Diritto privato - efficacia reale
Anteprima
ESTRATTO DOCUMENTO
quattro e alla forma tre articoli. Ma come se non bastasse il codice non definisce la causa in questi
tre articoli. Per molti studiosi la causa è definita “la funzione economico-sociale del contratto” per
esempio causa della compravendita è lo scambio di cosa contro prezzo. Ma questa è la funzione
dell’intero contratto come fa un requisito a coincidere con la funzione dell’intero atto?
In mancanza di una disposizione apposita si deve far ricorso all’analogia, ma apparentemente non
sembra esserci una simile materia. La risposta va ricercata nella storia.
Perché il principio dell’efficacia reale si chiama così?
Nel corpus iuris civilis il termine causa assume diverse connotazioni. Parlavano di causa nel spiega-
re l’effetto traslativo della traditio, attività materiale che comporta la consegna di una porzione ma-
teriale del mondo esterno. La datione non sempre comporta il trasferimento della proprietà, per e-
sempio il comodato non trasferisce la proprietà. Dunque i romani per distinguere i due casi intro-
dussero il concetto di iusta causa traditionis. Che opera qualora la traditio si basi su un contratto che
obbliga a far acquistare la proprietà. Causa è sinonimo di contratto giustificativo della consegna a
scopo traslativo. Dunque non è la causa da noi ricercata, in quanto requisito del contratto non può
identificarsi con questo. Ma è in tale definizione che risiede l’errore del considerare la causa quale
la funzione economico sociale.
Un'altra accezione di causa è posta in una brano del Digesto che riporta un’opera di Ulpiano giurista
del III sec. d.C. che riferisce un commento di Labeone giurista del I sec. a.C. relativo all’editto. In
tale commentario Labeone definisce tre concetti da questo usati. Sono i participi passati dei verbi:
agere, cumtrahere e gerere.
L’actum (da cui deriva il moderno atto) indica il compimento di una azione solenne da parte di un
solo soggetto che produce conseguenze giuridiche, l’esempio portato da Labeone è la sponsio.
Il contractum (da cui deriva il contratto) è paragonato ai verbi ob ligare (obbligazione) e siunallas
(sinallagma). I tre termini sono sinonimi e vogliono dire legare insieme. Indica l’azione solenne di
più persone, almeno due, che produce conseguenze, l’esempio portato è quello della emptio vendi-
tio, la locatio e il mandatum.
Il gestum (figura non disciplinata dal nostro codice) è un quid che si verifica senza l’attività
dell’uomo.
Dopo circa trentenni un altro giurista riprende tali definizioni in termini non più di participi passati
ma di sostantivi e si chiede se qualunque contratto (cioè comportamento di due soggetti) produce
conseguenze nell’ordinamento giuridico? Tale giurista dice che se l’accordo ha un nome (cioè se è
nominato nell’editto del pretore, è dunque tipico) segue l’azione, se non ha un nome produce con-
seguenze subsit tamen causa (se sussiste la causa). Dunque solo gli accordi forniti di causa produ-
cono conseguenze. In questa accezione la causa è qualcosa che si aggiunge all’accordo e non si i-
dentifica con questo. È il concetto di causa da noi ricercato. La causa sussiste quando il soggetto
che fa qualcosa (res da qui il nome effetto reale) non la fa solo nell’interesse di chi riceve ma anche
nel suo interesse. Solo i contratti sinallagmatici detti a prestazioni corrispettive sono ad effetti reali.
Per esempio nel contratto di compravendita alla consegna segue il pagamento del prezzo. La datio è
priva di effetto reale quando è fatta esclusivamente nell’interesse di chi riceve (donazione) e dunque
quando manca il negozio, nonché la causa. Causa è sinonimo di negozio. Il negotium è la negazione
dell’otium è l’attività più illustre tipica della classe patrizia, è l’attività intellettuale o quella agrico-
la. Il nec otium è l’attività del commercio, dei plebei.
Dunque i contratti che possiedono una causa sono quelli per i quali è identificabile un affare. Ciò
che produceva conseguenze giuridiche non era l’accordo o la datione ma la causa. Ecco che nasce la
categoria dei contratti a effetti reali. Tutti quei contratti che non esprimono un affare (il commodato,
il mutuo) e che non hanno la loro fonte esclusivamente nel consenso ma nella datione invece sono
detti reali. Sono contratti unilaterali dal punto di vista passivo, cioè la prestazione è dovuta da un
solo soggetto. Il contratto reale non rientra nel modello dell’art 1325 in quanto pecca di causa, il
consenso non è sufficiente e non è richiesta una forma particolare, solo una consegna.
Nel nostro ordinamento l’accordo da solo non produce conseguenze. Infatti l’art 1376 afferma che il
trasferimento è frutto di un mero accordo, ma di un accordo legittimamente manifestato, cioè inseri-
to nella struttura contrattuale, consenso supportato da una causa, una forma e un oggetto. La presta-
zione (detta res) è frutto del consenso legittimamente manifestato. In tutti i contratti che non sono
ad effetti reali l’effetto traslativo si verifica per altri requisiti che vanno a sopperire la mancanza di
causa. Per esempio nella donazione ciò che opera è la forma solenne, altri contratti detti reali richie-
dono la consegna del bene.
Dunque il nostro codice in realtà disciplina una serie di modelli di contratti:
1) la donazione: costituisce un modello a sé stante che non richiede accettazione. Costantino fu
il primo ad introdurlo nell’ordinamento
2) un quid costituito da quattro elementi (art 1325)
3) contratto reale: richiede la consegna del bene
4) contratto di società: disciplinato nel libro V. non presuppone interessi configgenti tra i con-
traenti, ma convergenti.
Il concetto di causa in realtà è rintracciabile, per motivi storici nell’art 1376 dedicato al contratto
con effetti reali “”nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa de-
terminata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro di-
ritto (di credito), la proprietà o il diritto si trasmettono si trasmettono e si acquistano per effetto del
consenso delle parti legittimamente manifestato”.
Per molti studiosi tale articolo è una norma di principio che nella pratica non trova applicazione.
In quanto non si applica in materia di beni mobili (qui ciò che determina il trasferimento è il posses-
so), in materia di immobili (ciò che rileva è la trascrizione), di diritti reali di garanzia (si costitui-
scono l’ipoteca con l’iscrizione e il pegno con la consegna del bene pignorizzato). Per alcuni studio-
si il mutuo ha efficacia reale, ma oggetto del mutuo è un bene fungibile, e questo non è una cosa de-
terminata come è richiesto dall’art 1376, inoltre il mutuo non si perfeziona con il consenso ma con
la consegna.
Leggendo attentamente l’art 1376 si nota che vi è un insieme di principi non espliciti:
- non c’è alcun riferimento al possesso
- non gioca alcun ruolo l’atteggiamento psicologico
- occorre che ad alienare sia il proprietario
La dottrina considera l’art 1376 una norma di principio, che concretamente non trova attuazione.
Art 1153 “colui al quale sono alienati beni 1) fondamento dell’acquisto è il possesso
mobili da parte di chi non ne è proprietario, 2) alienante deve essere il non proprieta-
ne acquista la proprietà mediante il possesso, rio
purchè sia in buona fede al momento della 3) occorre la buona fede dell’acquirente
consegna e sussista un titolo idoneo al trasfe- 4) occorre un titolo idoneo di trasferi-
rimento della proprietà”. mento
Art 1376 “nei contratti che hanno per oggetto
il trasferimento della proprietà di una cosa de- 1) non parla di possesso
terminata, la costituzione o il trasferimento di 2) l’alienante deve essere il proprietario
un diritto, la proprietà o il diritto si trasmetto- 3) non ha alcun valore lo stato psicologi-
no e si acquistano per effetto del consenso co
delle parti legittimamente manifestato”
Non è l’art 1153 una eccezione anche perché parlandosi di usucapione istantanea è un modo di ac-
quisto originario che non può essere un’eccezione di un modo d’acquisto derivativo.
La prova che non si tratti di una eccezione all’art 1376 la si trova in quanto disciplinato all’art 1154.
questo afferma che colui che conoscendo della illegittima provenienza del bene lo acquista facendo
affidamento sull’erronea credenza che l’alienante ne sia diventato proprietario secondo l’art 1153
Norma imperativa: norma che non ammette deroghe, tutto ciò che ad essa è contrario è soggettoa
nullità.
Ordine pubblico: principi fondamentali dell’ordinamento. Sono norme di carattere generale e pena-
le che le regole civilistiche non possono derogare.
Buon costume: libertà della persona che attiene alla sfera sessuale. Sono atti contrari al buon co-
stume tutte quelle regole che vincolano la libertà sessuale.
La distinzione è importante per le conseguenze a cui va incontro l’atto. Chi ha adempiuto un con-
tratto contrario a norme imperative o all’ordine pubblico, essendo questo nullo, può chiedere al re-
stituzione di quanto da lui dato. Se il contratto è contrario al buon costume, non può esserci ripeti-
zione, espressamente vietato dal codice.
Successione necessaria
Nel diritto romano tradizionalmente si privilegiava la piena autonomia del pater familia, os-
sia questo non era obbligato a lasciare una parte del suo patrimonio ai figli o al coniuge. Di-
vennero così sempre più frequenti i fenomeni di diseredazione . Ecco che con il tempo i sog-
getti lesi dalle disposizioni del pater familia iniziarono a chiedere all’imperatore la dichiara-
zione di nullità del testamento, attraverso l’instaurazione di un processo extra ordinem, so-
stenendo l’incapacità naturale del testatore. Questa era dimostrata dalla disposizione di attri-
buzione del suo patrimonio ad un soggetto estraneo alla sua famiglia (Quarella inofficiosa te-
stamenti sub coloriae insaniae). Così i cittadini romani più ricchi per evitare che il loro te-
stamento venisse dichiarato nullo prevedevano dei lasciti a favore dell’imperatore. (da cui
derivava la tassa che verteva sulle disposizioni testamentarie, oggi non più prevista). Il rime-
dio di rendere nullo l’intera disposizione testamentaria viene evidenziato da Giustiniano nel
corpus iuris civilis. È però un rimedio eccessivo, poiché sacrifica l’autonomia del testatore. I
giuristi medievali trovatisi davanti a questo estremismo adottano un rimedio intermedio ela-
borato da Socino, giureconsulto del cinquecento. Propone di dividere il patrimonio in due
parti, una detta indisponibile che doveva necessariamente andare ai soggetti detti legittimari
(coniuge dopo la riforma, discendenti e in mancanza di questi ascendenti) e l’altra disponibi-
le. Tale soluzione va a coniugare l’autonomia del de cuius e l’interesse dei prossimi congiun-
ti. Nella codificazione francese, che vuole far rivivere il diritto romano ecco che sorge il pro-
blema se tutelare o meno i legittimari, dunque se attenersi rigorosamente al diritto romano o
no. Il codice 1804 opta per l’introduzione della soluzione sociniana. Viene così introdotta la
successione necessaria chiamata così perché necessariamente deve garantirsi ai legittimari
una quota del patrimonio del de cuius. La successione necessaria non è però un terzo tipo di
successione rispetto a quella legittima e a quella testamentaria, bensì un correttivo di entram-
be. In quanto il soggetto può andare a ledere l’interesse dei legittimari non esclusivamente
con la disposizione testamentaria, disponendo delle sue sostanze a favore di soggetti diversi
dei legittimari, ma anche in caso di successione legittima, sperperando il patrimonio attraver-
so numerose donazioni compiute in vita.
testamento?
Da dove deriva il nome
È una scoperta recente. Ricordiamoci che il nostro codice si fonda sul codice Napoleo-
ne e che questo a sua volta ha le sue radici nel diritto Giustinianeo. Intorno al 1814 uno
studioso leggeva dei manoscritti nella biblioteca di Verona e trovò un’opera di san Ge-
rolamo. Si trattava di un palinsesto (= blocco di papiro, che prima dell’invenzione della
stampa, i monaci amanuensi imbiancavano e riutilizzavano per la trascrizione di nuove
opere). Tale studioso si accorse che le lettere del santo, nascondevano uno scritto più
antico. Così cercò di cancellarle con appositi strumenti per ottenere l’opera originaria,
da queste nascosta. Scoprì che era un manuale di diritto romano del II secolo d.C.
L’opera era un libro delle Istitutiones di Gaio che sembrava un modello al quale si era
ispirato Giustiniano. I giuristi studiando tale manoscritto scoprirono che la società giu-
ridica del II secolo era diversa da quella descritta da Giustiniano. Scoperta questa molto
importante perché significava che l’ordinamento giuridico romano si era profondamen-
te modificato nel tempo, concezione questa sconosciuta fino ad allora. L’opera era
composta da quattro libri: sulle persone, sulla proprietà, sui modi con cui diventare pro-
prietario e una sorta di manuale di procedura civile. Gaio affronta gli istituti del suo
tempo in chiave storia, partendo dalle origini. Grazie a Gaio scopriamo da dove deriva
il termine testamento. Ai tempi di Gaio il testamento si faceva secondo un particolare
forma solenne che è l’adattamento di un istituto, mancipatio, usato dai romani per ogni
atto. Il testamento si chiamava mancipatio familiae. Il termine familia, nel periodo ro-
mano, non indica un gruppo di persone legate da un vincolo di sangue, ma comprende-
va tutto ciò che era soggetto alla patria potestas. Dunque, beni, animali, schiavi…
L’atto si chiude con un’invocazione solenne del testatore (verba solemnia) “vi ordino
di offrirmi testimonianza o cittadini romani”(peribetote mihi testes quirites). Il termine
testamento gioca sulla presenza di testimoni detti in latino testes.
Il termine peribeo deriva da iubeo che vuol dire ordinare, comandare. Quirites era
l’appellativo più antico, anteriore alla legge delle XII tavole, con cui si chiamavano i
romani. È una traslitterazione del termine vires (= uomini). Nel latino arcaico non vi era
differenza tra la v e la u, quindi tra vir e uir. Probabilmente un tempo la parola era pre-
ceduta dalla lettera Q, quindi quir. Di conseguenza i romani anticamente si chiamavano
uomini. Non è dunque un caso che Romolo venisse chiamato Dio Quirino.
La mancipatio famigliae trova i suoi antenati nei testamenti arcaici del calatis comitis e
in procictu.
L’istituto del calatis comitis rimasto in vigore fino al III secolo a.C. si svolgeva due
volte l’anno. La parola comitium, plurale comitia, deriva da comites (= compagni). I
comitia erano le assemblee legislative. Tito Livio, vissuto (due secoli prima di Gaio) al
tempo di Augusto, racconta la leggenda secondo la quale Romolo, all’interno del confi-
ne ideale di Roma affidò due ettari di terreno ad un cinquantina di compagni (il nucleo
originario e fondante della comunità). A questi comites, spettavano le funzioni di con-
sultazione e decisione. I comitia venivano consultati dai magistrati ad rogationem sulla
emanazione o meno di una determinata legge. Chiamate per questo leges rogate. Il co-
mitium era dunque l’organo legislativo fondato su base successoria. Il comitium era
convocato oltre che ad rogationem, anche ad relationem (per ascoltare le proposte dei
magistrati) e ad contionem (per discutere su materie diverse dalle legificazione). Quelli
convocati per i calatis comitis erano convocati ad contionem. Avevano la funzione di
ascoltare le volontà testamentarie e di offrire la loro testimonianza. Lo scopo del testa-
mento calatis comitis era quello di indicare chi dopo la morte del defunto avrà il diritto
a sostituilo nella assemblea (eres= era il nome di colui che acquistava tale diritto, che
non coincideva per forza con il figlio del defunto). Con il tempo tale forma testamenta-
ria cadde in desuetudine. In quanto rivolta solo a i comites (cioè ai patres, i senatori) e
poi perché svolta solo due volte l’anno. Anche il testamento in procictu, che segui
quello calatis comitis, si concludeva con la formula “peritetote mihi testes quirites”. Il
termine indica il momento che precede la battaglia, quando l’esercito si schiera davanti
al nemico. Ricordiamo che l’esercito romano, originariamente, era formato dagli stessi
patres. Il testamento in procictu consisteva nella dichiarazione dell’attribuzione della
propria famiglia ad un soggetto (considerata l’alta possibilità di trovare la morte nella
battaglia). Venuti meno tali testamenti si tramandò all’interno dei mancipatio familiae, i
verba solemnia.
Accettazione e rinuncia
L’art. 480 afferma “il diritto di accettare l’eredità si prescrive in dieci anni”. Questo è un
termine di prescrizione o di decadenza?
La prescrizione è un modo di estinzione dei diritti che l’ordinamento prevede per diversi
motivi, uno dei quali è quello di sanzionare un comportamento del soggetto che si disin-
teressa di un suo diritto (inerzia). Caratteristiche della prescrizione sono gli istituti della
sospensione, si applica quando il titolare ha delle ragioni per le quali non può esercitare il
suo diritto e l’interruzione che azzera il decorrere del tempo.
La decadenza indica quell’attività che deve porre un soggetto per fare entrare un diritto
nel suo patrimonio.
Differenze: la decadenza non ha connotato sanzionatorio e non vi si applicano gli istituti
della sospensione o dell’interruzione. Inoltre nella prescrizione il diritto è già entrato nel
patrimonio nella decadenza no.
Il termine previsto dall’art. 480 è dunque un termine di decadenza in quanto è un qualco-
sa che deve fare il soggetto per far entrare un bene nei suoi diritti. A dimostrazione di ciò
non si applica l’istituto della sospensione, caratteristica della decadenza.
L’art. 649 afferma “il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di
rinunziare”. Per rinuncia si intende la dismissione di un diritto che un soggetto ha già.
Il legatario ha 10 anni per porre la rinuncia.
Il codice prescrive all’art. 827 che i beni immobili privi di titolarità spettino al patrimonio
dello Stato. L’art. 923 prevede invece che i beni mobili privi di titolarità si acquistano
con l’occupazione. Sono res nullius.
Se facciamo riferimento al termine rinunzia previsto dall’art. 649 si dovrebbe applicare il
meccanismo sopra descritto per i beni facenti oggetto del legato a cui il legatario ha ri-
nunciato. Ma non è così, in quanto se il legatario rinuncia ad un bene o ad un diritto de-
terminati questi restando nel patrimonio del de cuius, passando così all’erede. Si dovreb-
be dunque, parlare non di rinunzia ma di rifiuto, meccanismo acquisitivo con il quale il
soggetto impedisce che un diritto entri nel suo patrimonio. Ma non essendo considerato,
nell’ordinamento giuridico, il silenzio quale assenso, come viene manifestata la volontà
di accettare il legato?
Il codice prevede esplicitamente due ipotesi nelle quali il legislatore da rilevanza negozia-
le al silenzio:
1. art. 1236 la remissione del debito
2. art. 1333 contratto con obbligazione del solo proponente
il silenzio ha rilevanza poiché in seguito a questi istituti il soggetto che manifesta il silen-
zio riceve esclusivamente un vantaggio.
Considerando che anche il legatario dal legato riceve esclusivamente un vantaggio, non
essendo tenuto al pagamento dei debiti ultra vires, possiamo desumere che anche
nell’istituto del legato il silenzio abbia valore negoziale.
Distinzione mobili e immobili
Perché nel nostro ordinamento esiste la distinzione tra beni immobili e perché è richiesto un si-
stema formale solenne e di trascrizione per gli atti che hanno ad oggetto beni immobili?
La risposta va cercata nelle origini storiche della distinzione. Già nella lex XII tabularum alla
tavola sesta si parla di beni immobili e mobili:
“l’uso e l’autorità dei fondi sarà due anni, di tutte le altre cose un anno”.
I romani nella realtà, nella vita di tutti i giorni, non si basavano su tale distinzione, ma distin-
guevano le res mancipi dalle res nec mancipi. Le res mancipi erano quei beni per il cui trasfe-
rimento era necessaria una cerimonia solenne, la mancipatio detta anche mancipium. Proprio
dal termine mancipium deriva la denominazione res mancipi. Mancipatio è il risultato
dell’unione di due termini: manus e capio. Dunque manu capere, ossia prendere con la mano.
Con l’abolizione della mancipatio i giuristi medievali non attuarono più tale distinzione, e si
convertirono a quella tuttora vigente tra beni mobili ed immobili. Gaio nel suo istitutiones de-
scrive la cerimonia così:
“Vi è poi la mancipatio della quale sopra abbiamo già detto (Gaio ha già parlato della macipa-
tio a proposito del matrimonio), una sorta di immaginaria vendita (ricordiamoci che è un pa-
ragone errato in quanto si parla di vendita solo con al coniazione della moneta avvenuta nel III
a.C.) la qual cosa (la mancipatio) è soprattutto un istituto (=ius) proprio dei cittadini romani
(ius civile, la cerimonia non è fruibile dagli stranieri) che così si svolgeva: davanti a non meno
di cinque testimoni che dovevano essere cittadini romani e puberi (maggiori di 14 anni) e da-
vanti ad un altro soggetto della sua condizione (probabilmente faceva parte dei collegi pontefi-
ciali) il quale tiene ( da teneo= tenere sollevato da terra) la libra (= la bilancia a doppio piatto)
e si chiama portatore della libra (=libripens). Colui che acquista con la mancipatio
(=mancipio accipiens, contrapposto al mancipio dans) tenendo --- (= parola di tre lettere che
non ci è pervenuta, alcuni pensano sia eum ossia l’oggetto del trasferimento, altri che sia aes, la
moneta) così dice: (le parole anche nel testo originale sono scritte in maiuscolo, per eviden-
ziarne l’imporatanza, sono i verba solemnia) io affermo solennemente che questo schiavo è mio
(è una affermazione errata perché l’oggetto si trasferirà al mancipio accipiens solo con la con-
clusione della cerimonia) ex iure Quiritium (secondo quanto di più sacro esiste
nell’ordinamento giuridico romano, il diritto dei maiores, dei Quirites) e questo sarà preso
(emptus esto= imperativo futuro) da me con questo pezzo di bronzo (=aes) e con la bilancia di
bronzo. Dopo di che percuote con il pezzo di bronzo la libra (tenuta in mano dal libripens) e
quindi dà il pezzo di bronzo a colui dal quale sta acquistando come se si trattasse del paga-
mento del prezzo.”
Le res mancipi per Gaio sono tutti i fondi posti in italico suolo, tutti gli animali appartenenti ai
generi equino e bovino, gli schiavi e tutto ciò che serve alla coltivazione del fondo (tutte le co-
se che quando Romolo fondò Roma erano ammesse nella domus e poste per la sua utilità). Tut-
ti gli altri beni sono res nec mancipi, cose per il cui trasferimento non è richiesta la mancipatio.
La ragione della distinzione non è data dal maggior pregio economico delle res mancipi. Ma
dal valore della cerimonia conferito dalla presenza dei testimoni. Dunque la mancipatio è stata
creata per distinguere l’identità di una cosa da un’altra. Questa era la funzione dei testimoni.
Era riservata solo alle res mancipi perché che senso ha stabilire un sistema di controllo su quei
beni che non sono distinguibili dall’uomo comune? Per esempio come si fa a testimoniare che
quel diamante sia stato l’oggetto della mancipium e in realtà non lo fosse stato un altro diaman-
te? Ed ecco perché vi è la distinzione tra immobili ed mobili e soprattutto perché i primi sono
sottoposti ad un regime particolare di formalità e pubblicità. In quanto si è in grado di distin-
guere un appartamento da un altro, ma non un tavolo da un altro.
“e questo sarà preso (emptus esto= imperativo futuro) da me con questo pezzo di bronzo
(=aes) e con la bilancia di bronzo.”
L’uso dell’imperativo futuro sottolinea la nascita di una obbligazione in capo al mancipio dans
derivante dalla dazione del aes, della moneta. Ma perché dovrebbe nascere una obbligazione se
in seguito al pagamento del prezzo questa si dovrebbe estinguere?
Dunque perché si usa l’imperativo futuro? E che obbligazione nasce?
I giuristi medievali ritengono che l’imperativo futuro derivi da un errore di copiatura degli a-
manuensi, dunque correggono esto con est. Ma molti studiosi ritengono che non si tratti di un
errore.
La risposta va cercata nella figura dell’auctor. L’auctor era colui che convocato apud iudicem
con il convenuto doveva garantire l’affermazione di questo. Se si rifiutava di presentarsi era
condannato al pagamento di una somma di denaro pari a quattro volte il valore della cosa ad
oggetto della lite. L’unica testimonianza di questa figura ci perviene da l’arringa (azione intra-
presa dall’avvocato a difesa del proprio cliente) di Cicerone “pro Murena”. Murena era un con-
sole accusato di aver falsificato l’esito delle votazioni che gli hanno conferito tale carica. Nelle
prime battute Cicerone spiega il perché abbia accettato la difesa. Cicerone (console predecesso-
re di Murena che dunque aveva il compito di controllare il buon esito delle elezioni) dice di
sentirsi auctor e non avvocato, e si è sentito spinto a presentarsi in giudizio sulla base del ne-
xum. Questo è un istituto che venne abolito nel III sec. a.C. con la lex Proetelia Papiria. Essen-
do Cicerone del I sec. a.C. perché cita un istituto non più in vigore? In realtà si pensa che in
nexum non venne abolito ma fuso con la mancipium. È un negozio per aes et libram, per cui un
soggetto debitore, pur restando persona libera, era subito assoggettato al creditore, sin quando
non avesse con il suo lavoro scontato il debito oppure con il pagamento soddisfatto il creditore.
Colui che riceve una somma di denaro assume l’obbligo di farsi auctor. Ecco perché il manci-
pio accipiens nel dare il aes al mancipio dans usa l’imperativo futuro. Perché allude alla nascita
del vincolo. Dunque Cicerone si ritiene auctor perché avendo ceduto la sua carica di console a
Murena ne è il mancipio dans e dunque auctor.
Diritti reali
Il libro terzo del codice civile non inizia con la definizione di diritto di proprietà, ma si apre
con la definizione della nozione di bene. Questo perché i bene rappresentano l’oggetto del di-
ritto di proprietà.
I diritti reali appartengono alla categoria più ampia dei diritti assoluti (contrapposti ai diritti re-
lativi), ossia quei diritti validi erga omnes. Ma essendo difficile individuare il soggetto passivo
della relazione, trattandosi della collettività, si optò per definire il rapporto reale un rapporto
non con un soggetto, ma con una cosa, una res. Da cui il termine reale. Dunque si tratta di un
diritto che il soggetto esercita direttamente sul bene. Ricordiamoci però che anche i diritti reali
sono poteri che si esercitano nei confronti di un’altra persona. Una persona che viene in rilievo
successivamente all’acquisizione del diritto. Il soggetto che va a violare tale diritto. La distin-
zione tra diritti reali e diritti relativi risale all’epoca medievale. I romani ragionavano in termini
di actiones. Distinguevano tra actio in rem, azione a tutela dei poteri sulle cose esperibile erga
omnes, e actio in personam, esperibile verso una persona determinata (il debitore).diritto reale
per eccellenza è il diritto di proprietà. Gli altri diritti nascono come derivazione o della facoltà
di godimento (diritti reali di godimento) o di quella di disposizione (diritti reali di garanzia).
Nascita del concetto di proprietà
In principio, prima del III secolo a.C. tutti i poteri spettanti al cittadino romano, dotato di capa-
cità sono riconnessi all’idea di patria potestas. In tale ambito con il tempo i giuristi distinguono
due poteri assoluti in capo al pater familia:
1) poteri fondati sull’affectio => diritto di famiglia
2) poteri basati sul mero tornaconto economico => dominium
il termine dominium deriva da dominus, il titolare del potere, che a sua volta deriva da domus
(=casa). Nel III secolo d.C. compare il termine propietas. È proprietario colui a cui spetta
l’azione tipica della proprietà: la rei vindicatio. Dal dominium nacquero a poco a poco gli altri
diritti reali, quali limitazione del potere assoluto (ius utendi atque abutendi) del dominus.
Poteri del proprietario
Art 832 “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo,
entro i limiti stabiliti dall’ordinamento giuridico”
Dunque il diritto di proprietà è presentato come la somma di due facoltà:
1)godere: il proprietario decide il modo con cui utilizzare il bene oggetto del suo diritto. Da
questa facoltà nascono i diritti reali di godimento, il più ampio dei quali è l’usufrutto
2)disporre: è il diritto di appropriarsi del valore di scambio del bene. Da qui nascono i diritti
reali di garanzia.
Il diritto di proprietà attribuisce al titolare il più ampio potere, tra i rapporti giuridici di natura
patrimoniale. Questi è l’unico diritto patrimoniale non soggetto a prescrizione, dunque il pro-
prietario può non usare il suo bene senza per questo perderne la titolarità.
Limiti del proprietario
Che limiti incontra il proprietario?
Art 833 “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere
o recare molestia ad altri”.
Art 840 2° comma “il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano
a tale profondità nel sottosuolo o tale altezza nello spazio sovrastante che egli non abbi inte-
resse ad escluderle”
Dunque il limite è quello posto dallo stesso interesse del proprietario
Le proprietà
Il codice dopo aver introdotto l’oggetto del diritto di proprietà, e dopo aver definito
quest’ultimo, prosegue distinguendo tra due modi in cui si struttura il diritto di proprietà:
1) proprietà fondiaria (art 840 e seguenti)
2) proprietà edilizia (art 869 e seguenti)
lo stesso codice sembra legittimare l’esistenza di più forme di proprietà, sulla base del diritto
romano, distaccandosi invece dal code civil del 1804.
Modi di acquisto della proprietà
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher luca d. di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto Privato e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università La Sapienza - Uniroma1 o del prof Scienze giuridiche Prof.
Acquista con carta o conto PayPal
Scarica il file tutte le volte che vuoi
Paga con un conto PayPal per usufruire della garanzia Soddisfatto o rimborsato