Riassunto esame Drammaturgia, prof. Cerbo, libro consigliato La tragedia greca, Di Marco
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all’interno di pitture che è verosimile ricondurre ad una performance drammatica non vanno interpretate come la
riproduzione fedele di ciò che gli spettatori vedevano realmente in teatro.
Nel V secolo le tragedie venivano regolarmente rappresentate nel teatro di Dioniso. Ma è probabile che nella fase dei
primordi ad ospitare le rappresentazioni fosse uno “spazio destinato alla danza” situato nell’agorà, nei cui pressi si
svolgevano le feste in onore del dio. Nello stesso luogo si sarebbero tenute anche le più antiche rappresentazioni delle
Lenee. Da fonti tarde apprendiamo dell’esistenza di ikria, le tribune di legno, nell’agorà e di un loro crollo avvenuto
durante la rappresentazione di un dramma. Proprio tale episodio avrebbe dato impulso alla costruzione del teatro di
Dioniso, per il cui sito furono scelte le pendici meridionali dell’acropoli, dove si trovava il sacro recinto di Dioniso
Eleutero, un luogo in cui la conformazione consentiva agli spettatori di poter fruire di vere e proprie tribune naturali, al
sicuro da ogni pericolo.
In una prima fase si suppone che gli spettatori stessero in piedi o sedessero direttamente sul declivio della collina, ma
ben presto si dovette provvedere a rendere più comoda la loro sistemazione attraverso la realizzazione di una serie di
gradoni in terra battuta di altezza crescente su cui furono collocate delle panche di legno in funzione di sedili. Dinanzi a
loro si stendeva uno spazio piano ricavato sfruttando una porzione poco accidentata del luogo. All’interno di questa
ampia terrazza era collocata l’orchestra, dove si muovevano il coro e gli attori.
Importanti lavori di ampliamento e di ristrutturazione furono effettuati in età periclea. L’orchestra fu spostata poco più a
nord, in modo da guadagnare spazio per l’azione degli attori che recitavano prevalentemente dinanzi alla skené. La
cavea divenne più ripida, ma più sicura con l’erezione di robusti muri di contenimento ai lati e nella zona inferiore. Ai
lati dell’orchestra c’erano due corridoi d’ingresso: le parodoi, o meglio eisodoi. Di lì entrava e usciva il coro, e a volte
anche gli attori. Tuttavia, a seconda delle esigenze sceniche, gli attori potevano entrare e uscire anche attraverso le porte
dell’edificio della skené.
L’ORCHESTRA:
Inizialmente si ipotizzava una forma circolare dell’orchestra nel teatro di Dioniso, di circa 25 metri di diametro.
Successivamente si iniziò a pensare che questa avesse una forma rettangolare, o tutt’al più trapezoidale. Occorre,
comunque, immaginare uno spazio scenico a forma di stadio, circondato su tre lati da tribune disposte a linea retta
ospitanti il pubblico; la creazione di una vera e propria cavea, cioè di una struttura a conchiglia che consentiva di
disporre gli spettatori in forma avvolgente intorno ad un’orchestra circolare e di ottenere, così, migliori condizioni di
visibilità e di acustica. L’ipotesi renderebbe facilmente realizzabili i cambiamenti di luogo che si verificano nelle
tragedie, come le Eumenidi e l’Aiace, o in commedie come gli Arcanesi.
Un altro punto controverso riguarda la presunta esistenza di un “pagos”, cioè un rialzo nell’orchestra fino al 460 a.C.
circa, una sopraelevazione naturale che Eschilo avrebbe sfruttato nella rappresentazione dei drammi antecedenti
l’Orestea.
LA SKENE’:
Sul fondo dell’orchestra si trovava la skené, e di quella risalente al 415 a.C. circa, ne sono stati ritrovati i resti. Si tratta
di una fondazione rettangolare che sporge di circa 3 metri verso l’orchestra e che è strutturalmente legata al muro di
sostegno. All’inizio la skené era in realtà soltanto una tenda o una sorta di baracca che serviva da spogliatoio per gli
attori e da deposito per oggetti di scena. Ben presto la sua facciata venne integrata nel gioco drammatico. In essa
convenzionalmente si identificò la facciata del palazzo o del tempo o della grotta dinanzi a cui si svolgeva l’azione della
tragedia. Si inventò, con l’aggiunta di due avancorpi simmetrici ai lati, i paraskenia, uno spazio retro scenico che aveva
il vantaggio di essere immediatamente contiguo a quello dell’orchestra, e che proprio per questo poteva con esso
facilmente interagire. Varcando la porta della skené i protagonisti del dramma entravano in quella che la finzione
rappresentava come il palazzo o il tempio, o ne uscivano. Quindi in quello spazio si collocavano tutti quegli eventi
cruenti che, pur non essendo visibili al pubblico, trovavano riflesso nelle scene successive. Quest’uso della skené è
attestato per la prima volta nell’Orestea. Si ha, quindi, la valorizzazione dello spazio retro scenico, che sarà una costante
nella produzione di tutti i tragediografi posteriori. Tuttavia, non tutte le tragedie utilizzavano la skené come sfondo della
rappresentazione, quindi la sua funzione varierà più volte. A conferire di volta in volta caratteristiche diverse all’edificio
scenico venivano utilizzate delle facciate di legno molto leggere, facili da montare e all’occorrenza smontare. Vi era,
poi, un’opportuna decorazione che conferiva all’edificio l’apparenza richiesta.
LO SPAZIO DEGLI ATTORI:
Una testimonianza di Vitruvio afferma che nel III secolo gli attori recitavano su di un logheion, una scena rialzata di
alcuni metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. Nel V secolo le tragedie che noi leggiamo
documentano una stretta interazione fra coro e attori: un esempio si ha nell’Edipo a Colono, in cui il coro cerca di
contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le stesse commedie di Aristofane presuppongono la
prossimità tra attori e coro. Nel teatro del V secolo a.C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e
logheion, o almeno non poteva esservi un proscenio cosi alto come quello di cui parla Vitruvio. Sin dagli inizi si è
cercato di assicurare agli attori una maggiore visibilità, senza tuttavia pregiudicare con ciò il libero dispiegarsi di un
gioco scenico a tutto campo: la pedana, quindi, doveva essere poco elevata, la cui facile accessibilità non costituisse un
ostacolo ad un’immediata comunicazione con l’orchestra.
IL THEOLOGHEION:
Vi sono testimonianze in cui si parla di un Theologheion, cioè di una piattaforma collocata al di sopra della skené, da
dove gli dei avrebbero pronunciato i loro discorsi, piattaforma immaginata direttamente sopra la skené, a patto che
questa abbia una struttura molto solida. In alternativa la piattaforma si poteva collocare dietro la facciata visibile agli
spettatori, cosicché l’attore poteva salire senza esser visto per recitare la sua parte.
LA RISTRUTTURAZIONE DI ETA’ LICURGHEA:
Sotto Licurgo, intorno agli anni ’60 del IV sec. aC., il teatro di Dioniso fu ancora una volta profondamente ristrutturato.
Uno degli interventi più rilevanti fu la costruzione di una cavea in pietra. Dodici rampe di scale molto strette divisero le
gradinate in tredici blocchi a forma di cuneo detti kerkides e, a circa tre quatri della cavea, correva, da un lato all’altro,
un passaggio detto diazoma , costituito da un antico sentiero. Quando era gremito il teatro poteva accogliere dai 14.000
ai 17.000 spettatori e alle autorità era riservato l’onore di assistere agli spettacoli in prima fila, al livello dell’orchestra,
su sedili in pietra. Un’altra innovazione riguardò l’edificio della skené che, finora a struttura lignea, divenne una vera e
propria costruzione in pietra provvista di tre porte. Acquistano dimensioni e aspetto monumentali anche i parasceni, le
due ali che racchiudevano il logheion, in forma di colonnato aperto. La creazione di questa struttura anticipa quella che
è senza dubbio la più notevole delle modifiche che il teatro subisce verso la fine del secolo successivo: la costruzione di
un proscenio sopraelevato. La separazione dal coro diventa in questo modo assoluta. Del resto, il coro ha da tempo
perso le sue caratteristiche originarie e già in Euripide si colgono i segni di una sua emarginazione dall’azione scenica.
Ciò corrisponde ad un maggior peso conquistato dagli attori.
Il declassamento del coro a spettatore esterno degli eventi porta anche al superamento di quella unità di luogo che il
poeta del V secolo era vincolato a rispettare. Questa più ampia libertà nella costruzione della tragedia si riflette
nell’introduzione di speciali congegni, le periaktoi, una sorta di prismi girevoli le cui tre facce erano costituite da
pannelli dipinti. Facendo ruotare il prisma intorno al suo asse il drammaturgo poteva realizzare un immediato cambio di
scena o anche mostrare il luogo, ad esempio un bosco o una montagna, dal quale proveniva il personaggio che faceva il
suo ingresso dinanzi al pubblico. Altre consistenti modifiche si ebbero successivamente in epoca romana, soprattutto
nell’età di Nerone e ancora nel III secolo.
STRUTTURE PROVVISORIE:
Una sopraelevazione temporanea doveva servire a realizzare l’altura, uno spazio sacro, con l’altare degli dei e numerose
statue di divinità. Non v’è dunque bisogno di un rialzo non ancora livellato, usato come piattaforma naturale. In molte
tragedie si fa riferimento alla presenza di altari o simulacri in scena. Anch’essi saranno stati eretti di volta in volta con
strutture mobili. Erano utilizzati cespugli, forse veri o altrimenti raffigurati su pannelli, e decorazioni particolari che
arricchissero talora la facciata dell’edificio scenico e aiutassero così la fantasia dello spettatore a identificare in esso lo
specifico palazzo o tempio dinanzi al quale si svolgeva l’azione.
LE MACCHINE:
Il più celebre degli strumenti è senza dubbio la macchina del volo, un congegno fissato al suolo su un basamento al
margine dell’orchestra, dotato di un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui estremità
doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare l’attore destinato ad essere sollevato in alto. È
probabile che se ne sia servito anche Eschilo nella perduta Psycostasia, in cui Eos portava in volo il cadavere del figlio
Memnone. Viene usata anche nel Prometeo, dove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato.
Della mechane Euripide si avvalse spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene
dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione certamente sorprendente e di facile
presa spettacolare. La prima attestazione è in Platone. Non tutte le epifanie divine presuppongono, però, l’uso della
macchina. Due volte, in Euripide, nell’Andromaca e nell’Elettra, c’è un riferimento al volo, ma è possibile che la
divinità comparisse non sospesa in volo, ma sul tetto dell’edificio scenico. Era una prassi molto frequente nel V secolo e
che gli dei comparissero in volo era nelle attese degli spettatori. Ben altro impatto, invece, suscitavano gli eroi che
solcavano il cielo per compiere le loro imprese.
Un altro mezzo scenico di cui si avvalsero i tragici fu l’ekkyklema, una sorta di piattaforma munita di ruote o girevole,
che poteva essere manovrata in modo da fuoriuscire dalla porta centrale dell’edificio scenico e rendere così visibile ciò
che era accaduto all’interno. Ciò che veniva mostrato sulla piattaforma apparteneva per convenzione allo spazio
retroscenico. Il suo uso era connesso in particolare ai fatti di sangue verificatisi nel palazzo e dunque di per sé preclusi
allo sguardo del pubblico. La scena tragica evitava di presentare eventi cruenti nel loro compiersi, e si trattava di una
specie di tabù religioso legato al carattere sacrale della rappresentazione. Le uccisioni, gli accecamenti, i suicidi
avvengono regolarmente fuori scena. Di questi fatti ovviamente il pubblico poteva essere messo al corrente dal raconto
di un exanghelos, cioè di un qualsiasi personaggio proveniente dallo spazio retroscenico. Ma l’effetto di una narrazione
pur ricca di particolari patetici e raccapriccianti non poteva eguagliare certamente l’impressione suscitata dalla visione
diretta di ciò che accadeva o era accaduto.
Questo era stato compreso già da Eschilo che, nell’Agamennone, dopo aver prefigurato ciò che si compiva nelle stanze
del palazzo, non rinuncia, dopo i fatti accaduti, a mostrare i cadaveri del re e della regina.
Si è obiettato che in realtà la realizzazione di queste scene di per sé non necessitava del ricorso all’ekkyklema. Per
mostrava ciò che accadeva all’interno di certo non bastava aprire la porta della skené poiché la zona rivelata sarebbe
stata immersa nella penombra e difficilmente chi sedeva a lato avrebbe potuto vedere. Rimuovendo parzialmente o
totalmente la facciata dell’edificio scenico era una soluzione.
CARRI E CAVALLI. ALTRI COMPLEMENTI DELL’AZIONE SCENICA.
In alcune tragedie sulla scena comparivano dei carri, generalmente introdotti come emblema di ricchezza e pompa
regale. Esempi si hanno nell’Agamennone di Eschilo, o nell’Elettra di Euripide. In entrambi i casi il carro, simbolo
della potenza regale, diventa un simbolo ironico di un fasto che non è servito a scongiurare al re nell’Agamennone e alla
regina dell’Elettra, una fine atroce. L’unica scena in cui è attestato l’uso di cavalli è quella dell’Ifigenia in Aulide, ma il
ricorso a cavalli o a muli è ipotizzabile anche altrove.
Complemento dell’azione drammatica erano anche gli oggetti di volta in volta richiesti dall’intreccio scenico, come i
ramoscelli d’olivo dei supplici, i vasi per le libagioni, il bauletto con il chitone per Eracle che Deianira consegna a Lica,
così come doni, cassettine, tavolette. Questi oggetti spesso hanno una grande importanza nella trama dei rispettivi
drammi: essi sono lo strumento per la realizzazione di un piano o diventano, comunque, l’elemento che consente un
decisivo, imprevisto progresso verso una felice risoluzione del nodo drammatico. Non di rado l’oggetto acquista
significato sulla scena come simbolo. La brocca che l’Elettra Euripidea porta sul capo serve ad esempio a mostrare in
quali umili condizioni l’abbia costretta a vivere Egisto. Un forte valore simbolico ha anche il tappeto di porpora che
Clitemnestra fa dispiegare dinanzi ad Agamennone e che porterà nel bagno in cui il re sarà ucciso. Molto spesso, poi,
nel rapporto tra il personaggio e l’oggetto vi è una forte componente affettiva, come nel caso di Elettra che parla
all’urna in cui crede siano contenute le ceneri di Oreste.
CAPITOLO 3:
TRAGEDIA E POLIS:
COMPOSIZIONE E DISTRIBUZIONE DEL PUBBLICO A TEATRO:
Agli agoni scenici assistevano, riuniti in uno stesso spazio, tutti i cittadini che lo volessero, e non solo quelli di pieno
diritto, ma anche schiavi, stranieri e donne. Il coinvolgimento del corpo civico nella preparazione e nella
rappresentazione degli spettacoli era davvero massiccio. La festa aveva, dunque, un carattere popolare, ma era al tempo
stesso disciplinata da una rigida organizzazione, con un cerimoniale che esaltava le differenze di ordine giuridico e
sociale fra le diverse fasce del pubblico. Seggi d’onore in pietra, in una fila avanzata rispetto alla cavea vera e propria,
erano riservati alle autorità religiose e ai più alti magistrati in carica, nonché agli ambasciatori delle città straniere. Una
sistemazione di riguardo, nelle prime file delle gradinate, spettava anche agli strateghi, ai tesorieri, e in basso sedevano i
cittadini ateniesi, probabilmente divisi per tribù. Questo privilegio era esteso anche agli stranieri che si erano distinti per
particolari benemerenze nei confronti della polis.
Tutti gli altri, come i forestieri, gli schiavi e le donne, occupavano le gradinate collocate più in alto. Tutto questo aveva
un significato politico: si riaffermava il primato delle istituzioni, ma al tempo stesso ci si preoccupava che anche i non
cittadini si sentissero in qualche modo parte di una comunità che all’occorrenza dimostrava di sapere essere
riconoscente nei loro riguardi.
Per accedere al teatro gli spettatori dovevano acquistare un biglietto d’ingresso. Probabilmente dei contrassegni di
piombo che potevano poi esser facilmente fusi e riutilizzati per gli spettacoli dell’anno successivo. Il ricavato
dell’incasso serviva alla copertura delle spese di manutenzione delle strutture del teatro. Le fonti parlano dell’istituzione
del theorikon, un sussidio di due oboli volto ad assicurare a tutti i cittadini ateniesi la possibilità di assistere agli agoni
scenici. Plutarco attribuisce la sua creazione a Pericle, altri la collocano nel IV secolo. Pericle, in realtà, introdusse il
dikanikon, un compenso per i giurati dei tribunali popolari, come forma di risarcimento per i mancati introiti della
giornata di lavoro perduta, ed è solo alla fine del V secolo che viene introdotto l’ekklesiastikon, un’indennità per i
cittadini che prendevano parte all’assemblea, provvedimento attuato per contrastare la scarsa partecipazione degli
Ateniesi alla vita politica. In ogni caso la decisione di rendere totalmente gratuito l’accesso al teatro di Dioniso va quasi
certamente collegata ad un fenomeno di crescente disaffezione del pubblico nei confronti degli agoni.
Non è difficile, quindi, ricondurre tutto al clima degli anni successivi alla fine della guerra del Peloponneso.
Per quanto riguarda il livello di cultura del pubblico, il livello medio d’istruzione degli spettatori ateniesi del V secolo
non doveva essere molto elevato. Solo una parte di essi avrà saputo leggere e fare conti e il patrimonio letterario si
trasmetteva ancora, nell’età dei grandi tragici, attraverso il canale di diffusione orale. Pur se privi di cultura, coloro che
assistevano alle rappresentazioni non dovevano mancare di intuito critico e di senso dello spettacolo. Ad ogni ciclo di
spettacoli facevano seguire accese discussioni sul modo in cui il mito era stato trattato, sulla messa in scena, sulla
recitazione degli attori e sui canti del coro.
I cittadini ateniesi dovevano imparare assai presto a cogliere i tratti distintivi e le peculiarità principali della
drammaturgia di ciascuno tra i poeti più famosi, come sembrano implicare le frequente parodie di brani e scene di
tragedia che si leggono nelle commedie di Aristofane. Ci si può chiedere se tutti gli spettatori fossero all’altezza di
comprendere, ad esempio, l’elaborato linguaggio di Eschilo e di Sofocle, entrambi seri e utilizzatori di uno stile alto. È
con Euripide che ogni forma di solennità viene meno, ma ciò non è casuale. La chiarezza espressiva che caratterizza la
dizione dei suoi personaggi corrisponde in pieno al processo di umanizzazione del mondo eroico e alla dimensione
antropocentrica delle problematiche che egli introduce nelle sue tragedie. Anzi alla chiarezza Euripide non si fa
scrupolo di sacrificare a volte anche l’eleganza dello stile. Eppure, a dispetto del suo linguaggio talora oscuro e
incomprensibile, Eschilo fu non solo onorato e gratificato, ma divenne oggetto di una vera e propria venerazione dopo
la morte.
LA DIMENSIONE POLITICA DELLA TRAGEDIA:
C’è da chiedersi quale messaggio trasmettessero le tragedie. Le tragedie di età classica erano rappresentate durante feste
la cui organizzazione era rigidamente regolamentata dall’autorità statale e, per questo, ad esse era connaturata una
dimensione politica. La cornice stessa degli spettacoli era volta ad esaltare la potenza di Atene e a riaffermare il primato
della comunità sui singoli individui. A questo fine avevano appunto luogo con grande solennità, prima dell’inizio delle
tragedie, l’offerta delle libagioni da parte degli strateghi, il conferimento dei tributi da parte degli alleati, la menzione
dei benefattori della polis e, infine, la sfilata degli orfani di guerra, a dimostrazione di come Atene ricordava chi era
morto nell’adempimento del proprio dovere di cittadino. La polis aveva allevato gli orfani a proprie spese, ed ora essi
erano chiamati come i genitori a rendere i loro servigi alla polis. Attraverso queste cerimonie si perseguiva l’obiettivo di
una piena, solidale, convinta identificazione del cittadino con lo stato. Non si celebra più l’individuo in quanto tale, ma
la comunità di cui fa parte. È la polis, dunque, l’unico valore assoluto. La tragedia aveva, quindi, una funzione politica.
Il Dioniso delle Rane di Aristofane vuole richiamare in vita uno dei grandi tragici perché ammaestri il suo popolo. Nel
secolo successivo Platone polemizzerà con i tragediografi perché le loro opere corrompono i giovani e configgono con
il programma del suo stato ideale. Gli stessi poeti che intendevano partecipare ai concorsi tragici passavano al vaglio
dell’autorità politica, e l’ufficialità della designazione accresceva il prestigio e l’autorevolezza degli ammessi agli agoni.
Contribuiva, quasi, ad investirli di una funzione pubblica e di qui l’attesa di uno spettacolo ricco di messaggi forti e
positivi, capace di trasmettere validi insegnamenti morali e politici.
VALORI CIVICI E CONSENSO:
La tragedia era uno strumento di promozione e diffusione del consenso intorno ai valori sui quali si fondava la comunità
cittadina. L’esaltazione del valore in guerra, l’elogio dello spirito di collaborazione e di sacrificio, della giustizia
operavano nel senso di radicare nei cittadini ateniesi sentimenti di dedizione alla patria e di lealtà e di rispetto reciproci.
Importante era il tema della hybris punita. La violenza, il sopruso, l’arroganza dei personaggi negativi sono
generalmente causa della loro stessa rovina. Si tratta di personaggi totalmente malvagi o di figure complesse. La loro
fine dimostra che il delitto, la trasgressione delle leggi umane, la cieca opposizione alla volontà degli dei ricevono
prima o poi una giusta punizione. Per tutti giunge il castigo. L’ammonimento trasmesso allo spettatore era un implicito
invito al rispetto della legalità. Un esempio è la battuta con cui il coro, nell’Antigone, commenta la catastrofe di
Creonte.
Un motivo ancora più connesso con l’ideologia della polis è quello del sacrificio volontario di un eroe o di un’eroina
che accetta di immolarsi per il bene della patria o per una causa di interesse collettivo. Il motivo non è ancora
testimoniato in Eschilo: al tempo delle guerre persiane il cittadino che serve la polis come oplita o marinaio mostra per
la comunità cui appartiene una dedizione assoluta, non ha bisogno di essere spronato a compiere ciò che nell’intimo
avverte essere il suo dovere. È in Euripide che il motiva acquista molto rilievo. La rinuncia alla vita non consegue più
all’adempimento di un obbligo familiare o religioso, ma ha luogo nell’interesse superiore dello stato o della comunità,
come nelle Fenicie, negli Eraclidi, nell’ifigenia. Negli Eraclidi, ad esempio, la vittoria di Atene contro Euristeo è legata,
secondo un oracolo, al sacrificio di una vergine a Kore.
La tragedia svolgeva anche un’altra funzione non meno importante: mettendo in evidenza la precarietà della condizione
umana, muoveva lo spettatore a riconoscere i propri limiti ù, lo preparava ai rovesci della fortuna. Insegnava al pubblico
ad affrontare le traversie della vita e i colpi imprevisti della sorte. A questo tema dell’imponderabilità del futuro, legata
alla imperscrutabilità dei disegni divini, a cui soprattutto Sofocle ha dedicato versi di notevole suggestione. Nelle
Trachinie si afferma che nessuno degli uomini può davvero essere considerato felice prima della morte.
Se la tragedia indubbiamente contribuì a diffondere e a rafforzare i principi-cardine dell’ideologia della polis, non si
deve ipotizzare un diretto ed esplicito condizionamento dei poeti da parte del potere politico. Non ci sono testimonianze
che facciano pensare ad una forma di teatro programmaticamente concepita come veicolo di propaganda o asservita al
disegno dei ceti dominanti nell’Atene del V secolo. Soprattutto in Eschilo e in Euripide si colgono velate allusioni alla
realtà contemporanea che lasciano trasparire un preciso orientamento politico dell’autore. Se vi fu un dialetto tra i
singoli tragediografi fu di tipo dialettico: i politici dovettero capire che sarebbe stato impossibile o addirittura
controproducente imporre determinate scelte ai poeti, mentre i poeti dal canto loro seppero preservare la libertà creativa
necessaria al loro genio. I tragediografi non rinunciarono a mostrare le contraddizioni, le insufficienze e le difficoltà di
concretizzazione di quegli stessi ideali che costituivano il credo dell’ideologia corrente. Nell’agone delle Supplici di
Euripide vi sono pesanti censure alla democrazia, in primis alla facilità con cui essa consente l’ascesa al potere dei
demagoghi e all’impossibilità di una reale partecipazione alla vita pubblica di chi lavora duramente nei campi. Con
questo Euripide non vuole porsi in favore di una tirannide, ma denunciare le inefficienze e le carenze del regime
democratico ateniese.
In altri casi è lo stesso riconoscimento del primato assoluto della polis, reso possibile solo da una sottomissione
incondizionata del cittadino alle regole comuni, ad essere messo in discussione. Al centro dell’Antigone, ad esempio,
c’è il lacerante conflitto tra le prerogative dello stato e l’osservanza delle norme divine; nel Filottete si mostra la crisi
interiore che assale e sconvolge un giovane chiamato a dare esecuzione ad un ordine che scopre di non poter
condividere. Non si tratta di sovversione, infatti il valore politico non è contestato, ma considerato in un’ottica più
generale. Il tragediografo esplora i problemi, approfondisce le incongruenze. Più delle certezze, lo interessano i dubbi,
le inquietudini e il suo obiettivo è quello di offrire spunti di riflessione e scuotere le coscienze. Le tragedie
rappresentano, nel panorama della cultura attica del V secolo, uno dei momenti più alti e fecondi del dibattito
contemporaneo intorno ai temi fondamentali dell’uomo: il suo rapporto con la legge, con lo stato, con gli dei e con se
stesso.
LA CATARSI:
Alla catarsi Aristotele aveva dedicato solo un fugace cenno nell’ambito della definizione che della tragedia egli dà nel
fondamentale sesto capitolo della Poetica, affermando che la tragedia è l’imitazione di un’azione seria e compiuta di
una certa estensione, condotta da persone che agiscono direttamente e non riferita attraverso la narrazione, la quale
mediante la pietà e la paura porta a compimento la purificazione di tali emozioni. Vi sono numerosi altri passi della
Poetica in cui Aristotele ripropone il tema, presentando pietà e paura come le emozioni tragiche per eccellenza, quelle
emozioni che la tragedia deve evocare se vuole davvero raggiungere il suo scopo. Perché questo si realizzi occorre che
lo spettatore sia indotto ad immedesimarsi nei protagonisti della vicenda rappresentata: solo da una tale identificazione
potranno derivare pietà e paura dinanzi ai casi dell’eroe sofferente o caduto in disgrazia, in nome di quella comune
condizione umana che espone lo spettatore stesso all’esperienza del dolore e ai mutamenti di fortuna.
Se al poeta consente di creare l’illusione, lo spettatore ha il dovere di assecondarla e di lasciarsene ammaliare, di
aderirvi emozionalmente. Gorgia aveva descritto l’effetto della poesia affermando che chi la ascolta viene assalito da un
tremito di paura, da una pietà che induce al pianto dirotto, da una brama di dolore, e l’anima per effetto delle parole
soffre per le fortune e le sfortune altrui come se fosse una sofferenza propria.
Più tardi Platone si mostrerà contro la tragedia. Tratti distintivi di questa sono la paura e la pietà, e Platone vede proprio
nella loro sollecitazione la radice della pericolosità della tragedia e la ragione per metterla al bando dallo stato ideale:
essa eccita, alimenta ed irrobustisce gli impulsi della parte irrazionale della nostra anima. Aristotele introduce nella sua
concezione della poesia due importanti elementi di novità destinati a spuntare le obiezioni di Platone: in primo luogo la
mimesi che il poeta realizza non è intesa più come la deformante imitazione di un mondo ideale, ma è l’operazione
attraverso la quale il poeta stesso giunge a rappresentare la realtà nella sua dimensione più profonda e universale. La
sollecitazione di emozioni comela paura e la pietà diviene la condizione imprescindibile perché la tragedia possa sortire,
attraverso la catarsi, un effetto benefico sugli spettatori. Aristotele afferma che in tutti gli animi c’è una predisposizione
alle emozioni che in alcuni è più accentuata e che la musica può servire a disciplinare tali emozioni. Il medesimo
processo si applica anche alla pietà e alla paura. Il processo stesso viene paragonato ad una terapia medica,
all’operazione attraverso cui si eliminano dal corpo le scorie che possono essere causa di malattie. Tragedia e
commedia, come affermava Proclo, contribuiscono alla purificazione delle passioni che non è possibile rimuovere del
tutto e che sarebbe rischioso soddisfare appieno, ma che hanno bisogno di una sollecitazione al momento opportuno.
Egli affermava che mettere al bando la tragedia e la commedia era assurdo, perché attraverso esse è possibile soddisfare
moderatamente le passioni.
Giambico, poi, affermava che se le passioni che abbiamo dentro di noi vengono trattenute, queste diventano più violente
e, perciò, assistendo alle passioni altrui nella commedia e nella tragedia noi freniamo le nostre passioni e, rendendole
più misurate, le purifichiamo.
È questo il concetto fondamentale dell’equilibrio, della giusta misura.
CAPITOLO 4:
GLI ATTORI:
L’ATTORE TRAGICO:
La tragedia nacque quando, a fronteggiare un coro, fu posta la figura di un attore. L’invenzione sarebbe opera, secondo
la tradizione, di Tespi. Il termine stesso che in greco designa l’attore è stato interpretato in rapporto al ruolo che esso
avrebbe svolto nella fase dei primordi: secondo alcuni quello di “rispondere” alle domande del coro, secondo altri di
“interpretare” e, quindi, spiegare agli spettatori i fatti che il coro avrebbe rappresentato o mimato attraverso il canto e la
danza.
È la seconda ipotesi che oggi riscuote più consensi: con essa si concilia la notizia secondo cui Tespi sarebbe stato anche
colui che avrebbe introdotto il prologo e la resi, cioè il racconto da parte dell’attore di eventi non direttamente
rappresentati sulla scena. L’introduzione del secondo e poi del terzo attore avvenne nel corso del tempo, e ne sarebbero
stati artefici Eschilo e Sofocle intorno al 468.
Negli anni successivi i tragici non utilizzarono mai più di tre attori: rispettivamente, a seconda dell’importanza delle
parti ad essi assegnate, il protagonista, il deuteragonista e il tritagonista. Le ragioni di questo limite erano forse dovute
alla scarsa disponibilità di interpreti in possesso delle eccezionali qualità declamatorie che la tragedia richiedeva, a
motivi di contenimento della spesa pubblica o per evitare l’intrecciarsi di molte voci. Una norma così severa
comportava che nella maggior parte delle tragedie ciascun attore, sempre di sesso maschile, dovesse interpretare più
ruoli, compresi quelli femminili. L’uso delle maschere e dei costumi e la duttilità degli interpreti nel mutare voce,
adeguandola di volta in volta alla diversa parte loro assegnata, dovevano rendere questa operazione meno innaturale di
quanto possiamo immaginare.
Ovviamente nella distribuzione delle parti si sarà tenuto conto delle caratteristiche dei singoli attori. Per gli attori, ad
esempio, impegnati in ruoli femminili si faceva ricorso, probabilmente, ad interpreti dotati di una voce d’intonazione
naturalmente elevata. All’attore di età classica era richiesta, quindi, una capacità mimetica davvero straordinaria, tale da
consentirgli di prestare la loro voce nell’arco della medesima rappresentazione a personaggi assai diversi tra loro, un
esempio si ha nelle Trachinie, in cui colui che nella prima parte aveva il compito di rappresentare la mite ed inerme
Deianira, ricopriva quasi certamente nella seconda il ruolo di un Eracle dolente ed iroso. Nelle tragedie compaiono
talora dei bambini, specialmente Euripide li introduce sulla scena con evidenti finalità patetiche. I loro ruoli non
potevano ovviamente essere assegnati ad attori adulti e di qui la scelta di usarli soprattutto come presenze mute. Vi sono
casi in cui sono loro assegnate brevi battute.
Talvolta sulla scena compaiono simultaneamente anche più di tre personaggi, ma di essi solo tre, e non più di tre,
possono prendere parte attiva al dialogo. Gli altri restano in silenzio. Un autentico dialogo a tre voci è raro anche nelle
scene cui partecipano tutti e tre gli attori di cui il poeta dispone, il dialogo si svolge di volta in volta tra due di essi,
disimpegnando a turno il terzo. L’impossibilità di utilizzare più di tre attori imponeva all’autore-regista un attento
movimento delle scene, con un preciso calcolo della cadenza delle entrate e delle uscite dei personaggi. Non mancano,
tuttavia, circostanze in cui il tragediografo ha saputo ovviare con sapienza alla limitazione tecnica. Ad esempio nelle
Trachinie in cui si confrontano già tre personaggi, Deianira, colpita dal nobile aspetto di Iole, prigioniera di guerra, la
interroga ignara di trovarsi di fronte la rivale, colei che le contende il letto di Eracle. Iole non risponde, poiché non vi è
spazio per un quarto attore, ma il suo silenzio appare una naturalissima forma di difesa, una reazione densa di
significato, uno dei momenti di più intenso pathos della tragedia.
I PERSONAGGI MUTI:
Qualche precisazione meritano i cosiddetti “personaggi muti”. Può accadere che un personaggio che nel resto del
dramma partecipa attivamente al dialogo scenico sia costretto, per un determinato segmento della tragedia, a restare in
silenzio per consentire all’attore che l’ha sin qui rappresentato di rendersi disponibile per un altro ruolo. In tali
circostanze la sua parte era provvisoriamente ricoperta da un figurante. Personaggi muti in senso più proprio vanno
considerate quelle figure che, pur impegnate dal poeta nella rappresentazione, rimangono costantemente silenti per tutto
il tempo della loro permanenza sulla scena. Alcune hanno una precisa identità: Bia nel Prometeo, Pilade nelle Coefore,
Iole nelle Trachinie. In molti altri casi si tratta di vere e proprie comparse, per lo più ancelle e aiutanti dei personaggi
principali. Queste figure non sono menzionate nei codici medievali, ma che avessero dei ruoli di rilievo è assicurato da
indizi interni al testo stesso.
La presenza di personaggi muti più significativa e ricca di implicazioni è nelle Eumenidi: nell’affollata scena del
processo compaiono, oltre ad Atena, Apollo e Oreste, i giudici dell’Aeropago, un araldo, un trombettiere e un numero
imprecisato di comparse che rappresentano il popolo ateniese. A processo concluso, poi, si forma, guidata da Atena, la
solenne processione cui partecipano le maestrie del culto della dea, portatori e portatrici di fiaccole, donne di varia età e,
più in generale, il popolo di Atene. E’ evidente la precisa valenza ideologica che questa scena di massa ha al termine
dell’intera trilogia: dopo i conflitti interni al gruppo familiare e le degenerazioni che ne sono scaturite, essa segna la
ritrovata concordia del corpo civico nell’adesione ai nuovi principi etici e politici su cui la polis democratica fonderà
d’ora in poi la propria esistenza.
DISTRIBUZIONE DEI RUOLI:
Riguardo la distribuzione dei ruoli nelle tragedie, i testi a noi pervenuti non ci forniscono molte indicazioni. Gli studiosi
hanno, comunque, tentato di ricostruire il quadro delle parti di ciascun attore rilevando, in ciascun dramma, le situazioni
di contemporanea presenza in scena di due o più personaggi attivi, e in molti casi siamo in grado di avere
un’informazione precisa sulle sequenze assegnate ai diversi interpreti di ogni singola tragedia. Stabilire la distribuzione
dei ruoli è un modo per entrare nell’officina dell’autore, serve a comprenderne meglio la tecnica, a penetrare più a
fondo le ragioni che lo hanno indotto a privilegiare una scelta piuttosto che un’altra e a ricordarci che il tragediografo
non aveva la stessa libertà del poeta. Le tragedie erano destinate ad essere rappresentate in teatro e l’autore non poteva
prescindere dai condizionamenti che le regole in esso vigenti imponevano. Definire quale o quali ruoli venissero
assegnati specificamente al protagonista, quali al deuteragonista e quali al tritagonista.
CAPACITA’ VOCALI DELL’ATTORE:
La rappresentazione di più personaggi doveva costituire per gli attori un severo banco di prova, soprattutto se si pensa
che essi si cimentavano di seguito, in un solo giorno, in tre tragedie e in un dramma satiresco. Essi dovevano eseguire
brani di natura diversa, parti che prevedevano il semplice recitato, parti affidate al canto. Potenza e chiarezza della voce
erano, nei grandi teatri a cielo aperto dell’antichità, requisiti imprescindibili. Abbiamo numerose testimonianze sulla
cura con cui gli attori cercavano di irrobustire o di affinare la loro voce: diete, gorgheggi, esercizi di vario tipo. Non
tutti, però, si dimostravano all’altezza ed un esempio è lo stesso Sofocle che, dopo aver calcato egli stesso le scene,
dovette rinunciarvi per l’inadeguatezza della sua voce. La varietà e l’elevato tasso di difficoltà delle prestazioni richieste
agli attori offriva ai più dotati una formidabile occasione di esibire tutto il loro talento.
STILE DELLA RECITAZIONE:
Lo stile della recitazione era particolarmente elevato e solenne e questo lo si desume dal linguaggio stesso della
tragedia: vocabolario, sintassi, immagini, ritmo segnalano uno scarto notevole rispetto al parlare quotidiano. Una tarda
testimonianza di Apuleio differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo
prevalentemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra. Gli attori che
recitavano nella tragedia erano di norma diversi da quelli che recitavano nella commedia e questo necessitava di una
diversa specializzazione nella resa delle battute.
Si può trovare una linea evolutiva che da schematismo mimico e vocale dei primordi conduce progressivamente,
soprattutto a partire dagli ultimi decenni del V secolo, verso forme più ricercate di flessibilità e aderenza ai modi di una
recitazione il meno possibile artefatta. Gli attori facevano, comunque, uso di un preciso codice gestuale e i loro
movimenti potevano avere un certo grado di stilizzazione. Ma al di là di un misurato formalismo in generale sarà
preferibile pensare ad una recitazione che fosse di tipo realistico-mimetica.
EVOLUZIONE DELLA FIGURA DELL’ATTORE:
La complessità e l’impegno della recitazione, nonché l’incidenza che essa aveva sull’esito finale dell’agone, spiegano il
rapido emergere ed affermarsi, già verso la metà del V secolo, di un vero e proprio ceto di attori professionisti. I primi
poeti tragici, tra cui Eschilo e Sofocle, erano stati essi stessi interpreti dei loro drammi; ma questa consuetudine ben
presto declinò e le figure del compositore e dell’esecutore tesero irreversibilmente a distinguersi. Nel 449 a.C. viene
istituito uno speciale premio per il migliore attore protagonista. È il segnale dell’importanza che anche la polis
riconosceva alla pratica della recitazione in quanto tale. Gli autori non mancano di sfruttare le potenzialità implicite nel
virtuosismo dei loro interpreti. Aumenta la popolarità degli attori e le città li scritturano, e li gratificano con pubblici
decreti di onorificenza. Ad alcuni di essi vengono addirittura affidati delicati incarichi di rappresentanza diplomatica.
Sfruttando la posizione derivante dalla loro fama essi si sentono ora autorizzati perfino ad interferire nelle scelte di
drammaturgia. Aristotele lamentava, infatti, il prevaricare degli attori sui poeti e questa èè l’epoca in cui gli attori, in
ripresa delle tragedie del secolo precedente, inseriscono nel testo di Eschilo, Sofocle ed Euripide brani solo per
sfoggiare le loro qualità istrioniche e contro il proliferare di tali interpolazioni dovette intervenire Licurgo.
GLI ARTISTI DI DIONISO:
Nell’età ellenistica il repertorio delle compagnie teatrali finirà anche con il prevedere, nel contesto degli agoni scenici
che le singole comunità cittadine organizzano in occasione di feste locali, la possibilità non più di una rappresentazione
integrale delle tragedie, ma di una selezione dei pezzi migliori di uno o più autori. Le strutture tradizionali della tragedia
di epoca classica appaiono dissolte e vi saranno profondi cambiamenti anche nella figura sociale dell’attore. Il
proliferare degli spettacoli drammatici e musicali in tutto il mondo ellenizzato porta, infatti, alla nascita già nei primi
decenni del III secolo a.C., di associazioni che raggruppano i cosiddetti “artisti di Dioniso”. Ne fanno parte tutti coloro
che a vario titolo contribuiscono o partecipano alle performances nei teatri, cioè attori tragici e comici, coreuti, musicisti
e costumisti. Vere e proprie gilde che godono di un riconoscimento istituzionale e si adoperano perché ai loro membri
vengano assicurati numerosi privilegi.
LA MASCHERA:
La maschera è il simbolo, l’emblema dell’illusionismo su cui si fonda la rappresentazione drammatica, l’icona
dell’ambiguo rapporto che nel corso dello spettacolo scenico si stabilisce fra l’attore e lo spettatore. I Greci stessi
adotteranno il termine con cui designavano il viso, prosopon, per indicare la maschera in sé quanto il personaggio che la
portava. La maschera aveva probabilmente le sue radici nel culto e il suo uso ci è particolarmente attestato con Dioniso,
il dio che invasa i suoi seguaci e li induce allo straniamento da sé stessi. Lo stesso Dioniso era venerato nella forma di
una maschera fissata ad una colonna. Dioniso è anche il dio che presiede alle feste durante le quali hanno luogo gli
agoni teatrali. L’inferenza che le origini della maschera tragica debbano essere ricercate nei riti in suo onore
sembrerebbe obbligata.
L’uso della maschera da parte degli attori accompagna le rappresentazioni tragiche sino alla più tarda età. Essa resiste
anche quando la tragedia manifesta una sempre più accentuata tendenza al realismo e all’approfondimento della
psicologia dei personaggi. L’impiego delle maschere permetteva a ciascun attore di impersonare più ruoli, compresi
quelli femminili: un espediente al quale era inevitabile in un teatro che utilizzava solo interpreti di sesso maschile e nel
quale vigeva una norma che limitava a tre il numero massimo di attori a disposizione di ciascun tragediografo. Quando
le dimensioni del teatro divennero più ampie e si creò un vero e proprio proscenio, la maschera contribuì indubbiamente
anche a facilitare l’identificazione dei personaggi da parte degli spettatori che sedevano più lontano. E’ questa l’epoca in
cui i tratti fisiognomici che caratterizzano le singole maschere si fanno più accentuati e vengono talora esasperati in
maniera grottesca.
Le maschere erano fatte di lino, talvolta anche di cartapesta o cuoio, su cui veniva passato dello stucco. Una volta
divenute rigide, si procedeva a dipingerle e secondo una precisa convenzione realistica in uso nella pittura
contemporanea, quelle femminili di bianco, quelle maschili con un colore più scuro. Fissate al mento o alla nuca con
delle stringhe, coprivano l’intero viso e ad esse era assicurata una parrucca, probabilmente di lana. La deperibilità dei
materiali spiega perché non ne sia conservata nessuna. Per l’età classica prendiamo come riferimento le pitture
vascolari. Al di là di pur evidenti segni di stilizzazione l’analisi complessiva della documentazione disponibile rivela
una netta tendenza al naturalismo. L’espressione della maschera tragica è generalmente composta, i tratti della fronte e
delle sopracciglia regolari, l’apertura della bocca, appena pronunciata. Verso la fine del V secolo comincia a
manifestarsi la propensione a rendere lo stato di tensione o di sofferenza dei personaggi: la fronte si corruga, appaiono
delle pieghe ai lati della bocca. Ma nelle linee generali il quadro si mantiene sostanzialmente inalterato almeno fino
all’inizio dell’età ellenistica.
Vario era l’aspetto fisico dei personaggi che le tragedie portavano sulla scena e la maschere tendeva a riprodurre le
caratteristiche peculiari di ciascuno di essi così come erano evidenziate dal testo. Un esempio è l’Eracle nell’Alcesti,
ancora ignaro della morte della padrona di casa, non riesce a capire la tristezza del servo che ha di fronte e lo
rimprovera per la faccia austera, l’occhio assente, le ciglia aggrottate, tratti probabilmente dipinti sulla maschera del
personaggio che interpreta il servo e non casuali. Poteva, poi, accadere che particolari situazioni drammatiche
imponessero a volte una maschera con specifiche caratteristiche:ciò doveva avvenire per le scene di lutto, frequenti in
tragedia, in cui i personaggi comparivano con la chioma rasata. La tradizione attribuisce ad Eschilo l’introduzione di
maschere colorate e terrificanti ed esse verranno usate per quegli effetti spettacolari. In casi del tutto eccezionali poteva
rendersi perfino necessario che un determinato personaggio cambiasse maschera nel corso della rappresentazione.
A partire dall’età ellenistica vi sarà una radicale trasformazione della fisionomia della maschera tragica. Una
testimonianza ci è data da un affresco di Ercolano. Le aperture per gli occhi sono diventate grandi e profondamente
incavate, la bocca spalancata, la fronte alta e sormontata da una massa di capelli che si ergono a forma di piramide per
ricadere fluenti da ambo i lati. La rigida contrattura del volto evoca una sensazione di pathos, e la durezza dei tratti ha
un che di terribile. Questo tipo di maschera è funzionale alle esigenze delle mutate strutture teatrali e in essa si ha al
contempo il desiderio di rendere manifesta sin nell’aspetto esteriore la dimensione eroica dei personaggi tragici, di
sottolineare la distanza che separa il mondo del mito e le vicende dei suoi protagonisti dalla realtà borghese in cui
vivono gli spettatori. Sulla profondità dei contenuti prevale la spettacolarità delle scene e degli effetti visivi. Sembra di
cogliere gli inizi di un processo di standardizzazione delle maschere tragiche, di cui nell’Onomastico di Polluce ve ne
sono elencati 28 diversi tipi, suddivisi in quattro categorie: anziani di sesso maschile, giovani di sesso maschile, schiavi,
donne. Si tratta di una classificazione che riflette la prassi teatrale di un’età anteriore a quella in cui il lessicografo visse,
ma difficilmente si potrà risalire al di là degli inizi dell’età ellenistica.
IL COSTUME. L’ELENCO DI POLLUCE:
Sul costume degli attori e dei coreuti pochissime informazioni si ricavano dai testi delle tragedie stesse, poiché i poeti
non avevano necessità di descrivere ciò che la scena dispiegava materialmente dinanzi agli spettatori. Un elenco di vesti
di scena si legge in Polluce, elenco che non siamo in grado di stabilire a quale epoca va riferito, anche se alcuni degli
indumenti menzionati sembrano corrispondere alla tipologia di costume tragico come quelle sulle raffigurazioni
vascolari a partire dal V secolo a.C.
La nostra principale fonte di documentazione è, dunque, la pittura vascolare. Sono molto rari i casi, comunque, in cui
compaiono una o più figure la cui identificazione come attori sia resa possibile dalla maschera che portano sul viso o
nella mano. Per moltissime altre raffigurazioni il tentativo di stabilire un collegamento con episodi di tragedie a noi noti
da pochi risultati, poiché le illustrazioni potrebbero derivare semplicemente dalla tradizione mitologica. Per la fase più
antica le testimonianze vascolari pertinenti con certezza alla scena tragica sono molto poche. Sembra di poterne dedurre
che l’abbigliamento degli attori, fino agli ultimi decenni del V sec, non fosse molto diverso da quello del normale
cittadino ateniese. È solo verso la fine del secolo che l’abbigliamento degli attori si fa più ricco e fastoso ed assume
quelle caratteristiche che lo connotano come “costume tragico”. Prevale l’abito lungo che giunge sino ai piedi con un
accenno di strascico, provvisto di maniche che si stringono intorno ai polsi, ed intessuto di preziose decorazioni e colori
molto vivaci.
Un’importante raffigurazione si trova su un cratere di Pronomos, fine V-inizio IV sec, che raffigura Dioniso e Arianna
insieme a dei satiri e a tre attori. Le figure che interpretano i satiri indossano un perizoma, l’enorme fallo eretto e la
coda equina che costituiscono il loro abituale costume scenico. Gli altri attori indossano poi maschere ed elementi che li
identificano, come per Eracle, caratterizzato da un chitone decorato a maniche lunghe e sopra una pelle di leone, in una
mano una clava e nell’altra una maschera con una testa di leone. Impressionano in modo particolare la fantasia e la
varietà dei motivi geometrici e floreali che ornano il chitone, l’himation e persino gli stivali degli attori. La ricchezza
dei costumi trova conferma nelle altre testimonianze vascolari che possediamo. Un esempio è il cratere di Capua, coevo
del vaso di Pronomos, che rappresenta Andromeda tra suo padre Cefeo e il suo liberatore Perseo, con Hermes e Afrodite
ai lati e, più discosto, un Etiope. Quest’ultimo ha un costume tutto decorato che arriva al ginocchio, a maniche lunghe.
L’eroina ha la caratteristica veste tragica lunga fino ai piedi, con le maniche aderenti, su cui indossa un leggero mantello
e due fasce di decorazioni, in alto e in basso, impreziosiscono l’abito. Questo tipo di costume rispondeva egregiamente
alle esigenze dello spettacolo scenico. A differenza del normale chitone questo abito era cucito sulle spalle, avvolgeva
l’intera persona e poteva essere cambiato in tempi molto ristretti senza difficoltà. Le lunghe maniche, inoltre, si
prestavano, nel caso di ruoli femminili, a mascherare meglio l’identità degli interpreti.
Occorre tener conto delle esigenze poste di volta in volta dai diversi contesti drammatici, poiché sulla scena potevano
comparire personaggi vestiti a lutto o la cui condizione di disgrazia doveva essere resa concretamente anche attraverso
un abbigliamento dimesso, indovini, uomini in armi, schiave, menadi, cacciatori, marinai, contadini e figure
assolutamente atipiche o orripilanti come le Erinni nelle Eumenidi, personificazioni femminili della vendetta. Tutto ciò
obbliga a postulare una gamma di costumi molto più varia di quella che la nostra poca documentazione ci consente di
ricostruire.
GLI EROI CENCIOSI DI EURIPIDE:
Un cenno a parte va riservato agli eroi “mendicanti” del teatro euripideo. Essi sono bersaglio della feroce satira di
Aristofane, che ce ne offre un vero e proprio catalogo. Il testo del poeta comico fa esplicito riferimento a tragedie
andate perdute, così non possiamo valutare quale fondamento abbiano le sue critiche. Abbiamo, comunque, indizi sulla
rappresentazione del Telefo del 438, in cui il re di Misia era vestito come un pitocco, cosa che suscitò scalpore, ma si
trattava di un travestimento inteso ad ingannare gli achei e penetrare nel loro accampamento. Le critiche di Aristofane
erano legate al fatto che lo sperimentalismo euripideo, almeno nelle sue punte più esasperate, abbia finito con l’urtare la
sensibilità degli spettatori, provocandone risentimento e rigetto. Quanto alle calzature degli attori e dei coreuti, il
contributo dell’archeologia si è rivelato decisivo. La critica moderna ha prestato fede alla notizia secondo cui Eschilo
avrebbe aumentato la statura e reso più imponente la figura degli interpreti delle sue tragedie adottando calzari con uno
spesso rialzo, i cosiddetti coturpi. In realtà nelle raffigurazioni vascolari questo modello di scarpa non è attestato prima
della tarda età ellenistica. Infatti l’uso di questa calzatura coincide con la fase post-licurghea, in cui non solo
l’innalzamento del proscenio impone una maggiore visibilità agli attori, ma in cui la recitazione assume un carattere
sempre più statuario.
Le testimonianze della ceramografia d’età classica ci mostrano attori e coreuti che calzano stivaletti dalla suola molto
ridotta e di foggia piuttosto larga, alti sino al polpaccio, con la punta ricurva all’insù e in qualche caso ornati con ricami.
Il coturno compare molto spesso nelle figurazioni di Dioniso, e da qui l’ipotesi che sia stato utilizzato proprio in suo
onore. CAPITOLO 5: LA MUSICA E LA DANZA.
LA MUSICA:
Prima ancora che il testo letterario, la tragedia era rappresentazione e spettacolo. E dello spettacolo la musica era una
componente essenziale. Nulla o quasi di essa sopravvive o è ricostruibile con certezza. Si tratta di una grande perdita,
più della messa in scena e dei movimenti del coro e degli attori. Scomparse le notazioni musicali che accompagnavano
le parti liriche dei singoli drammi, è difficile immaginare suoni e registri diversi che dovevano conferire alla
performance tragica la sua peculiare policromia. A caratterizzare lo stile musicale proprio della tragedia, il tropos, era
un’intonazione generalmente grave. Quanto alle “armonie”, cioè alla scelta della scala melodica, sappiamo che la
tragedia utilizzò inizialmente quella dorica, austera e maestosa, e quella mixolidia, particolarmente idonea ad esprimere
il lamento, caratteristiche tipiche del teatro di Eschilo. Risalirebbe, invece, a Sofocle l’introduzione nella tragedia
dell’armonia frigia e lidia. La tragedia non rimase, comunque, estranea alla rivoluzione musicale che investì la Grecia
negli ultimi decenni del V secolo. Sino ad allora la parola e il metro avevano fatto valere il loro primato, asservendo la
musica alle esigenze della comunicazione verbale. Sul finire del secolo il rapporto si inverte. Si afferma e si diffonde il
canto solistico e le monodie diventano espressione del pathos più intenso. In esse il virtuosismo canoro degli attori ha
modo di mostrarsi liberamente e in parallelo declina irreversibilmente il ruolo del coro, vincolato ad un’esecuzione
all’unisono sentita sempre più come obsoleta.
Strumento musicale d’elezione fu per la tragedia l’aulos, cioè quello di suono più grave. Ad eseguire i vari brani era un
auleta scelto tra i più esperti. Non mancavano sulla scena, a seconda delle diverse esigenze, altri strumenti musicali
come timpani, cembali ed arpe, nacchere e trombe.
LA DANZA:
Alla musica era strettamente legata la danza, tanto che il coro non si limitava a cantare, ma al tempo stesso danzava. Il
coro tragico era disposto in una formazione rettangolare e i coreuti entravano allineati per blocchi, a tre a tre. Non si
trattava di una regola, bensì di una consuetudine, rispetto alla quale non mancheranno eccezioni. Un esempio è Eschilo,
che preferì ad una danza di tipo rettangolare quella circolare, nelle Eumenidi, a mò di assedio intorno all’eroe. In
situazioni di grande concitazione i coreuti potevano presentarsi in forma diversa da quella canonica e magari fare il loro
ingresso in modo meno ordinato, come nel caso delle Erinni nelle Eumenidi.
Quanto alla danza in sé, elementi importanti erano i movimenti, le posture e le indicazioni. Una componente non meno
importante era l’uso delle mani: dato il carattere generalmente mimetico della danza antica, occorrerà pensare ad una
gesticolazione che, sensibile al ritmo della musica, fosse al tempo stesso attenta a rendere in modo espressivo il
messaggio verbale del testo poetico. Della danza tragica sappiamo molto poco. Alcune fonti attribuiscono alla tragedia,
alla commedia e al dramma satiresco delle danze differenti. Per la tragedia l’emmeleia, per la commedia la sicinnide e il
cordace per il dramma satiresco. Il termine con cui si indica la danza della tragedia, significa armonia, con riferimento
alla misura e alla coordinazione che dovevano esserne le caratteristiche principali, rispetto alla comica e al dramma il
cui carattere doveva essere più scomposto e sfrenato. Sotto la comune definizione di Emmeleia sono raggruppate danze
di vario tipo, ognuna delle quali adatta a determinate circostanze e a determinati contenuti. Non è pensabile che a fronte
dell’infinita gamma di situazioni, di emozioni e stati d’animo cui i brani tragici davano espressione vi fosse un’unica
danza rigidamente standardizzata o anche solo codificata in tutte le sue possibili varianti. Molto spazio, comunque,
doveva essere lasciato alla libertà inventiva degli autori.
CAPITOLO 6:
INDICAZIONI DI REGIA, DIDASCALIE SCENICHE, SCENOGRAFIA VERBALE.
Il testo composto dai tragediografi non forniva in modo esplicito e sistematico indicazioni relative alla messa in scena e
alla gestualità degli attori. Solo in rari casi i drammi sono provvisti di notazioni didascaliche, le cosiddette
“parepigraphai”. Si tratta di termini inseriti prima del verso in cui compare il particolare a cui si riferisce e concernenti
esclusivamente effetti acustici. Tutto ciò che serve a dirigere e coordinare il movimento degli attori e permette agli
spettatori una piena intelligenza della performance drammatica è integrato direttamente nel testo, cioè nelle battute dei
personaggi, dove il lettore può cercare le indicazioni di regia e le didascalie sceniche. La scena tragica era molto ricca di
movimento, basti pensare alla consegna di oggetti, alle libagioni funebri, ai cortei, e solo una parte di queste operazioni
e di questi movimenti ha trovato trascrizione nel testo, per la comprensibile ragione che il poeta non aveva bisogno di
descrivere quello che gli spettatori vedevano. Fino alla fine del V secolo il tragediografo fu anche il regista del dramma
ed è da supporre che egli abbia personalmente istruito gli attori sulle modalità di realizzazione della performance.
Quindi dava indicazioni sulle entrate, sulle uscite, sulle posizioni e sui gesti. Di tutto ciò non è rimasta documentazione
e la nostra possibilità di ricostruire lo spettacolo originale in tutti i suoi aspetti ha molte difficoltà.
LA DIVERSA PROSPETTIVA DELLO SPETTATORE E DEL LETTORE: IL CARRO DI ATOSSA
NEI PERSIANI:
Al lettore moderno può accadere di capire la esatta configurazione di una scena solo dopo esser passato alla scena
successiva. Il primo ingresso di Atossa nei Persiani, ad esempio, avviene al di sopra di un carro, ma al lettore ciò sfugge
poiché non risulta né dall’annuncio che il coro fa del suo arrivo, né dalla risposta della regina al saluto che le viene
rivolto. E’ solo quando Atossa esce dal palazzo una seconda volta, a piedi, che egli scopre che nella precedente scena la
regina aveva fatto uso del carro. Se il particolare ora viene alla luce è solo perché Atossa stessa lo enfatizza, volendo
rimarcare come, dopo la notizia della disfatta dell’esercito persiano, la paura l’abbia indotta a rinunciare ad ogni forma
di fasto e a offrire il carro al tumulo di Dario. Tutto quello che è essenziale ad illuminare l’azione drammatica e a
renderne più profonde le implicazioni finisce comunque con il trovare espressione a livello verbale. Che Atossa entrasse
sul carro e con grande sfarzo, agli occhi dello spettatore ateniese doveva sembrare naturale, trattandosi della regina.
INDICAZIONI DI REGIA:
Vi furono movimenti da eseguire, nelle tragedie, che potevano risultare particolarmente complessi o in cui la dinamica
della scena poteva richiedere una speciale cura: proprio qui il poeta aveva bisogno di inserire nel testo le opportune
indicazioni di regia.
Un esempio importante è l’Ifigenia in Aulide di Euripide. Qui sono descritti con inusuale abbondanza di particolari
l’arrivo del carro di Clitemnestra dinanzi alla tenda di Agamennone, lo scarico dei bagagli, il controllo dei cavalli. Si
tenta di porre in evidenza l’autorità e la dignità regale di Clitemnestra attraverso il carattere perentorio dei suoi
comandi. La precisione con cui viene elencata la sequenza delle operazioni da effettuare tradisce la preoccupazione del
poeta che la discesa dal carro avvenga in modo ordinato e secondo una precisa scansione dei tempi.
La stessa esigenza è sottesa alle istruzioni che Fedra, al suo primo apparire nell’Ippolito, rivolge alle ancelle. Così come
nella scena in cui viene trasportato il corpo di Ippolito su una barella o nella scena in cui Elettra porta l’acqua presa alla
fonte. Questa era per l’autore una chiara indicazione sul modo in cui la scena andava realizzata. Egli doveva procedere
con passo lento, fermarsi di tanto in tanto, simulare la fatica, assumere un atteggiamento afflitto.
Tra i molti esempi possibili si può citare l’Oreste, dove sotto la specie degli avvertimenti che Elettra dà alle donne del
coro perché non sveglino l’eroe che dorme, si coglie un susseguirsi di implicite indicazioni volte a regolarne il canto e
la danza; o per l’annuncio di Atena, nel finale delle Eumenidi, di voler accompagnare alla loro sede le dee divenute
benevole scortata dalle sue ancelle: un implicito segnale indirizzato a coloro che impersonano le sue sacerdotesse
perché escano dal tempio e si uniscano a lei.
Un caso del tutto speciale in cui un’indicazione registica poteva rendersi necessaria anche per gesti molto elementari è
rappresentato dall’uso in teatro dei bambini. Un esempio è Medea che rivolge l’estremo saluto ai suoi figli quando ha
ormai deciso di ucciderli.
RISCHIO DI INDEBITE GENERALIZZAZIONI:
La notazione di regia è quasi sempre inserita nel testo drammatico e occorre, quindi, guardarsi dal rischio di cercare
intenzioni didascaliche anche dove non ve ne sono. È il caso della minuziosa descrizione dei gesti che accompagna le
scene di supplica o di manifestazione del lutto, l’insistenza col quale nelle une vengono elencati lo stringere la mano, il
prostrarsi e l’abbracciare le ginocchia dell’interlocutore, nelle altre il percuotersi il petto, lo strapparsi i capelli e
graffiarsi le gote. Considerazioni analoghe si ripropongono anche per il rilievo dato all’incedere a stento e con fatica di
molti personaggi anziani: i particolare che in questi casi illustrano il muoversi lento e incerto tendono a mettere in
evidenza la precarietà delle loro condizioni fisiche.
Si potrebbe porre a confronto un passo dell’Ifigenia in Aulide in cui il carro di Clitemnestra giunge dinanzi alla tenda di
Agamennone e un passo di Euripide, in apparenza molto simile, dell’Elettra. In realtà Euripide ha costruito la scena in
modo tale che l’aiuto di cui Clitemnestra necessita divenga esso stesso motivo di scontro con la figlia. La regina, infatti,
chiede aiuto alle sue schiave, ma con polemica ostentazione Elettra si offre di assistere anche lei sua madre.
Le analogie con la scena dell’Ifigenia sono, dunque, solo superficiali: lo stesso particolare scenico acquista, in questo
secondo caso, ben altra funzionalità drammatica.
In generale la presenza di didascalie registiche è più numerosa nelle tragedie di Euripide che non in Eschilo e Sofocle,
in linea con le caratteristiche di una drammaturgia che costruisce scene di grande vivacità ed impegna gli attori in una
fitta serie di movimenti e di gesti.
DIDASCALIE SCENICHE:
Diverse sono le didascalie sceniche, destinate all’informazione degli spettatori. Quando lo spettacolo aveva inizio,
conoscevano della tragedia a malapena ciò che era stato comunicato loro dal poeta nel corso del proagone. La prima
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