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IL GIUSNATURALISMO MODERNO
John Locke (1632 – 1704)
Vive la Rivoluzione inglese e la dittatura di Cromwell.
La teoria della conoscenza: all’interno del “Saggio sull’intelletto umano”, 1690, egli afferma che
l’intelletto dell’uomo, all’inizio, sia una tabula rasa, una sorta di foglio bianco, e che con il passare
del tempo, esso si riempia delle esperienze che l’uomo vive ed elabora razionalmente. Non vi sono
idee innate nell’intelletto umano, e perciò esso è del tutto svincolato dai dogmi.
Nemmeno l’idea dell’esistenza di Dio è un’idea innata: l’idea che Dio esista è un’idea che gli
uomini ricavano dall’esperienza gradualmente, e cioè continuando ad ammirare l’armonia e l’odine
del mondo e constatando che qualcuno ne debba essere l’artefice. E lo Stato non può obbligare gli
uomini alla fede, perché altrimenti verrebbe meno quel processo logico che ogni soggetto deve
compiere per pervenire alla conoscenza di Dio. Lo Stato, dunque, non può influire nelle questioni
spirituali dei cittadini e deve, da una parte, consentire la libertà di culto, dall’altra essere tollerante.
Da questi principi, però, sono esclusi i cattolici, che vogliono rendere lo Stato funzionale alla loro
fede, e gli atei, in quanto i loro giuramenti non sono garantiti da Dio e, perciò, sono esclusi dal
patto che porta alla tolleranza. Quella espressa da Locke è l’idea
dell’autonomia della ragione, uno dei cardini del pensiero illuministico.
La visione dello Stato: tra le opere più importanti “I due trattati sul governo”, 1690. Il suo pensiero
parte dal presupposto che il diritto naturale precede quello positivo, e l’uomo può arrivare al diritto
naturale tramite l’uso della ragione.
Nel “Secondo trattato sul governo” egli sviluppa il proprio pensiero (pars costruens) in
contrapposizione a quello di Filmer (1588 – 1653) che nell’opera “Il patriarca o il diritto naturale dei
re” difende il diritto divino dei re. Secondo lui, infatti, i re sono i discendenti, gli eredi legittimi di
Adamo, e dunque l’ordine naturale sarebbe segnato dalla regalità e dalla paternità. La soggezione
e l’obbedienza sarebbero intrinseci alla natura. Tale visione si oppone chiaramente al
contrattualismo.
Nel “Primo trattato sul governo”, invece, Locke smonta il discorso di Filmer (pars destruens):
sostiene che non vi è un’autorità legittima in natura, ma, per natura, tutti gli uomini sono uguali.
Ciò che, quindi, è legittimo per natura, non è la regalità, la soggezione, l’obbedienza, ma sono la
libertà e l’uguaglianza. Nessuno ha il diritto di limitare la libertà altrui fintanto che rimanga nello
stato di natura. Ne deriva che lo stato di natura inizia a degradarsi non quando
un uomo si erge al di sopra degli altri, ma quando un uomo si abbassa al livello di una bestia
violando la legge naturale e mostrandosi indegno della libertà e dell’uguaglianza.
Nello stato di natura il potere legislativo, cioè il potere di porre la legge naturale, appartiene a Dio,
il potere esecutivo appartiene ad ogni uomo, che quindi può farsi giustizia da solo nei confronti di
chi abbia violato la legge naturale. 15
Dottrina dello Stato
Per quanto riguarda la proprietà, secondo Locke, essa dipende dal lavoro: nello stato di natura
l’uomo si appropria dei frutti del proprio lavoro. La proprietà è strettamente legata alla libertà, ma
non sono concessi sprechi. Sono concesse disuguaglianze, cioè un soggetto può accumulare
beni, dunque averne di più rispetto ad altri soggetti, solo fin tanto che tali beni possano essere da
lui sfruttati. Solo con l’avvento della monetarizzazione le cose cambiano
e si inizia a consentire che un soggetto accumuli beni in modo illimitato, superando il limite del non
poter sprecare. Chi accumula più moneta ha un maggiore potere di scambio, e ciò determina una
disuguaglianza legittima. La monetarizzazione,
quindi, secondo Locke, segna una differenziazione tra gli uomini già a livello di stato di natura: gli
uomini, allora, non sono del tutto uguali nello stato di natura, perché, in via fattuale, si manifestano
delle diseguaglianze. Quelle diseguaglianze che, nella società civile, si concretizzano in diverse
classi sociali.
La proprietà, inoltre, è, secondo Locke, un elemento qualificante e legittimante: solo i cittadini
proprietari hanno il diritto di partecipare alla politica, perché i poveri, che non avendo lavorato non
possiedono nulla, non hanno alcun interesse alla conservazione della società.
Si ha, poi, il passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto.
Tale passaggio è finalizzato, dice Locke, a dare una maggiore garanzia circa la fruizione dei diritti
naturali che, nello stato di natura, hanno una fruizione precaria perché sono costantemente
sottoposti a malversazioni altrui. Lo stato di diritto, quindi, nasce per stabilizzare la legge di natura
e garantirla attraverso il controllo sociale.
Come avviene il passaggio dallo stato di natura allo Stato di diritto?
Lo Stato di diritto può nascere solo con il consenso degli individui. Quando questi entrano in
società fondano un potere legislativo e un potere esecutivo.
Nello specifico, il potere legislativo si basa su un patto fiduciario tra governati e governanti (non su
un patto di sottomissione alla Hobbes), un patto fiduciario sulla base del quale i governati hanno
anche il diritto di revocare il potere dei governanti nel caso in cui questi non lo esercitino in modo
conforme al patto. I
detentori originari del potere, infatti, sono i governati, e questi decidono di affidarlo ai governanti
solo perché questi proteggano i diritti naturali, tra cui la proprietà.
Per quanto riguarda, invece, il potere esecutivo, ad esso deve essere riconosciuta una certa
discrezionalità in vista del bene pubblico, e deve poter agire anche nei casi di vuoto del potere
legislativo, perché il suo fine è il governo. Essendo, però, tale potere tanto indipendente dal potere
legislativo, esso deve essere legittimato dai cittadini, e questi lo legittimano sottoponendovisi e
obbedendovi.
Qualora i cittadini dovessero riscontrare degli abusi nell’esercizio di tale potere, l’unico strumento
che potrebbero attivare è il diritto di resistenza, cioè la ribellione (extrema ratio), considerata da
Locke uno strumento legittimo, e questo al contrario di Hobbes. Per Locke lo stato di ribellione non
è da imputare ai governati, ma ai governanti perché evidentemente questi non hanno saputo
gestire bene il loro potere e hanno riportato lo stato di guerra tra gli uomini.
Rousseau (1712 – 1778)
Per Rousseau lo stato di natura non ha, in sé, nessun elemento che possa giustificare la
fondazione dello Stato moderno. A suo avviso la natura è buona ed è creata da Dio, la
civilizzazione dello Stato è un processo degradante, di corruzione: le scienze e le arti
allontanano l’uomo dal suo stato di innocenza e di bontà naturale.
Nello stato di natura l’uomo non pensa solo a se stesso, ma nutre anche pietà e compatimento per
gli altri uomini; non concepisce l’invidia e la diffidenza, perché vive da solo; sviluppa la ragione e la
socievolezza solo a seguito della civilizzazione.
Rousseau ha una concezione molto ristretta di ciò che è naturale. La famiglia, ad esempio, non è
naturale secondo lui, se non in una primissima fase, e cioè quando ha il compito di accudire il
bambino appena nato che, altrimenti, non sarebbe in grado di sopravvivere.
16
Dottrina dello Stato
Nemmeno la proprietà, per Rousseau, ha fondamento naturale: la nascita della proprietà privata
rappresenta un momento di rottura dello stato di natura.
Anche le guerre non appartengono allo stato di natura: esse scoppiano nella civilizzazione, che
non è un evento necessario che deve seguire lo stato di natura, ma è un evento fattuale: può
verificarsi come no. In ogni caso, ciò su cui insiste Rousseau è che una volta
stabilizzatosi lo stato di diritto, la civilizzazione, lo stato di natura non può essere
restaurato. Ma non tutto è perduto: tramite l’uso della ragione l’uomo può recuperare ciò di cui
avrebbe potuto godere nello stato di natura e, così, migliorarsi.
L’uomo può recuperare la libertà e l’uguaglianza che, abbandonando lo stato di natura, aveva
perso, e può fare ciò attraverso il contratto sociale.
Il governo deve basarsi sul consenso (impostazione diversa da quella di Locke) e il comando e
l’obbedienza sono elementi del consenso degli uomini che, di per sé, nascono liberi. Il consenso
che Rousseau pone alla base della società è un “consenso esigente”, perché esso non può
limitarsi ad essere un volontario asservimento al governante: non è valido un pactum subiectionis,
perché esso presuppone la rinuncia alla libertà e, perciò, è un patto nullo. La proprietà è alienabile,
la libertà no. La proprietà non è naturale, la libertà sì, perché viene da Dio. E’ necessario, quindi,
un pactum societatis: attraverso di esso l’uomo non rende la propria libertà alienabile, ma
semplicemente rinuncia a parte di essa, senza che ciò possa significare la sottomissione a
qualcuno, in quanto tutti operano tale rinuncia e da tale rinuncia comune derivano dei vantaggi
reciproci.
All’interno dello stato civile, quindi, la libertà naturale non viene soppressa, ma viene trasformata
nell’obbedienza ad una legge che gli uomini stessi si autoimpongono. La libertà naturale diventa
una libertà morale, e questo anche sulla base degli spunti di un’altra opera di Locke: l’ “Emilio”.
Tramite il contratto sociale gli uomini non si vincolano l’uno all’altro, come in uno stato di
soggezione, ma costituiscono un corpo unitario che è contemporaneamente sovrano e suddito.
Ne deriva che la sovranità è popolare perché i cittadini non si limitano ad essere una sua lontana
fonte, ma esercitano il potere in modo continuato e attraverso l’espressione di una volontà
generale, che non è la semplice somma di volontà particolari, ma è la volontà dell’uomo civilizzato.
Infine, nello stato civile la libertà è garantita se sussistono le seguenti 2 condizioni istituzionali:
a) Indivisibilità della sovranità,
b) Completa partecipazione dei cittadini al potere.
Guardiamo, ora, ad un