fatto che “Claudio ha

realizzato quello che lo stesso Amleto avrebbe voluto fare nel suo inconscio,

cioè uccidere il padre e sposare sua madre, e quindi uccidere Claudio sarebbe

come uccidere se stesso”³, anche se questa opinione non è, a mio avviso,

comprovabile in quanto Amleto non è una persona reale .

1. “Hamlet”, trad. di P. Bertinetti, 2005 Einaudi editore.

2. “Hamlet”, vers. Cinematografica, 2005 Regia di Zeffirelli.

3. “Jump”, di E. Jones, 1949. 7

Tornando all'Amleto in quanto drammaturgia, è opportuno citare l'incontro tra il

principe e la compagnia dei comici, scena che ci aiuta a comprendere un altro

ruolo fondamentale di quest'opera, l'avvio all'odierna concezione di teatro, la

riflessione sul dramaturg e sull'arte degli attori, e da cui si desume che Amleto

rivesta il ruolo di “regista” ed il suo amico Orazio, in quanto fedele consigliere,

quello di dramaturg:

«AMLETO: […] Ti prego, quando vedi che comincia

osserva mio zio […] Io pianterò i miei occhi

sul suo viso, poi confronteremo […]»¹

Oltre a quanto sopra citato è presente anche il “metateatro” nella

rappresentazione dei comici alla corte di Elsinor, presente sia nella versione

originale che nelle varie riletture, ad esempio nel riadattamento di Tom

Stoppard², che può essere visto come i

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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher fortunaeleonardo di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Drammaturgia e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Salerno o del prof Innamorati Isabella.