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La punibilità del tentativo di reato
Nel primo caso l'azione non si compie, nel secondo l'evento non si verifica. Comunque entrambe le ipotesi rientrano sotto l'articolo 56 del Codice Penale: "Chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica".
Quali sono le ragioni alla base della scelta di punire atti che non sono pervenuti al risultato avuto di mira e di punirli in misura minore di quanto avrebbe comportato il delitto perfetto, dando vita ad una autonoma figura di illecito? Ci sono due teorie in merito:
- Concezione positivistica: ciò che conta è la pericolosità sociale manifestata dal soggetto che tiene un comportamento obiettivamente deviante da certe regole. Il soggetto in questione deve essere posto nell'impossibilità di nuocere. La conclusione cui giunge tale concezione è che chi ha tentato di commettere un delitto è altrettanto pericoloso di chi ha portato a termine il delitto.
- Concezione oggettiva: il tentativo di reato viene punito in misura minore rispetto al delitto perfetto perché non si è raggiunto il risultato finale. La pena viene quindi ridotta in proporzione all'effettiva pericolosità sociale del reato tentato.
avrà tentativo, non delitto realizzato. Alla realizzazione manca il requisito di un apprezzabile protrarsi nel tempo della condotta che lede l'interesse alla libertà di locomozione. Una volta maturato questo connotato cronologico, l'illecito è realizzato. Ciò posto, possiamo aggiungere alla formula che contrappone il tentativo al delitto perfetto, la precisazione che negli illeciti istantanei è perfetto quello del quale è lecito dire, indifferentemente, che è realizzato o consumato. I 2 aggettivi esprimono la stessa realtà. Se l'illecito è permanente, il tentativo si verifica prima della realizzazione, non della consumazione. Si può dire in conclusione che il tentativo è volto alla commissione di un reato alla quale non si perviene per cause indipendenti dalla propria volontà. Ed è questa, in sintesi, la formula strutturale dell'art. 56 cp. Anche qui però occorre precisare:
secondo il linguaggio del legislatore, commettere un reato significa rendersi autore dell'illecito, ossia realizzare gli elementi costitutivi essenziali della figura criminosa. Se nonché, in forza dell'efficacia incriminatrice delle norme sul concorso di persone nel reato (artt. 110 e ss.), risponde di tentativo non solo chi ha cercato di commettere personalmente un delitto, ma anche colui che ha cercato che altri lo commettesse. La portata dell'art. 56 c.p. La definizione della struttura del tentativo segna, nell'attuale art. 56 cp, un deciso mutamento di rotta rispetto alla formulazione del codice Zanardelli: art. 61 del codice Zan: esigeva, per la punibilità a titolo di tentativo, il cominciamento, l'inizio di esecuzione del delitto avuto di mira. Art. 56 cp.: sostituisce al criterio di inizio di esecuzione, quello della realizzazione di "atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto". Fermiamo la nostra attenzione.sull'art 56. Alla stregua della regola della tassatività (regola costituzionale), essendo assolutamente preclusa l'estensione analogica di una disposizione incriminatrice, se non fosse previsto l'istituto del tentativo, la condotta volta a porre in essere un delitto che, per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, non sortisse l'effetto voluto, sarebbe penalmente irrilevante. Vediamo quindi come si inserisce nel nostro ordinamento la norma che prevede e punisce il tentativo: una norma simile costituisce un raffinato strumento per evitare l'appesantimento del complesso delle regole vigenti. Invece di enunciare dopo ogni norma che configuri una fattispecie delittuosa, un'altra norma che delinei gli estremi del comportamento punibile a titolo di tentativo del delitto contemplato dalla norma logicamente precedente, con la previsione, una volta per tutte, degli elementi generali comuni ad ogni delitto tentato, proiettati in un unicodisposto verso qualunque delitto,nei cui confronti sia configurabile il tentativo, si realizza la rilevanza di tanti comportamenti di tentativo quanti sono gli illeciti delittuosi che ammettono la forma del tentativo. Dunque, in virtù di regolariconducibile all’art 56, un effetto estensivo sicuramente si verifica. Ma qui, si badi, non vengono estese le norme incriminatici (quindi non è violato il divieto di analogia), bensì l’ordinamento nel suo complesso: perché esso ci si rivela costituito, oltre che dalle norme che prevedono delitti perfetti, anche da tutte quelle altre che, accanto alle prime, delineano atti di tentativo volti a commettere gli illeciti previsti. La struttura del delitto tentato. Idoneità e direzione non equivoca degli atti Art. 56 cp definisce costitutivi di un delitto tentato “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”. La lettera della legge ci mette subito davanti ad un precisosbarramento: non è previsto nel nostro ordinamento il tentativo di reato contravvenzionale, ma soltanto quello voltolalaconsumazione di un delitto, come non è previsto nemmeno il tentativo di delitto colposo. Ora però soffermiamoci sulle 2 note caratterizzanti gli atti del tentativo: idoneità e direzione nonequivoca. Questi sono 2 termini di relazione. Non possono essere compresi se non sono seguiti dal referente, nei confronti del quale va, appunto, stabilito se un certo comportamento è idoneo e diretto in modo non equivoco. Ci si deve chiedere quindi: X è idoneo e diretto in modo non equivoco a che cosa? Accertamento che sembra essere cmq primario in un'indagine simile è quello riguardante l'intenzione del soggetto agente: "quale delitto egli aveva di mira?" Perché porci questa domanda? Perché anche l'atto più carico di significato (spianare un'arma vs una persona) può essereintento dell'agente nel commettere il reato. L'elemento soggettivo si riferisce invece alla consapevolezza dell'agente di compiere un'azione che potrebbe portare alla commissione del reato. Per valutare l'idoneità e la non equivocità di un atto diretto a commettere un delitto, è necessario analizzare l'intenzione dell'agente e il suo comportamento. Questo momento finalistico è fondamentale nella struttura del reato tentato e può essere considerato come l'elemento soggettivo del fatto. Tuttavia, è importante distinguere l'elemento soggettivo da quello psicologico del tentativo, ovvero il dolo che motiva l'agente nell'azione criminosa. Il dolo è ciò che sostiene l'intento dell'agente nel commettere il reato.atti volti a commettere un delitto, la cui condotta non è interamente realizzata o il cui evento (naturalistico) non è cagionato. Quali sono le circostanze dalle quali è lecito desumere la direzione non equivoca degli atti? Diverse tesi in merito: 1) Va desunta dal comportamento posto in essere, in sé e per sé capace di rivelare l'intenzione del soggetto agente. 2) Va desunta aliunde, cioè da dati estranei all'atto compiuto. 3) Va desunta dalla natura dell'atto e degli elementi che lo accompagnano. Secondo quest'ultima tesi, che è quella della Relazione al Re, non bastano le circostanze esterne a rivelare la non equivocità dell'atto, che deve avere un suo preciso obiettivo, ma nulla vieta che, oltre che dall'atto, la direzione non equivoca sia desunta da altri elementi. GALLO ritiene quest'ultima tesi sicuramente ragionevole, ma non del tutto appagante in quanto non pone sufficiente rilevanza al requisito.fondamentale dell'intenzione iniziale del soggetto agente. Solo una volta chiarito l'intento del soggetto agente, secondo GALLO, è possibile sciogliere itermini di relazione che sono l'idoneità e la