Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
(L’AUTORE SI AFFIDA ALL’ATTORE)
«Il regista non ha diritto di cambiare l’animo del personaggio come lui pensa. […] L’autore è quello
che scrive le parole, ma il suo vero confessore è l’attore». Il personaggio parla con le parole dettate
dall’autore, ma è l’attore a tirarne fuori la verità, che le sue parole direttamente non dicono. Que-
sta è la vera transpersonalizzazione dell’attore che prende la parte del personaggio e che arriva a
prevedere cose che nemmeno l’autore ha concepito: questa è la dimensione dei sottotesti. De Fi-
lippo, autore e attore, è in grado di far parlare e parlare con i suoi personaggi: ciò significa aver ca -
pito come, nel teatro del Novecento, sono la scena e l’attore a determinare in ultima istanza la vita
della drammaturgia, che ne risolvono i problemi di ideazione, composizione, espressione. Dunque,
l’autore dà le parole al personaggio sul piano della scrittura; l’attore, dopo aver confessato il perso-
naggio, sul piano dell’oralità scenica, lo farà parlare ma pure lo parlerà, di fronte al coro degli spet-
tatori: si apre, fra scrittura e oralità, uno spazio di duplicità, che è la profondità dell’interpretazione
scenica.
In alcuni passaggi scritti da De Filippo, si colgono riflessioni di realismo critico per cui possiamo
stabilire il seguente percorso: il conflitto tra individuo e società è il primo impulso che porta il ger -
me dell’ideazione drammatica, determinato non da posizioni concettuali ma da uno stimolo emoti-
vo come reazione al male e all’ingiustizia; l’ideazione si concretizza in personaggi a cui l’autore dà
la parola.
1 - «La mia vera casa è il palcoscenico...
nella vita sono uno sfollato»
Uno dei termini chiave per comprendere la personalità artistica di De Filippo è quello di tradizione,
e il rapporto tradizione-innovazione accompagnerà sempre il suo lavoro. De Filippo a sempre pen-
sato che ciò che una persona realizza nel corso della sua esistenza fino alla sua morte costituisce il
punto di partenza per coloro che verranno dopo di lui: i tanti punti di partenza sono la vita che con-
tinua, che si identifica con la tradizione, e ciò vale soprattutto per la vita del teatro. Su questo para-
digma ha fondato il suo lavoro, come persona che pensa e fa un teatro vivo, scontando le sue abi-
tudini teatrali, con rigore e disciplina verso se stesso e gli altri.
L’osservazione instancabile della realtà e l’ascolto degli altri sono orientamenti su cui De Filippo
traccia la via per la sua arte amara e grottesca specie quando la sua comicità esprime i lati dolorosi,
folli del vivere, a cui segue un’amara risata o il silenzio stesso. A esprimere il lato amaro della risata
sono stati sia la testualità drammaturgia sia, ancora di più, l’atteggiamento attorale ereditato dalla
tradizione comica napoletana. Insieme al fratello e alla sorella, per Eduardo è stata fondamentale
la lezione del padre: Scarpetta offriva al pubblico non più lo stereotipo di una maschera che aveva
esaurito la sua efficacia comica, ma un attore «ben vestito» che doveva recitare con prudenza, sen-
za improvvisar ma anche senza rinunciare a lazzi e macchiette. È da questo punto che Eduardo ini-
zia il suo lavoro di riforma, raggiungendo risultati nuovi e unici, come quello di portare a un livello
alto una scena dialettale di origine bassa. A contatto con i vecchi attori manieristi seppe prenderne
le distanze, riuscendo a costruire una grammatica recitativa più asciutta, credibile e realistica, ab-
bandonando la pesantezza del trucco, dell’insistenza sulla retorica locutiva. L’incontro fondamenta-
le con Pirandello fra 1935 e ‘36 spingerà Eduardo a una maggiore sicurezza nell’elaborazione, an-
che tecnico-drammaturgica, del repertorio che vedrà aumentare le commedie scritte in tre atti;
permettendogli anche di superare quell’impostazione farsesca troppo legata agli effetti e a una
comprensione dello svolgimento drammatico che gli aveva assicurato il favore del pubblico. L’in-
contro lo porterà anche a costruire i personaggi protagonisti sempre più sulla propria identità, non
solo umana ma attorale, spingendo il pedale sui toni umoristico-tragici, attento a variare le
metamorfosi e le facce dei singoli personaggi all’interno delle vicende.
Protagonisti sempre più paradossali, sconfitti, antieroici, piccolo borghesi e individui isolati ri-
spetto ai cori familiari o sociali, porteranno in primissimo piano la sua presenza di primo attore an -
che all’interno della compagnia, con la conseguente, inevitabile separazione prima dal fratello Pep-
pino e poi dalla sorella Titina.
I primi testi, raccolti nella Cantata dei giorni pari, sono farse e commedie, che non escludono inter-
venti «a soggetto», scritte in dialetto naturalistico-farsesco. Queste commedie vengono interpreta-
te dal fratellastro Vincenzo Scarpetta, permettendo all’autore un’immediata verifica scenica. Dal
1931 è l’atto unico Natale in casa Cupiello a formare quello che diverrà il nucleo delle sue comme-
die in tre atti: è con questo lavoro che Eduardo inizia a usare i suoi testi per la sua compagnia: scrit-
tura drammaturgica e scrittura scenica si rapportano strettamente. Il farsesco e il comico, venati di
paradossalità, furono le facce che fin qui mostrò il lavoro di De Filippo, ma presto una galleria di
personaggi esclusi dall’ambiente familiare, con le loro pazzi e illusioni portarono Eduardo verso un
umorismo tragico e amaro.
Con Napoli milionaria! (1945) inizia la Cantata dei giorni dispari, a cui seguiranno Questi fanta-
smi!, Filumena Marturano, Le voci di dentro e La grande magia. Questa è la produzione che porte-
rà Eduardo al vertice del teatro italiano, riuscendo a trattare – senza che i neorealistici riescano ad
eguagliarlo – la drammaturgia del «reducismo» con una verità poetica di eccezionale valore, af-
frontando l’abisso della società occidentale dopo i traumi della guerra. Ma i drammi più profondi
sono rappresentati in un contesto di linguaggio teatrale e attorale legato alla tradizione, alla lingua
dell’ambiente napoletano, quasi a nasconderli: un teatro in cui l’umorismo diventa una lama ta-
gliente. In questi testi Eduardo sembra varcare le soglie della misantropia e e del pessimismo, in
realtà dettato dal disgusto in cui gli uomini e il destino hanno ridotto il consorzio civile: questo
gruppo di testi allontanò il pubblico, che sentiva il bisogno della presenza di messaggi evasivi e con-
solatori.
La produzione tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta è polemicamente orientata con-
tro la società dei consumi e del benessere che, a fronte di un miglioramento economico, vede la
perdita di tradizioni e modelli di vita. La critica è rivolta anche ai legislatori, che non sanno tenere il
passo dei cambiamenti sociali imponendo compromessi inaccettabili.
Nei testi degli anni Sessanta e Settanta l’espressione speranzosa cede il posto a una smorfia
amara e angosciata in cui si fondono definitivamente tragico e grottesco, fatti i cronaca e aspetti
surreali: Eduardo continua a esercitare una critica socio-politica disincanta. Anche commedie pre-
cedente vengono riprese e reinterpretate in questa chiave, sotto il segno di un risentimento e di
un’indignazione per tutte le possibilità di rinnovamento e di giustizia che società e politica hanno
buttato al vento.
2 - «In quelle cinque commedie lei può trovare la storia dell’umanità»:
da Gennaro Jovine a Pasquale Lojacono
I personaggi di Eduardo nascono da impulsi conflittuali insiti nel rapporto individuo-società, li fa
agire e parlare collocandoli su un piano sdoppiato: quello del sogno e dell’illusione, e quello della
realtà, della brutalità dei fatti cogenti a cui è difficile resistere o reagire. Sogno e illusione non
come fuga o astrazione dal vivere ma come lotta e volontà di incidere concretamente; e realtà
come complesso di situazioni, forze e poteri che cercano di opprimere l’individuo. Gli «eroi» eduar-
diani ottengono almeno un risultato: dare un giudizio, farsi critici pur nello sdoppiamento. Il diffici -
le, se non impossibile, insediamento dell’illusione nella realtà apre ai personaggi lo spazio al loro
agire critico, almeno per dare un senso al loro vivere.
Napoli milionaria!
Nel nucleo familiare protagonista del testo, Gennaro appare subito come padre e marito «detroniz-
zato», confinato in un anfratto della casa – proprietà della moglie! - filosofeggia inascoltato dai pa-
renti impegnati in diversi, e non propriamente legali, traffici per sostenersi nel difficile periodo bel-
lico. Seppure Gennaro non sia d’accordo con queste attività, alla fine è costretto a piegarsi e a in-
scenare una finta veglia funebre per scansare la perquisizione di un brigadiere. I monologhi scon-
solati di Gennaro preannunciano la forza locutoria con cui il protagonista esploderà solo nel terzo
atto, mentre nel primo il suo parlare è al sopportato e inascoltato.
Gennaro Jovine è disoccupato ed emarginato all’interno della propria famiglia. Pur essendo in
conflitto nell’ambiente in cui vive, lo subisce passivamente, con lo stridente contrasto fra la sua in-
dolenza e l’arrivismo della moglie Amalia. La sua profonda onestà, che infastidisce gli altri, è la sua
vera dote. La morte simulata diventa pretesto per una reale rinascita del personaggio che, dopo un
anno, fa ritorno alla propria famiglia dopo aver passato le più disparate peripezie. Con un costume
che combina simbolicamente i luoghi in cui è passato, Gennaro riappare alla propria famiglia, arric -
chita ma naufragata nella più totale perdita di morale. Ora l’esperienza di Gennaro è reale e può
comunicare la sua devastante esperienza, ma le sue parole infastidiscono lo stato momentaneo di
sfavillante ricchezza della sua famiglia ritrovata. Gennaro è chiamato a combattere contro la disso-
luzione dei propri familiari e la malattia della piccola Rituccia: la speranza che la figlia possa «passa’
‘a nuttata» diventa anche la speranza che insieme a lei possa guarire l’intera famiglia e, simbolica-
mente, che la stessa Italia possa rinascere dall’esperienza della guerra. Un finale ambiguo, che con
la sua incertezza drammatica esprime la speranza di Gennaro-Eduardo nel vedere, nell’orizzonte
storico-sociale, una possibilità di riscatto comprendendo che quando il sogno si radicano nella
realtà effettuale, finiscono per assumerne gli stessi t