Diritto penale - l'analogia
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La consapevolezza del concorso altrui è indispensabile, in quanto se i vari soggetti operano l’uno all’insaputa dell’altro,
le loro azioni difettano di ogni legame: sono del tutto indipendenti, perciò non possono dar vita a quel complesso
unitario che è nell’essenza della compartecipazione criminosa. Pertanto è indispensabile la volontà di contribuire col
proprio operato alla realizzazione del fatto, perché in tal caso mancherebbe quella convergenza ad un unico risultato.
Tale volontà deve ricorrere in ogni forma di compartecipazione criminosa: in quella che si concreta in un’azione od
omissione; nel concorso fisico o in quello psichico.
Interdipendenza dei concorrenti
La caratteristica fondamentale di tale fattispecie è data dal fatto che tutti i compartecipi sono legati da una sorte
comune. Tale interdipendenza si manifesta principalmente ai seguenti effetti:
Titolo del reato.
Esistono dei reati che per la loro intrinseca natura esigono una determinata posizione giuridica o di fatto dell’agente:
questi sono i reati propri. E’ lecito chiedersi se quando alla realizzazione di detti reati concorrono soggetti che non
hanno le qualità prescritte, se anch’esse ne debbano rispondere. La risposta è affermativa, ma ad una condizione, cioè
che il soggetto estraneo sappia che l’altra possiede tale qualità. In tal caso la compartecipazione è piena e perfetta. Si
pone invece l’ipotesi in cui l’estraneo la ignori. In tal caso l’art. 117 dispone che << Se, per le condizioni o le qualità
personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso, muta il titolo di reato per taluno di coloro che vi sono
concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato >>. Questa disposizione importa un effetto estensivo del concorso
criminoso, per quale le persone che concorrono con un soggetto qualificato alla commissione di un reato proprio, ne
rispondono anche se non hanno conoscenza della qualifica del soggetto predetto. Ma tale estensione non si verifica
sempre, solo quando rispetto ai concorrenti si ha un mutamento del titolo del reato. In altre parole devono ricorrere gli
estremi di una altro reato. Per mitigare tale forma di responsabilità oggettiva, l’art. 117 aggiunge che, << se il reato è
più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti,
diminuire la pena >>.
Cause di esclusione della pena
L’art. 119 dispone << Che le circostanze soggettive, le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi
nel reato, hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono. Le circostanze oggettive che escludono la
pena, viceversa, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel rato >>.
Mentre al secondo comma, l’art. 119 precisa << Che le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per
tutti coloro che sono concorsi nel reato >>.
Circostanze del reato
Prima dell’entrata in vigore della L. 19 del 1990, l’art. 118 prescriveva che le circostanze oggettive, tanto aggravanti
quanto attenuanti, fossero valutate a carico o a favore di tutti i concorrenti nel reato, anche se non conosciute. Mentre
per quanto riguarda le circostanze soggettive, queste avevano effetto soltanto rispetto a coloro ai quali si riferivano.
L’art. 3 della L. 19 del 1990 ha modificato il testo dell’art. 118, secondo il quale << Le circostanze che aggravano o
diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti
alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono >>.
Pentimento di un concorrente
Si deve sottolineare che il pentimento di uno dei compartecipi non può avere alcuna efficacia se non porta all’arresto
dell’attività esecutiva o all’impedimento dell’evento. Pertanto se il concorrente partecipa solo alla fase ideativi del
reato, deve in ogni caso rendersi attivo. Gli altri concorrenti dovranno comunque, ottenere gli stessi risultati. Se dalla
loro opera deriverà l’interruzione dell’attività, sarà applicabile il beneficio della desistenza, se, condotta a termine
l’attività, verrà impedito l’evento, ricorrerà l’ipotesi del recesso attivo.
Dal momento che i benefici sono strettamente personali, essi non si estendono ai compartecipi.
Varianti individuali al piano comune
Si ponga il caso in cui uno dei concorrenti nell’eseguire la parte assegnatagli, commetta di propria iniziativa un reato
diverso. Es Tizio ha avuto il mandato di percuotere una persona, invece la uccide.
A regolare tale ipotesi vi è l’art. 116 secondo il quale << Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da
taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione.
Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave >>.
Secondo Antolisei, l’asprezza della norma, che raffigura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, viene mitigata se si
adotta l’interpretazione del 1° cpv dell’art. 41, secondo la quale per l’esistenza del rapporto eziologico non basta che
l’azione o omissione sia stata condizione dell’evento, ma occorre anche che l’evento medesimo non si sia verificato per
l’intervento di fattori eccezionali. Pertanto si deve, caso per caso, stabilire se la condotta abbia avuto, rispetto agli altri
compartecipi, il carattere dell’eccezionalità. In caso negativo tutti risponderanno del reato diverso; in caso affermativo
l’evento non potrà attribuirsi ai concorrenti che non lo vollero.
Applicando questo criterio dovrà ammettersi la responsabilità dei compartecipi per il reato diverso (es. progettato un
furto, sia stata commessa una rapina). In tali casi il reato realizzato è uno sviluppo di quello stabilito di comune accordo
e non costituisce, rispetto ai compartecipi che non lo vollero, un avvenimento eccezionale.
Mentre dovrà escludersi con certezza la responsabilità per il reato diverso quando:
• tizio istiga Caio a schiaffeggiare una persona e Caio deliberatamente la uccide;
• due individui si accordano per commettere un furto; l’uno fa da palo e l’altro penetra nella casa, dove,
incontrando una ragazza la violenta.
Nell’ipotesi non infrequente che durante una rapina, uno dei compartecipi uccida una persona, bisognerà analizzare se
l’uccisione sia stata il risultato di un fattore eccezionale, es. resistenza della vittima. Nel caso in cui a tale quesito si
risponda negativamente, i compartecipi che non vollero l’uccisione ne risponderanno.
La disposizione dell’art. 116 si applica tanto se il reato commesso sia più grave, quanto se sia meno grave di quello
voluto. Tuttavia, quando il reato commesso sia più grave, il codice vuole che la pena sia diminuita rispetto a chi volle il
reato minore. L’attenuazione è obbligatoria.
La cooperazione nei delitti colposi
Primo problema, ampiamente discusso, fu quello della stessa configurabilità del concorso nei reati colposi. La dottrina
propende per una tesi affermativa e si basa sull’art. 113, secondo il quale << Nel delitto colposo, quando l’evento è
stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso >>.
Secondo Antolisei, è indubitabile che una sorta di cooperazione possa verificarsi anche nei reati colposi, ma questa non
è mai completa, in quanto si limita alla condotta esteriore e non investe in alcun modo l’evento. Quindi la convergenza
della volontà riguarda una parte soltanto del fatto che costituisce il reato. Ne consegue che nei reati colposi non
ricorrono tutti gli estremi della compartecipazione delittuosa, la quale implica la volontà di cooperare col proprio
operato alla realizzazione del delitto. L’autore ritiene pertanto, che una vera e propria compartecipazione criminosa non
sia configurabile nel delitto colposo.
Dalla cooperazione nel delitto colposo, si deve distinguere il concorso di fatti colposi indipendenti, il quale si verifica
quando vari individui contribuiscono a determinare un evento senza la consapevolezza dell’azione altrui, e cioè l’uno
all’insaputa dell’altro.
Le circostanze
Il principio sancito dal diritto vigente, in base al quale nella compartecipazione criminosa si considerano autori del reato
tutti i concorrenti, non esclude che delle differenze possano ravvisarsi nel grado di responsabilità di essi, con effetti sul
piano della commisurazione della pena.
Per risolvere il problema il codice è ricorso al sistema delle circostanze, prevedendo all’art. 112 quelle che aggravano la
pena ed all’art. 114 quelle che l’attenuano.
Circostanze aggravanti - La pena deve essere aumentata, come stabilisce l’art. 112:
a) per chi ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato ovvero diretto l’attività delle persone che sono
concorse nel reato medesimo;
b) per chi nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso
1
soggette ;
c) per chi, fuori dal caso previsto nell’art. 111, ha determinato a commettere il reato un minore degli anni 18 o una
persona in stato di infermità o di deficienza psichica;
d) se il numero delle persone che sono concorse nel reato è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti.
Nel concorso colposo la pena è aumentata per chi ha determinato a cooperare nel delitto:
a) una persona non imputabile o non punibile;
b) un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica;
c) persone soggette alla propria autorità, direzione o vigilanza;
Circostanze attenuanti - La pena può essere diminuita, come stabilisce l’art. 114:
a) nel caso che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato abbia avuto minima importanza
nella preparazione o nella esecuzione del reato. Per minima importanza, l’autore intende, l’opera prestata dal
1 Poiché la legge parla non di “istigazione”, ma di “determinazione”, non basta che venga rafforzato nella mente altrui il proposito criminoso, ma
occorre che si faccia sorgere un proposito criminoso prima inesistente.
concorrente che per l’indole del ruolo esercitato nella preparazione, poteva facilmente essere sostituito con un’altra
persona.
b) per chi è stato determinato a commettere il reato da persona che esercita sul soggetto un’autorità, direzione o
vigilanza, o quando il soggetto determinato sia un minore degli anni 18 o persona in stato di infermità o deficienza
psichica.
A differenza delle aggravanti dell’art. 112, applicabili obbligatoriamente, le suddette attenuanti vengono considerate
2
facoltative .
Il concorso necessario
Il concorso necessario si configura tutte le volte che si ha per oggetto reati che per la loro natura intrinseca non possono
essere commessi se non da due o più persone. Es la rissa. Pertanto in tali casi per l’esistenza del reato è indispensabile
una pluralità di soggetti. Non si tratta di un modo di realizzazione del reato, ma di una distinta categoria di reati, nei
quali la pluralità di agenti è richiesta come elemento costitutivo di questa figura tipica.
Per designare questa speciale categoria è stato usato il termine di reati plurisoggettivi.
Fondamentale è precisare quali soggetti nel concorso necessario siano punibili e quali no.
Nel campo dottrinario in virtù del principio nullum crimen sine lege, quando la sottoposizione a pena del soggetto la cui
condotta è richiesta per l’esistenza del reato, non risulta dalla norma incriminatrice, tale soggetto resta impunito.
Per Antolisei questo principio è troppo assoluto.
Di certo quando la legge mira a proteggere una delle persone che con la loro condotta concorrono all’esistenza del
reato, tale persona non è punibile. Es. reato di usura.
Il richiamo all’art. 1 c.p. non è decisivo, in quanto si tratta di stabilire se debba applicarsi il principio generale per cui
chiunque concorre al fatto criminoso ne risponde. Si tratta pertanto di una questione di interprestazione.
Secondo un’opinione data la particolarità del reato plurisoggettivo si era escluso che ad esso potessero applicarsi le
disposizioni ricorrenti invece per i concorso eventuale es. art. 112 – 114 118 – 119. Ma secondo Antolisei, questa
opinione è priva di fondamento, pertanto deve ritenersi che tali norme sia applicabili anche al concorso necessario.
Il concorso di reati
Si ha concorso di reati quando uno stesso soggetto ha violato più volte la legge penale e, perciò, deve rispondere di più
reati. Sul piano del diritto sostanziale, il problema è quello del trattamento sanzionatorio. Si sottolinea che per la
disciplina del concorso di reati, tre sono i criteri in astratto possibili:
1. il cumulo materiale, per il quale si applicano tante pene quanti sono reati commessi; delle varie pene si fa la
somma aritmetica;
2. il cumulo giuridico, per il quale si applica la pena del reato più grave, aumentata proporzionalmente alla gravità
delle pene concorrenti, ma in modo complessivamente inferiore al loro cumulo materiale. Le pene in realtà sono
tante quante sono i reati commessi, ma subiscono una riduzione a causa della loro applicazione simultanea.
2 In verità, pena la incostituzionalità, il “può” dell'art. 114 deve essere inteso nel senso che è affidato alla discrezionalità del giudice valutare se, data
la minima importanza della partecipazione, ecc., sia altresì ravvisabile nella situazione concreta, valutata ex art. 133, il valore di una circostanza
attenuante; che il giudice ha però l'obbligo, contrariamente a quanto si ritiene in giurisprudenza, di applicare una volta che l'abbia considerata
sussistente.
3. l'assorbimento, per il quale si applica soltanto la pena del reato più grave, intendendosi in questo assorbite le pene
minori.
Il concorso materiale
Circa il trattamento sanzionatorio il nostro diritto vigente distingue, a differenza di molti altri codici, tra concorso
materiale e concorso formale di reati.
Secondo l’art. 81 si ha concorso materiale quando lo stesso soggetto con più azioni od omissioni ha commesso più
violazioni di un medesimo o di più precetti penali. L’ipotesi si verifica tanto nel caso in cui con una sola sentenza si
debba pronunciare condanna per più reati contro una medesima persona, quanto nel caso in cui, dopo una condanna, si
debba giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente, ovvero allorché contro la
stessa persona si debbano eseguire più condanne. Può essere omogeneo se è stata violata più volte la stessa norma
penale o eterogeneo se sono state violate norme diverse.
Al fine di rafforzare la repressione dei reati, il codice rocco respinse non solo il sistema dell’assorbimento, ma anche
quello del cumulo giuridico, ritenendolo troppo blando ed adottò perciò il sistema del cumulo materiale.
Il DL n° 99 del 1974, poi convertito in legge, pur lasciando immutata la disciplina del concorso materiale, vi ha
sostanzialmente inciso in modo rilevante, allargando la sfera di applicazione del reato continuato alla violazione di
diverse disposizioni di legge commesse con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso.
Pertanto si deve notare che, se per il concorso materiale l’ordinamento conserva il principio tot crimen, tot poenae, ciò
non significa che siano indifferenti i rapporti che intercorrono tra i vari reati di cui un individuo sia chiamato a
rispondere. I reati possono essere fra loro collegati da un vincolo che si distingue in:
1. Ideologico o teleologico, quando cioè un reato è commesso allo scopo di eseguire un altro reato; ( Es. omicidio per
derubare)
2. Consequenziale, allorché un reato viene commesso per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto, il prezzo, il
prodotto, ovvero l'impunità di un altro reato oppure per occultarlo. Fuori di queste ipotesi è improprio parlare di
concorso di reati come categoria sostanziale. (es. cagionata la morte di un uomo se ne distrugge il cadavere);
3. Occasionale, nei casi in cui la commissione di un reato comporta l’occasione per commetterne un altro. (es. un
ladro che rovistando in un cassetto per rubare denaro, trova un documento che lo compromette e lo distrugge).
La connessione fra vari reati di cui una medesima persona debba rispondere è importante sotto vari aspetti: processuale,
ai fini della prescrizione, dell’estinzione del reato, ecc.
Il concorso formale
Sì ha concorso formale quando il soggetto, con una sola azione od omissione, ha violato più volte la legge penale e
perciò ha posto in essere più reati. Es. colui che dopo aver rapinato una banca, commette anche i reato di resistenza a
pubblico ufficiale.
Ciò che distingue il concorso formale da quello materiale, è il fatto che la molteplicità di reati viene posta in essere non
già con più azioni od omissioni, ma con una sola azione, cioè con un insieme di atti che formano un tutt’uno, perché
diretti ad un unico scopo e realizzati in modo continuativo.
La caratteristica essenziale è che il fatto concreto presenta una complessità di elementi per cui una parte di esso
corrisponde contemporaneamente a due figure di reato, mentre nelle parti residue, corrisponde disgiuntamente, per
alcuni elementi ad una figura e per altri ad un’altra. In altri termini, nel concorso formale due o più disposizioni di legge
prendono in considerazione una stessa parte del fatto e inoltre ciascuna una parte diversa. Ne consegue che alla
valutazione giuridica del fatto concorrono varie norme incriminatici, le quali soltanto nel loro insieme ne esauriscono in
ogni direzione, e cioè in tutta estensione, il contenuto antigiuridico.
Il codice Rocco, considerava il concorso materiale alla stregua di quello formale. Pertanto in virtù del principio tot
crimen, tot poenae, si applicavano tante pene quanti erano i reati commessi cn un’unica azione od omissione, pene che
si sommavano, salvi i temperamenti del cumulo giuridico.
Occorre rilevare che l’art. 81 c.p. disciplina, accanto al concorso formale detto eterogeneo che si verifica quando con
un’azione od omissioni si violino disposizioni diverse, l’ipotesi del concorso formale detto omogeneo, che invece si
verifica quando con un’azione od omissione vengono compiute più violazioni del medesimo precetto penale (es. una
bomba che uccide più persone).
Con la riforma del D.L. n. 99/74 si è opportunamente passati al cumulo giuridico, così modificandosi il 1° comm
dell'articolo 81, secondo il quale << E’ punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave
aumentata fino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commetta più
violazioni della medesima disposizione di legge >>. E per superare la controversia sulla maggiore gravità del concorso
omogeneo o di quello eterogeneo, si è stabilita per entrambe le forme la medesima misura di aumento della pena base.
Si deve sottolineare che tale riforma è risultata carente sul piano della disciplina delle pene diverse (principali ed
accessorie) confluenti nel cumulo giuridico. Tale disciplina manca del tutto e non gioverebbe nemmeno richiamare il
disposto dell’ultimo comma dell’art. 81 << Nei casi previsti da quest’articolo, la pena non può essere superiore a quella
che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti >>. Infatti tale disposizione ha infatti il compito di impedire
l’irrogazione di pene complessivamente più gravi di quelle che sarebbero risultate dallo stesso cumulo materiale, magari
applicato al massimo.
E’ lecito chiedersi cosa accadrebbe se le pene dei vari reati in concorso fossero eterogenee. Le soluzioni possibili sono
due: 1. nel caso in cui si reputi sussistere un conflitto tra l’ultima parte dell’art. 81 e il 1° comm del medesimo, si
ritiene applicabile il cumulo giuridico solo nel caso di pene omogenee;
2. invece se si reputa che l’art. 81 1° comm, non deroga al principio nulla poena sine lege, allora si applicherà il
cumulo giuridico, pur tra pene diverse, ogni qual volta esso in concreto, rappresenti un vantaggio per
l’imputato.
Antolisei appoggia questa seconda soluzione, che ha incontrato consenso favorevole anche della Corte costituzionale
Il reato continuato
La figura del reato continuato sorse per opera dei Pratici, che la introdussero per mitigare la eccessiva severità delle
legislazioni dell’epoca sul concorso di reati.
Ancor oggi la funzione dell’istituto è quella di introdurre un trattamento penale più mite, che trova però la sua ratio nel
fatto che nel reato continuato la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore che nei normali casi di
concorso. L’art. 81 2° comm, nella sua originaria formulazione, statuì infatti la non applicabilità delle disposizioni sul
cumulo materiale delle pene a chi << Con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità >>. Il
D.L. 99/74 ha ampliato la portata dell’articolo ammettendo la continuazione nei casi di << più violazioni della stessa o
di diverse disposizioni di legge >>: cioè oltre al reato continuato omogeneo, anche quello eterogeneo.
Per quanto riguarda il concetto di << medesimo disegno criminoso >> occorre affinché si abbia un vero e proprio
disegno occorre una deliberazione generica, la quale non esclude che ogni singola azione si renda necessaria una
deliberazione specifica. Senonché la deliberazione generica non è un semplice fatto intellettivo: implica anche il
concorso della volontà. Oltre a questo elemento si esige l’unità del fine, la quale informa di sé la pluralità delle
infrazioni in modo che ciascuna di esse perde la sua autonomia per diventare un frammento dell’insieme. Il disegno
criminoso è il coefficiente psicologico che lega e cementa i diversi episodi criminosi e contraddistingue,
ontologicamente, il reato continuato dal concorso di reati. Per aversi medesimo disegno criminoso è necessario e
sufficiente la iniziale programmazione e deliberazione, generiche, di compiere una pluralità di reati, in vista del
conseguimento di un unico fine prefissato sufficientemente specifico. L’identità del disegno criminoso viene meno
quando fra l’uno e l’altro fatto criminoso siano intervenute circostanze che abbiano indotto il reo a modificare il
progetto originario in relazione ai mezzi di esecuzione ed alle condizioni oggettive e soggettive di attuazione.
In passato si sostenne che non si poteva parlare di reato continuato nel caso di diversità di soggetti passivi.
Successivamente la dottrina fu concorde nel ritenere che tale diversità non escludeva la continuazione, dal momento che
l’art. 81 tra i suoi requisiti, non richiedeva l’unicità del soggetto passivo. Solo nel caso in cui la diversità delle vittime
esclude un identico disegno criminoso, non si avrà reato continuato. Quindi sarà responsabile di omicidio continuato
colui che, in base ad un preciso programma, uccida successivamente, per un identico fine, tutti i membri di una
famiglia.
Grazie alla nuova riforma introdotta dal D.L. 99/1974, fu adottata una nuova formula modificante l’art. 81 2° comm;
questa commina la stessa pena prevista ex novo nel primo comma per il concorso formale nei confronti di chi << con
più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni
della stessa o di diverse disposizioni di legge >>. Tale riforma comporta la possibilità di poter ravvisare lo schema della
continuazione non solo, nell’ambito di più violazioni della medesima disposizione di legge, ma anche nei confronti di
reati distinti.
Un altro problema su cui si discute è quello se il reato continuato sia una finzione oppure costituisca un’unità reale. Nel
conflitto tra la tesi della fictio iuris e quella dell’unità effettiva, Antolisei ha ritenuto opportuno seguire la seconda, in
quanto la prima asseriva che le azioni medesime che costituivano il reato continuato fossero del tutto distinte; mentre in
realtà esse hanno un elemento comune che le cementa, e precisamente quel fattore intellettuale e volitivo che è disegno
criminoso.
Inoltre si deve tenere presente che il nostro sistema positivo non considera sempre i reato continuato in modo unitario e
lo tratta come unità solo a determinati fini e precisamente:
• Ai fini della pena
• Ai fini della prescrizione, dal momento che l’art. 158 stabilisce che per il reato continuato il termine di
prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la continuazione.
• Ai fini della competenza territoriale
• Ai fini dell’abitualità e della professionalità nel reato.
Per scopi diversi da quelli indicati il reato continuato si considera, invece, come una pluralità di reati.
La continuazione è configurabile anche nei reati di omissione, nelle contravvenzioni, mentre non è configurabile nei
delitti colposi, perché suppone un disegno criminoso che non può sussistere in questa specie di reati.
Al reato continuato è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata sino al triplo.
Il reato complesso
Il reato complesso (o composto) è previsto dall’art. 84 , il quale stabilisce che << Le disposizioni degli articoli
1° comm
precedenti (riferendosi al concorso di reati) non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o
come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato >>.
Questo vuol dire che, quando un fatto, che di per se costituisce reato, è considerato da una disposizione di legge come
elemento costitutivo o come circostanza aggravante di una altro reato, si applica soltanto la disposizione in parola. La
caratteristica sostanziale di questa figura è quella di riunire più reati in uno solo: si tratta della c.d. unificazione
legislativa. Il reato composto è infatti un reato, semplice o circostanziato, che risulta costituito dal materiale di altri
reati.
Inoltre questa figura si può presentare in due forme:
1. nella prima i singoli reati vi rientrano tutti come elementi costitutivi, dando luogo ad un nuovo titolo di reato.
Es rapina (art. 628), la quale è composta dal reato furto (art. 624) più la violenza privata (art. 610).
2. nella seconda forma i singoli reati che formano il reato composto vi rientrano uno come elemento costitutivo
e l’altro come circostanza aggravante, lasciando inalterato il titolo del reato-base. Es. furto aggravato con
violazione di domicilio.
Quindi si può certamente affermare che per l’esistenza di questa figura giuridica occorre che in un solo reato, semplice
o circostanziato, siano riuniti almeno due reati. La scindibilità in più fatti criminosi minori è caratteristica essenziale del
reato composto. Si sottolinea che deve trattarsi di reati diversi, e non di una molteplicità di reati della stesse specie.
Nella figura del reato composto non rientrano i reati aggravati dall’evento.
Il reato composto realizza un’ipotesi di concorso apparente di norme coesistenti. Quando esso ricorre, infatti più
disposizioni sembrano adattarsi ad uno stesso caso, ma una soltanto è applicabile. Es. rapina = furto + violenza privata.
Ma si applica solo la disposizione che disciplina la rapina in quanto questa è una norma speciale. Infatti il reato
composto si inquadra perfettamente nel principio di specialità.
Per questi tipi di reati notevole importanza riveste l’art. 170 . secondo il quale, << La causa estintiva di un reato
1° cpv
che è l’elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso non si estende al reato complesso >>. Così
se una causa estintiva opera nel furto considerato in sé, essa non opera più per il medesimo reato, ove questo sia
elemento costitutivo del reato composto della rapina.
Reato complesso
Dal reato composto si distingue quello complesso, il quale si ha quando un reato, in tutte o in alcune delle ipotesi
contemplate nella norma incriminatrice, contiene in sé necessariamente altro reato meno grave.
Per l’esistenza di questa figura non occorre la riunione di due o più reati: ne basta uno solo con l’aggiunta di un
ulteriore elemento. Es violenza sessuale, la quale comprende la violenza privata e presenta l’elemento ulteriore dell’atto
sessuale, elemento che da solo non costituisce reato.
In questa figura giuridica il reato minore resta assorbito dal maggiore e perciò non è punibile separatamente.
Il reato complesso non è contemplato nell’art. 84, in quanto questa disposizione non può essere interpretata in modo da
abbracciare qualunque reato che ne contenga necessariamente un altro minore.
Pertanto il fondamento giuridico di tale norma va ricercato nel principio generalissimo di specialità, in quanto la
fattispecie del reato che ne comprende uno meno grave è speciale rispetto a quella che prevede il secondo, e perciò, ne
esclude l’applicabilità.
Il rapporto di specialità fra le due fattispecie è innegabile, perché quest’ultima comprende tutti gli elementi della prima,
nella quale il quid pluris degli atti sessuali costituisce l’elemento specifico o specializzante.
La figura giuridica del reato complesso costituisce una categoria generale che è applicabile ad un numero indeterminato
di reati. Vi rientra anche il reato composto. Pertanto costituisce rispetto a quest’ultimo, un cerchio concentrico di
proporzioni maggiori.
Inoltre, per comprendere la portata giuridica del reato complesso occorre tenere presente che la contenenza del reato
meno grave nel reato più grave può essere di due specie:
• Esplicita, quando il reato incluso è indicato dalla legge con il relativo nomen iuris
• Implicita, quando l’inclusione del reato minore nel maggiore non si desume dalla dizione della norma
incriminatrice, ma dalla natura intrinseca del fatto in essa configurato.
Esistono molte ipotesi delittuose che per la loro essenza naturale non possono essere realizzate senza che l’agente
realizzi, prima o contemporaneamente, un’altra ipotesi delittuosa meno grave. Es. non è possibile uccidere una persona
senza percuotere o ferire. I reati di questa specie vengono chiamati progressivi, perché in essi si verifica una specie di
passaggio da un minus ad un maius.
Il reato abituale
A differenza del reato complesso, continuato e permanente, il reato abituale è una categoria di creazione dottrinale, non rinvenendosi nella legge né
una definizione né una disciplina di esso. E’ detto abituale il reato per l’esistenza del quale la legge richiede la reiterazione di più condotte identiche o
omogenee. E’ proprio il reato abituale consistente nella ripetizione di condotte che sono in sé non punibili, come nello sfruttamento della
prostituzione, o che possono essere non punibili, come nei maltrattamenti in famiglia. E’ improprio se consiste nella ripetizione di condotte già di per
3
sé costituenti reato, come nella relazione incestuosa, costituendo il singolo fatto incestuoso delitto di incesto .
Deve perciò ritenersi sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte, accompagnate dalla consapevolezza che la nuova
condotta si aggiunga alle precedenti, dando vita con queste ad un sistema di comportamenti offensivi. Ciò che si rimprovera all’agente è di aver
voluto persistere in un certo modo di agire, di non aver desistito nonostante la consapevolezza del suo precedente operare.
Il reato (necessariamente) abituale si “perfeziona” allorché è stato realizzato il minimum di condotte e con la frequenza, necessari ad integrare quel
sistema di comportamenti in cui si concreta tale reato e la cui valutazione è affidata alla discrezionalità del giudice. Si consuma allorché cessa la
condotta reitera.
LA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA
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Nell’attuale sistema penale la responsabilità oggettiva è contemplata in diverse disposizioni di legge, sia codicistiche,
che di leggi speciali. Punto di partenza dell’analisi di questa figura è l’art. 42 2° com, in forza del quale << La legge
determina i casi nei quali l’evento è altrimenti posto a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od
omissione >>.
Si tratta di una considerazione di carattere generale, in ordine all’imputazione del fatto in capo all’agente, per la sola
ragione del verificarsi dell’evento, come si desume dall’espressione “ evento posto altrimenti a carico dell’agente “, è
cioè indipendentemente dalla sussistenza di qualunque forma di colpevolezza, sia essa di dolo o soltanto di colpa. La
caratteristica di questa specie di responsabilità consiste nell’accollo di un evento al soggetto sulla base del solo rapporto
di causalità, indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa. Per effetto di essa l’agente è chiamato a rispondere
dei risultati della sua azione anche se rispetto ai medesimi nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, gli può
essere mosso, e quindi, anche se li ha causati per caso fortuito. La responsabilità oggettiva, prescinde da ogni indagine
sull’atteggiamento psichico del soggetto, ma non prescinde dal nesso eziologico e dalla suitas e quindi non può essere
confusa con la responsabilità per fatto di terzi. Inoltre non contrasta con il principio della personalità della pena, ribadito
dall’art 27 Cost. E’ questo un assunto che la Corte Cost ha tenuto fermo per lungo tempo e soltanto attenuato con la
sentenza 364 del 1988; per effetto di tale sentenza, la dottrina prevalente asserisce che il citato art. 27 riafferma il
principio che la responsabilità penale non può prescindere dalla colpevolezza dell’autore.
Si deve specificare che nei casi di responsabilità oggettiva si richiede che l’azione od omissione sia attribuibile alla
suitas del soggetto, perché tale regola non subisce eccezioni. Pertanto la responsabilità oggettiva rimane una
responsabilità personale.
Il delitto preterintenzionale
La definizione di preterintenzione è offerta dal Codice Penale all'art. 43, comma 2: << Il delitto: […] è
preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più
grave di quello voluto dall'agente >>. Le fattispecie preterintenzionali conosciute dal nostro ordinamento e
nominativamente indicate come tali sono solamente due: il delitto di omicidio preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p.,
che si ha quando con atti diretti a percuotere o a produrre una lesione personale, si cagiona la morte dell’offeso e il
delitto di aborto preterintenzionale di cui all'art. 18, comma 2 della Legge 22 maggio 1978 n. 194.
Secondo Antolisei, non è possibile considerare la preterintenzione come una forma intermedia tra il dolo e la colpa.
Infatti se si esamina l’unico delitto preterintenzionale presente nel codice, si nota che si tratta di un delitto doloso, n
quanto l’agente ha voluto un certo risultato, e cioè la percossa o la lesione personale. Esso differisce dai comuni delitti
dolosi, perché, perché l’azione ha determinato un risultato che è andato al di là del volere, risultato che importa un
aggravamento di pena. La dottrina, tuttavia, ritiene che ulteriori fattispecie delittuose, pur non rubricate come
preterintenzionali, possano ricondursi nel novero della preterintenzionalità. Si tratta, in particolare, di taluni delitti
rientranti nella categoria di derivazione dogmatica dei "reati aggravati dall'evento".
Struttura e giurisprudenza
L'enunciazione normativa offerta dall' art. 43, comma 2 c.p. pone in evidenza il rapporto sussistente fra una condotta
umana tipica, un evento voluto, ed un evento di maggiore forza lesiva (o di messa in pericolo). Si tratta dunque di una
fattispecie complessa, che la dottrina, sceglie di ricostruire come la sovrapposizione di un reato di base, caratterizzato
da dolo, ed un successivo evento non voluto, causalmente riconducibile all'azione o all'omissione dell'agente, e di cui si
stabilisce la rimproverabilità a quest’ultimo. Il titolo in base al quale tale evento ulteriore è ritenuto imputabile e
rimproverabile all'agente è il problema centrale che caratterizza l'analisi dogmatica del fenomeno della preterintenzione.
Infatti si sono succedute molte tesi:
• Secondo taluni, nel reato preterintenzionale l’evento più grave non è disvoluto, perché, nei delitti contro
l’incolumità fisica, è normale che i colpi possano procurare un danno maggiore rispetto a quello che si aveva
intenzione di procurare. Ma tale tesi non può essere accettata perché, nel delitto preterintenzionale, la volontà
dell’evento non si riscontra, in quanto se esistesse, tale figura verrebbe meno e l’agente risponderebbe di
omicidio doloso
• Secondo altri invece, questa figura non è altro che dolo misto a colpa, cioè dolo per l’evento voluto e colpa
per l’evento che è andato al di là dell’intenzione. Anche questa tesi non può essere accettata in alcun modo in
quanto, l’ipotesi prevista dall’art. 584, non esige che l’evento più grave dia dovuto a negligenza o imprudenza
poiché si verifica indipendentemente da tale requisito.
Inoltre occorre sottolineare che l’evento preterintenzionale nel nostro diritto positivo viene imputato a titolo di
responsabilità oggettiva. Poi dopo la sentenza Corte costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364 (pronuncia nota per aver
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 5 del c.p. "nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza
della legge penale l'ignoranza inevitabile"), interpretando l’art. 27 Cost., ha affermato che il fatto oggetto di
imputazione per essere punibile, deve includere quantomeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più
significativi della fattispecie tipica, la giurisprudenza ha richiesto che l’evento morte sia raffigurato come sviluppo
prevedibile dell’azione.
Un elemento di rilevante novità, viene portato con la sentenza. Tale decisione (cui segue di poco, riprendendone i
contenuti, la sentenza Corte costituzionale, 13 dicembre 1988, n. 1085) parte dall'individuazione di una nozione di
colpevolezza costituzionalmente richiesta, dove per richiesta si intende indefettibile ai fini della configurazione di un
illecito penale.
1. I reati qualificati dall’evento
Si dicono qualificati o aggravati dall’evento i reati che subiscono un aumento di pena, allorché derivi un ulteriore
evento che viene posto a carico dell’agente per il solo fatto di essere stato causato dalla sua condotta criminosa, a
prescindere dal dolo o dalla colpa.
Alcune volte l’aggravamento si verifica in ogni caso, qualunque sia l’atteggiamento psichico del reo in confronto
all’ulteriore evento. Es delitti di calunnia, falsa testimonianza, sono aggravati se dai fatti che li costituiscono derivano
determinate condanne.
In tutti questi casi l’ulteriore risultato dannoso o pericoloso è sempre accollato al soggetto e perciò, tanto nel caso che
egli lo abbia voluto (dolo), quanto se lo abbia cagionato per imprudenza o negligenza (colpa), quanto se lo abbia
determinato per caso fortuito.
Altre volte l’evento che aggrava il reato non deve essere voluto dall’agente, neppure in modo indiretto (dolo eventuale),
perché altrimenti si verificherebbe una diversa figura criminosa. In tale categoria rientrano l’aborto non consentito,
l’abuso dei mezzi di correzione: reati tutti che sono aggravati quando dall’azione criminosa deriva la lesione personale
oppure la morte della persona offesa.
Anche in questa seconda categoria di reati, l’ulteriore evento è posto a carico dell’agente per il solo fatto che è derivato
dalla sua azione criminosa; ma se l’evento è stato da lui voluto, non si applica la norma che li contempla, bensì un’altra
figura disposizione di legge, in quanto si realizza una diversa figura criminosa.
Non si può disconoscere che le ipotesi che appartengono a questo secondo gruppo presentano molte affinità con il
delitto preterintenzionale – art. 584 – perché anche in esse il risultato finale è andato al di là dell’intenzione dall’agente.
Ma Antolisei ritiene che in queste ipotesi non possa ravvisarsi un vero e proprio delitto preterintenzionale, perché
l’ulteriore risultato non dà vita ad una figura autonoma di reato, sebbene ad una forma aggravata del reato-base.
2. I reati di stampa
Una forma speciale di responsabilità si riscontrava nei reati commessi con il mezzo della stampa. La vecchia disciplina
di questa fattispecie aveva generato gravi controversie sulla natura giuridica della responsabilità del direttore, e
soprattutto un autore aveva sostenuto che tale responsabilità trovasse la ratio nel fatto altrui. Tale tesi era sta respinta
dalla prevalente dottrina che ravvisava invece un’ipotesi di responsabilità oggettiva, per fatto proprio. La stessa
giurisprudenza della Corte Cost. aveva affermato la compatibilità dell’art 57 c.p. con l’art. 27 cost. Tuttavia la Corte,
per superare le incertezze circa l’interpretazione dell’art. 57, ne auspicò la modifica, che non tardò ad arrivare con
l’approvazione della legge 127 del 1958.
Secondo il nuovo art. 57 sulla stampa periodica, fatta salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dai
casi di concorso, stabilisce che << Il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto
del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi
reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non
eccedente un terzo >>.
Secondo Antolisei si deve ritenere che l’art. 57 preveda un vero e proprio reato di agevolazione colposa, nel quale il
comportamento omissivo del direttore non concorrente acquista rilievo se qualificato dalla colpa nelle sue varie specie
(imprudenza, imperizia, negligenza, inosservanza di leggi…) e se in connessione causale con l’avvenuta pubblicazione
criminosa, da considerarsi quale evento del reato stesso.
Poiché per la responsabilità del direttore si esige che in ogni caso un reato un reato vero e proprio sia commesso per
mezzo del giornale, essa viene meno quando l’illecito penale dell’autore fa difetto per mancanza di qualche requisito
oggettivo o soggettivo o per la presenza di una causa di giustificazione. Inoltre il direttore risponde anche se autore sia
un non imputabile.
IL REATO
In diritto, si definisce reato un comportamento esteriore dell'uomo, sia esso ricondotto a un'azione positiva sia negativa
e quindi omissiva, previsto dalle legge come tale, che si manifesta in contraddizione con la regola di condotta fissata
nella norma incriminatrice, cui segue come conseguenza una sanzione penale.
La classificazione dei reati
Il reato è distinto in dottrina secondo classificazioni di ampia portata, alcune delle quali sono di generale condivisione,
mentre di altre non è sufficientemente riconosciuta la validità (o l'opportunità) teoretica e restano pertanto nell'analisi
più che altro come tracce convenzionali. Si noti comunque che la classificazione dei reati (come molti altri argomenti
del diritto) non si preserva esente dalle insidie di interpretazioni potenzialmente viziate da visioni filosofiche o
ideologiche e - anche per questo - è peraltro suscettibile di variazioni nel tempo; conviene dunque considerare la
preminenza dell'aspetto di convenzionalità attuale nella elencazione di alcuni fra i principali tipi classificabili.
Delitti e Contravvenzioni
La summa divisio all'interno della categoria del reato è quella che distingue i delitti dalle contravvenzioni. Tale
divisione risale al Codice Toscano del 1856 ed è stata tralaticiamente accolta dal Codice Zanardelli del 1889 e dal
Codice Rocco del 1930. Il criterio distintivo delle due categorie accolto dal codice penale attualmente vigente è di
natura formale. Stabilisce infatti l'art. 39 del codice che:
• Sono delitti i reati al cui verificarsi l'ordinamento penale ricollega la pena dell'ergastolo, della reclusione e
della multa.
• Sono contravvenzioni i reati al cui verificarsi l'ordinamento penale ricollega la pena dell'arresto e
dell'ammenda.
La distinzione ha notevole rilievo pratico sotto diversi aspetti: principalmente, mentre per i delitti si risponde a titolo di
dolo, e solo se espressamente previsto dalla legge penale a titolo di colpa, per le contravvenzioni si risponde
indifferentemente per dolo o per colpa. Inoltre, il tentativo è configurabile esclusivamente per i delitti.
Reato proprio e reato comune
A seconda della figura soggettiva di chi lo commette, il reato può essere distinto in proprio o comune:
• il reato comune può essere commesso da chiunque.
• il reato proprio può invece essere commesso soltanto da colui che rivesta una determinata qualifica o abbia
uno status precisato dalla norma, o possieda un requisito necessario per la commissione dell'illecito; il peculato
e la concussione, ad esempio, possono essere commessi solo da un pubblico ufficiale o da un incaricato di
pubblico servizio poiché la ratio specifica della norma consiste evidentemente proprio nell'evitare che il
pubblico ufficiale o l'i.p.s. commettano azioni malvagie profittando della loro posizione, mentre la ratio
generale intende preservare rispettabile la pubblica amministrazione. Altrettanto, il delitto di falsa perizia può
essere commesso solo dal perito.
La qualità personale necessaria per il reato proprio può essere permanente oppure temporanea (o episodica),
come nel caso del testimone in un procedimento giudiziario il quale, pur non trovandosi evidentemente
stabilmente nella condizione di teste (non dovrebbe infatti trattarsi di una condizione frequente, si spera), può
commettere il reato proprio di falsa testimonianza solo durante quel breve tempo in cui rivesta tale funzione.
Anche la situazione nella quale si commette l'illecito può essere permanente o temporanea: l'elettore che entri
armato in un seggio elettorale può commettere quel reato proprio solo quando un seggio elettorale è presente,
ed il seggio esiste per i soli pochi giorni di voto e di spoglio.
La situazione soggettiva dell'autore del reato proprio può essere assoluta o relativa: è assoluta quella
condizione che una volta acquisita ha valore generale agli effetti dell'ordinamento, come per il caso del detto
pubblico ufficiale, che tale è per l'universalità dei componenti la comunità che ne riconosce la carica e la
funzione. È relativa invece quella condizione che ha valore solo per alcuni altri appartenenti alla medesima
comunità, ma non per altri, come accade nell'infanticidio per la madre che cagiona la morte del proprio
neonato (essa è l'unica madre di quel neonato, può essere madre di altri soggetti, ma non è ovviamente madre
di chiunque - la condizione dell'autore è dunque relativa al solo soggetto passivo del reato). Da taluni si cita
anche l'esempio dell'incesto, che consiste in una congiunzione carnale compiuta fra soggetti legati da vincoli di
sangue o di affinità, sebbene questo reato sia più spesso e più a proposito citato per esemplificare quelle azioni
umane normalmente lecite che divengono reato solo in presenza di particolari qualità dell'autore, ed in questo
caso divengono reato proprio. Vi sono bensì azioni umane che costituiscono sempre reato, ma che a particolari
condizioni divengono reato proprio: l'uccisione di un neonato è generalmente un omicidio, salvo che sia
commessa dalla madre del neonato, nel qual caso diviene il già ricordato reato proprio di infanticido.
Reato istantaneo, permanente e abituale
A seconda della natura e del momento consumativo del reato, in pratica della durata dell'illecito, e sotto l'aspetto
degli effetti dell'azione delittuosa, il reato può essere istantaneo, permanente, continuato, abituale o professionale.
• il reato istantaneo si ha quando la condotta con la quale si viola la norma (e quindi si produce l’offesa
all'ordinamento giuridico) si compie in un solo momento, in una sola frazione di tempo, come accade ad
esempio per il reato contravvenzionale di spari in luogo pubblico. Non è altrettanto corretto, come però da
molti si sostiene, includere anche l'omicidio fra i reati istantanei,
• il reato permanente è invece, il reato in cui l'evento lesivo e la sua consumazione perdurino per un certo lasso
di tempo, come accade per il sequestro di persona. Non è pacifica in dottrina la distinzione fra il reato
continuato ed il reato permanente, stante anche una qualche carenza di nitidezza lessicale, e la stessa
distinzione normativa non è da tutti condivisa; la differenza consiste nella eventuale pluralità di azioni da
considerarsi singolarmente reati ripetuti (reiterati), ovvero nella configurabilità di un reato unico, all'interno di
un brano temporale rilevante durante il quale perduri una situazione di illecito. Il detto sequestro di persona, ad
esempio, considerato come abusiva detenzione coattiva di una persona, è molto chiaramente un reato unico, la
cui consumazione si compie operando nel tempo una serie di azioni tutte finalizzate alla commissione di quel
delitto, di uno stesso disegno criminoso (reato continuato con pluralità di condotte). L'evasione fiscale del c.d.
"evasore totale" è invece un reato continuato (poiché parte dalla data di scadenza del pagamento dovuto e
cesserà solo al momento del pagamento) con il quale in una armonica condotta omissiva (al fine di perseguire
un medesimo coordinato disegno criminoso) possono aversi più reati distinti (evasione IRPEF, evasione IVA,
etc.).
• il reato abituale è un reato che si verifica solo in presenza di una condotta reiterata nel tempo da parte dello
stesso autore, mediante più azioni identiche ed omogenee, come nel lenocinio o nel delitto di maltrattamenti in
famiglia.
Reato a forma vincolata e a forma libera
Con riguardo alla condotta si distinguono invece i reati a forma vincolata ed i reati a forma libera.
• I reati a forma vincolata sono quei reati per i quali la norma penale descrive un'azione connotata da
specifiche modalità. In questo caso il bene protetto dalla norma penale è tutelato penalmente sono contro
determinate modalità di azione e non altre.
• I reati a forma libera sono i reati in cui la fattispecie è descritta facendo riferimento all'evento, potendo essere
le più varie le modalità della azione. (ad es. la norma penale che punisce l'omicidio tutela il bene della vita
indipendentemente dalle modalità di aggressione)
Reato di danno e reato di pericolo
Con riguardo alla offesa arrecata al bene giuridico protetto dalla norma penale distinguiamo i reati di danno e i reati
di pericolo.
• I reati di danno richiedono, ai fini della consumazione, la lesione effettiva del bene tutelato.
• I reati di pericolo consistono invece in azioni di semplice esposizione a rischio di lesioni. In tal caso dunque
la tutela offerta dal diritto penale ai beni giuridici è anticipata in quanto viene anticipata la stessa soglia di
tutela del bene.
IL DELITTO TENTATO
Il reato, come ogni cosa umana, nasce, vive e muore. Perciò esso, se considerato dal punto di vista dinamico, cioè nel
suo concreto divenire, si realizza di regola passando attraverso varie fasi, che costituiscono il cosiddetto iter criminis.
Tale iter, nella sua estensione massima, può snodarsi nella ideazione, preparazione, esecuzione, perfezione,
consumazione.
• La fase della ideazione si svolge all'interno della psiche del reo, passando attraverso il processo di motivazione e
culminando nella risoluzione criminosa, in se non punibile. È riscontrabile solo nei reati dolosi e può rilevare ai fini
dell'intensità del dolo.
• La fase della preparazione può aversi nei reati a dolo di proposito e, in particolare, di premeditazione.
• La fase di esecuzione si ha quando il soggetto compie la condotta esteriore richiesta per la sussistenza del reato.
• Sì ha la perfezione del reato allorché si sono verificati tutti i requisiti richiesti dalla singola fattispecie legale, nel
loro contenuto minimo cioè necessario e sufficiente per la esistenza del reato.
• Si ha consumazione quando sono al completo tutti gli elementi che costituiscono il reato, e più precisamente nel
momento in cui si verifica l’ultimo requisito necessario per l’esistenza dello stesso. Nasce così la nozione di reato
consumato, che si ha quando il fatto concreto risponde esattamente e compiutamente al tipo astratto delineato dalla
legge in una norma incriminatrice speciale.
Il tentativo è disciplinato dal nostro codice all’ art. 56, secondo il quale << Chi compie atti idonei, diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l’evento non si verifica. Il
colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e,
negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi >>.
Il tentativo nella sfera della volontà non differisce dal reato doloso consumato. Esso esige l’intenzione di commettere un
reato, perché è essenziale all’idea del tentativo lo sforzo diretto ad un risultato che costituisce il fine o uno dei fini
dell’azione.
Pertanto se valutiamo il delitto tentato dal punto di vista soggettivo, esso può considerarsi perfetto, mentre se lo
analizziamo dal punto di vista oggettivo, esso è incompleto, perché l’ipotesi delittuosa descritta dal legislatore nella
norma si è realizzata solo in parte. Quindi l’incompiutezza può presentarsi in due forme:
• Reato incompiuto, quando l’attività diretta a commettere il delitto non è condotta a termine;
• Reato compiuto, quando l’attività esecutiva è stata si condotta a termine dall’agente, ma l’evento richiesto per
l’esistenza del reato non si è verificato.
La punibilità del tentativo trae origine dalla disposizione contenuta nell’art. 56, la quale ha efficacia estensiva, nel senso
che estende la proibizione dei fatti descritti nelle varie norme incriminatici ai casi in cui l’agente non li realizza al
completo, ma compie atti idonei inequivocabilmente a porli in essere. Pertanto il delitto tentato è la risultante della
combinazione di due norme: una principale (la norma incriminatrice speciale) ed una secondaria (la norma estensiva), le
quali danno origine ad una nuova figura di reato che deve considerarsi autonoma. Quindi il tentativo non deve essere
vista come una circostanza attenuante rispetto al reato consumato, ma un vero e proprio reato perfetto, dal momento che
esso è un fatto al quale l’ordinamento giuridico ricongiunge una pena criminale. Quindi colui che compie un tentativo,
commette un reato.
Analizzando l’art. 56 c.p., emerge che oltre all’intenzione di commettere un delitto e all’incompiutezza, per l’esistenza
del tentativo occorrono due requisiti:
• Univocità degli atti, cioè gli atti devono essere diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
• Idoneità degli atti, nel senso che essi devono essere idonei allo scopo.
Il problema dell’inizio dell’attività punibile
Una delle problematiche più dibattute in dottrina consiste nella valutazione dell’inizio dell’attività punibile: certamente
il fatto punibile a titolo di tentativo non può essere il fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, altrimenti si
avrebbe il delitto consumato, ma deve invece consistere in un fatto che, per le ragioni più diverse, non raggiunge la
perfezione.
Tradizionalmente si era elaborata la distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi: solo i secondi sarebbero punibili, i
primi invece non potrebbero essere repressi in quanto non ancora adeguatamente espressivi di un’oggettiva capacità
d’offesa.
In vista delle gravi incertezze in cui si dibatteva la dottrina, i compilatori del codice attuale ritennero opportuno
sopprimere la distinzione tra gli atti preparatori e quelli esecutivi. A tale intento, fu modificata la formula contenuta nel
codice Zanardelli, che esigeva per la punibilità del tentativo che l’agente avesse cominciato l’esecuzione del delitto.
Questa soluzione però non placò le controversie in materia. Infatti si discuteva se la distinzione tra preparazione ed
esecuzione permanesse ancora nel nostro codice; anzi la maggioranza degli scrittori ritenne che l’intento dei compilatori
non riuscì a realizzarsi: nel diritto vigente gli atti preparatori sarebbero esenti da pena.
In proposito si deve sottolineare che non ogni atto con cui il reo realizza nel mondo esteriore il proposito criminoso, è
punibile. Pertanto per Antolisei la controversia circa l’esistenza o meno, nel codice vigente della distinzione tra atti
preparatori ed atti esecutivi ha scarsa importanza. Il codice attuale esige semplicemente l’univocità.
Ma quando un’azione può dirsi diretta in modo non equivoco a commettere un delitto?
Per risolvere esattamente il quesito, per Antolisei, occorre innanzitutto analizzare l’intenzione criminosa, che è
senz’altro necessaria per l’esistenza del tentativo. Consistendo questa in un fatto psichico, va desunta dal
comportamento esteriore del soggetto, tenendo in considerazione tutti gli elementi che stanno al di fuori del singolo
episodio criminoso. Ma anche la prova dell’intenzione non basta. Infatti, come si deduce dallo stesso art. 56, si richiede
che l’azione debba essere diretta in modo non equivoco, esprimendo pertanto un carattere oggettivo dell’azione. Ecco
che emerge uno dei due requisiti del tentativo, ossia l’univocità degli atti. Ciò vuol dire che l’azione, nel suo profilo
obiettivo ci deve dimostrare che il soggetto si è accinto a commettere il delitto. Insomma per potersi parlare di
univocità, è necessario che sia posta in essere un’azione che non viene compiuta se non per commettere quel dato fatto
criminoso.
Occorre poi aggiungere che un’azione non può considerarsi diretta in modo non equivoco a commettere un determinato
delitto, se non è pervenuta ad uno stadio tale da far ritenere assolutamente improbabile che l’agente la interrompa,
desistendo dal proposito criminoso.
Pertanto il requisito della univocità oggettiva importa che l’azione abbia avuto uno sviluppo tale:
• Da mettere in chiara evidenza il fine a cui è diretta;
• Da escludere un’apprezzabile probabilità che il reo desista dal condurla a termine.
L’idoneità degli atti
Altro requisito per l’esistenza del tentativo è l’idoneità degli atti diretti a commettere il delitto. Come è stato sottolineato
giustamente che un’azione non può mai giudicarsi assolutamente idonea o non idonea, perché la sua efficacia dipende
dalle circostanze del caso concreto. Pertanto si desume che l’idoneità o inidoneità dell’azione non va giudicata in
astratto, ma in concreto tenendo conto di tutte le particolarità del caso singolo.
Secondo la legge della causalità naturale, tutti i fenomeni della natura sono preceduti da un insieme di condizioni che li
determinano invariabilmente. Ciò significa che, quando un’azione non ha determinato un risultato, essa, nel caso
concreto, era insufficiente a produrlo e perciò inidonea. Da queste considerazioni si deduce, pertanto, che l’idoneità o
inidoneità dell’ azione non si può giudicare ex post, ma va giudicata ex ante. Il magistrato, deve riportarsi al momento
in cui l’azione è stata posta in essere, ed esprimere il giudizio tenendo conto delle circostanze che in quel momento
potevano essere conosciute. Egli riterrà idonea l’azione quando, si presentava adeguata rispetto al risultato a cui era
diretta.
Inoltre va notato che, se l’idoneità, accertata ex ante, equivale all’adeguatezza, l’idoneità medesima finisce col
coincidere completamente con il pericolo: con la conseguenza che idoneità dell’azione non significa altro che
pericolosità della stessa. Il tentativo è punibile, quando si è concretato in un’azione pericolosa: e siccome il pericolo non
è altro che probabilità, il requisito deve considerarsi sussistente tutte le volte in cui il piano del reo, al momento in cui fu
intrapreso, presentava delle probabilità di successo.
Il reato impossibile
Secondo l’art. 49 << La punibilità è esclusa, quando per l’inidoneita dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto
2° com.
di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso >>
Due sono le ipotesi di reato impossibile:
1. per inidoneità della condotta;
2. per l'inesistenza dell'oggetto materiale del reato.
Dal momento che l’inidoneità dell’azione deve essere valuta in concreto, tenendo conto delle circostanze in cui il fatto
si svolge, la menzione nell’art. 49 dell’ipotesi dell’inesistenza dell’oggetto sia stata inserita per eliminare ogni possibile
dubbio.
Per molti scrittori si deve distinguere tra inesistenza e mancanza occasionale della persona o della cosa contro cui è stata
diretta l’azione criminosa: il reato impossibile sussiste solo nel primo caso; perciò è soggetto a pena colui che sparando
di notte un colpo in direzione del letto di una persona che da pochi istanti per una circostanza casuale si era alzata.
Invece altri autori sostengono che il reato impossibile si riscontra quando l’oggetto materiale mancava già dall’inizio
dell’attività criminosa e non già quando sia venuto meno durante il corso dell’attività stessa.
Si deve però sottolineare che nessuno dei due orientamenti si può ritenere soddisfacente. Ma la questione va risolta in
base al criterio enunciato per l’idoneità degli atti – ex ante. Ciò significa che si deve considerare la situazione che si
proponeva al momento in cui l’agente si è accinto ad attuare il piano criminoso. Se in tal momento la presenza
dell’oggetto appariva improbabile, si avrà il reato impossibile: negli altri casi sarà punito. In conseguenza deve ritenersi
responsabile di tentativo di furto il borsaiolo che in un autobus introduce la mano in una tasca vuota di un passeggero.
Inoltre il disposto dell’art. 49 secondo il quale <<… Se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato
3° com.
diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso >> colui che sia stato assolto dall’imputazione
di furto perché il suo tentativo è giudicato inidoneo, potrà essere condannato per danneggiamento.
Verificandosi il reato impossibile, il giudice ha la facoltà di ordinare che imputato prosciolto sia sottoposto ad una
misura di sicurezza, e ciò perché il fatto può dimostrare che l’autore è un soggetto socialmente pericoloso. E questo
rappresenta uno dei due casi in cui si può applicare la misura di sicurezza senza che vi sia reato. Alcuni autori parlano di
quasi reato.
Da quanto detto emerge che malgrado il legislatore abbia cercare di configurare il reato impossibile come una figura a
sé, esso non è altro che un tentativo rimasto senza successo, in quanto si può ben dire che l’autore ha tentato di
commettere un delitto senza riuscirvi.
Una parte della dottrina, ha delineato poi le ragioni del distinguere tra tentativo inidoneo e delitto impossibile: nel primo
il giudizio di inidoneità attiene alle conclusioni dell’indagine sulla mancanza di tipicità del fatto; nel secondo si accerta,
che l’azione non ha provocato la violazione dell’interesse oggetto di tutela. I sostenitori di questa opinione ritengono
che il requisito dell’offesa all’interesse interno alla figura criminosa non discenda dalla semplice conformità del fatto
agli elementi descritti, ma supponga un ulteriore accertamento.
Il reato putativo
Il reato putativo si ha quando il soggetto ritiene erroneamente che l’azione da lui compiuta costituisca reato, mentre in
realtà non contrasta con la legge penale. A differenza di quello che accade nel errore di diritto, il soggetto non sbaglia
nel ritenere lecita un’azione che è proibita, ma nel ritenere proibita un’azione che in realtà è lecita. Pertanto, siccome il
fatto che egli realizza non viola nessun precetto della legge, il reato non sussiste. Il c.d. reato putativo è un non-reato.
Infatti secondo l’art. 49 del c.p. << Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato nella supposizione
erronea che esso costituisca reato >>.
Il reato putativo si distingue in:
• reato putativo per errore di diritto: quando l’agente ritiene a torto che il fatto, che egli pone in essere, sia
vietato dalla legge penale. Es. un uomo che crede di commettere bigamia nel contrarre matrimonio civile,
avendo prima contratto, con altra donna, un matrimonio di coscienza.
• Reato putativo per errore di fatto. Questo si presenta in varie ipotesi. Innanzitutto si verifica quando manca
uno degli elementi essenziali del reato. L’agente es., asporta una cosa mobile propria, ritenendola per errore res
aliena. Egli non commette furto, perché l’altruità della cosa è requisito essenziale di questo reato. Poi si
verifica quando l’agente erroneamente suppone di possedere la qualità richiesta per l’esistenza di un reato
proprio (ossia dei quel reato che per essere configurato come tale deve essere compiuto soltanto da determinate
persone). In ultimo si verifica quando crede di commettere un reato , mentre in realtà agisce in presenza di una
causa di giustificazione. Come per il reato impossibile, l’art 49, nel sancire l’impunità de reato putativo,
aggiunge che, se nel fatto concorrono gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per
il reato effettivamente commesso.
Le desistenza e recesso attivo
Può accadere che durante l’esecuzione del reato, e prima che questo sia consumato il reo, receda dal suo proposito
criminoso, interrompendo l’azione o impedendo il verificarsi dell’evento. Il codice penale regola questo caso all'art. 56
ai commi 3 e 4, che dispongono: << Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena
per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l'evento,
soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà >>.
Si tratta di due ipotesi distinte:
• Desistenza che si ha quando l’agente, dopo aver iniziato l’esecuzione del delitto, muta proposito ed interrompe
la sua attività criminosa (es. ladro, dopo aver aperto una porta con una chiave falsa, si allontana abbandonando
l’operazione)
• Recesso attivo che invece si verifica quando il colpevole ha condotto a termine l’attività esecutiva e,
desiderando, per riflessioni o fatti sopravvenuti, evitare il verificarsi dell’evento, agisce per impedirlo, come
nel caso di colui che , dopo aver gettato un uomo nel fiume, lo salvi.
Le due ipotesi sono in correlazione con i due stadi che possono presentarsi nel tentativo:
Tentativo incompiuto - l’abbandono del proposito criminoso si manifesta nella forma di desistenza;
Tentativo compiuto, e cioè quando l’attività esecutiva è esaurita, ma l’evento non si è ancora
verificato – la semplice inattività non può bastare: occorre che l’agente si renda attivo allo scopo di
impedire che le forze della natura, da lui messe in moto o utilizzate, determino il risultato.
Da quanto si è detto si desume che la desistenza ha carattere negativo, consistendo nel semplice non condurre a termine
l’attività prestabilita; invece il recesso attivo ha carattere positivo, in quanto esige la messa in opera di una nuova
attività. Nei reati omissivi la desistenza deve concretarsi in un fatto positivo, nel senso nel compimento di quell’ azione
che era stata omessa . Es. la madre che aveva sospeso l’allattamento del figlio allo scopo di cagionarne la morte, se
abbandona questo intento, non può rimanere inerte, ma deve riprendere l’allattamento del bambino. Pertanto in questo
caso non si parla di recesso attivo, ma di desistenza in quanto essa significa abbandono di un comportamento iniziato,
ed una condotta negativa non può essere abbandonata se non operando.
Quanto all'elemento soggettivo, la desistenza ed il recesso debbono essere posti in essere volontariamente. Secondo la
interpretazione più diffusa, conforme alla ratio degli istituti, la volontarietà non va intesa nel ristretto senso di
spontaneità, come comprova il fatto che la legge, quando esige la spontaneità, espressamente lo dice.
Secondo Antolisei la volontarietà presuppone la possibilità di scelta fra due condotte e che tale possibilità manca non
solo quando una di esse è impossibile, ma anche allorché la condotta diversa presenta svantaggi o rischi tali da non
potersi attendere da nessuna persona ragionevole. In base a questo criterio non deve considerarsi volontaria la
desistenza di colui che interrompe il tentativo per il sopravvenuto pericolo di sorpresa in flagranza, per aver constatato
la presenza di testimoni ed anche per la riconosciuta insufficienza dei mezzi usati.
Quanto agli effetti, la desistenza comporta la impunità del soggetto per il delitto tentato, salva la responsabilità per un
reato diverso se gli atti compiuti ne integrano gli estremi. Il recesso comporta solo una diminuzione della pena stabilita
per il delitto tentato. Se per recedere l'agente compie un altro reato, risponderà anche di questo.
Il tentativo nelle varie specie di reato
Secondo Antolisei, per la soluzione della controversia circa la possibilità del tentativo in diverse figure di reato, occorre
tenere presente, da un lato gli estremi che sono richiesti dall’art. 56, e dall’altro il momento consumativo del reato
risultante dalla fattispecie legale.
Con certezza si possono comunque stabilire dei criteri generali:
1) Il tentativo non è ammissibile nelle contravvenzioni, poiché l’art 56 parla di delitti.
2) Il tentativo non può ammettersi nei c.d. delitti di attentato, nei quali l’ipotesi tipica consiste nel compiere atti o
nell’usare mezzi diretti all’offesa di un bene giuridico.
3) Il tentativo non è concepibile nei delitti colposi, perché in tale categoria di reati manca l’intenzione di realizzare il
fatto contemplato nella norma incriminatrice, intenzione senza la quale, il tentativo stesso non può esistere.
4) Per quanto riguarda poi i reati omissivi dobbiamo distinguere: reati omissivi propri – nei quali il tentativo non è
configurabile poiché se, il termine utile per compiere l’azione prescritta non è scaduto, il non averla posta in essere
non implica ancora violazione dell’obbligo, mentre se il termine è scaduto, il reato il reato è già perfetto. Nei
delicta omissionem commissa il tentativo è invece ammissibile
LE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA
3. L’errore in generale
Le cause di esclusione della colpevolezza o scusanti sono cause che escludono la punibilità in quanto escludono la
colpevolezza, per mancanza di rimproverabilità, rispetto ad un fatto che oggettivamente resta illecito. L'errore è falsa
conoscenza della realtà, naturalistica o normativa. Si distingue dall’ignoranza, la quale è un difetto di congnizione o
assoluta mancanza di conoscenza in ordine ad un oggetto. Ogni errore presuppone l’ignoranza di qualche cosa, perché
altrimenti non si spiegherebbe. Viceversa può esservi ignoranza senza errore, se essa non è accompagnata da alcuna
persuasione. A seconda del momento dell'iter criminis su cui l'errore incide, occorre procedere alla fondamentale
distinzione tra:
• errore che cade nel momento ideativo del fatto, sul processo formativo della volontà, la quale nasce perciò viziata
da una falsa rappresentazione del reale;
• errore che cade nella fase esecutiva del reato, cioè nella fase in cui la volontà si traduce in atto. Esso viene in
considerazione nelle ipotesi del cosiddetto reato aberrante.
Presupposto necessario perché l’agente possa rendersi conto di agire in modo offensivo, antisociale e illecito è che egli
abbia la coscienza e volontà di porre in essere un fatto identico a quello tipico e non un fatto diverso: quindi l’errore
esclude il dolo a seconda che precluda o meno la coscienza e volontà del fatto, previsto dalla norma penale.
Il criterio razionale di distinzione recepito dagli artt. 5 e 47 è quello tra:
• errore sul precetto penale, che si ha quando il soggetto si rappresenta e vuole, un fatto che è perfettamente identico
a quello previsto dalla norma penale, ma che egli, per errore su questa, crede che non sia illecito e non costituisca
reato;
• errore sul fatto, che costituisce il reato che si ha quando il soggetto, che ben può avere una conoscenza della norma
penale, crede di realizzare un fatto diverso da quello da essa previsto.
Nel primo caso il soggetto erra sulla sola fattispecie legale, sulla qualificazione penale del fatto commesso; nel secondo
sulla fattispecie concreta, sulla corrispondenza del fatto commesso alla fattispecie legale.
In ultima analisi, la differenza fra errore sul divieto ed errore sul fatto consiste nella identità nel primo, e nella diversità
nel secondo, del fatto voluto rispetto al fatto incriminato dalla norma.
Errore sul fatto
Secondo l’art. 47 << L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta
di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo
>>.
Quindi per errore sul fatto che costituisce reato, si intende l’errore che cade su uno degli elementi che sono richiesti per
l’esistenza del reato. Questo errore si dice essenziale. L’ignoranza di uno degli elementi propri del reato fa venir meno
il dolo, poiché questo esige la conoscenza di tutti gli altri elementi che costituisco la figura criminosa.
Si deve sottolineare che l’esclusione del dolo non sempre significa esenzione da ogni responsabilità. Per il diritto penale
molto importante è la causa dell’errore, il quale può essere:
• Colpevole ( o inescusabile) quando dipende da imprudenza, imperizia o negligenza, cioè quello che poteva
essere evitato usando le dovute precauzioni. In tal caso sorge una responsabilità per colpa, se il fatto è previsto
dalla legge come reato colposo.
• Non colpevole (o scusabile) quando esso si verifica negli altri casi, e cioè quando nessun rimprovero può
muoversi all’agente.
L’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, sempre che del
secondo ne sussistano gli estremi. Così, se il reo ignora che la persona da lui offesa è un pubblico ufficiale, non
risponde di resistenza, perché questa qualità, deve essere conosciuta dall’agente, ma non può esimersi dalla
responsabilità per violenza privata (art. 610). Inoltre l’errore può derivare anche dall’inganno in cui l’agente sia indotto
per opera di un’altra persona. A tal proposito l’art. 48 stabilisce che si applicano le disposizioni del precedente articolo,
ma aggiunge che in tal caso << del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo
>>. Ovviamente perché si abbia l’esenzione da pena è necessario che l’errore sia essenziale ed incolpevole.
Pari trattamento si riserva alla supposizione erronea di una causa di giustificazione. L’ultimo comma dell’art. 59
infatti, stabilisce che << Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono
sempre valutate in favore di lui. Tuttavia se si tratti di un errore determinato da colpa, la responsabilità non è esclusa,
ove il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo >>. La supposizione erronea deve risolversi in un errore di
fatto, nel senso che il soggetto deve ritenere di versare concretamente in una situazione di fatto che se effettiva,
renderebbe applicabile una causa di giustificazione. Pertanto viene escluso il dolo e, quando l’errore sia scusabile, anche
la colpa.
Occorre tenere presente che anche in questo caso ciò che conta è l’errore di fatto; perché altrimenti perderebbe di
significato la norma fondamentale dell’art. 5 c.p. in ordine alla inescusabilità dell’ignoranza evitabile della legge. Ciò
presenta un certo interesse rispetto alla scriminante dell’esercizio del diritto o adempimento del dovere. Non basta che
l’agente creda di esercitare un diritto o adempiere un dovere: ma bisogna che dovere e diritto esistano effettivamente.
Ne deriva che la supposizione erronea, per essere efficace, deve riguardare di norma non l’esistenza del diritto o del
dovere, ma l’esercizio o l’adempimento degli stessi: cioè l’agente deve trovarsi in una situazione di fatto tale che ove
sussistesse realmente, egli eserciterebbe un diritto o adempirebbe ad un dovere.
Errore sulla legge extrapenale.
L’art. 47 dispone che << L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha
3° com
cagionato un errore sul fatto che costituisce reato >>.
Da questa disposizione si desume che l’errore sulla legge extra-penale per avere efficacia esimente deve aver
determinato un errore sul fatto che costituisce il reato, e cioè deve cadere su uno degli elementi che sono richiesti dalla
legge per l’esistenza stessa del reato.
Si deve premettere che quando si parla di norme diverse da quelle penali, non significa che si tratti di norme che stanno
al di fuori di questo ramo del diritto, dal momento che, anche disposizioni di diritto privato, amministrativo ecc. sono
necessariamente presupposte dalle leggi penali, con le quali formano un tutt’uno. Si parla in tal caso di norme
integratrici del precetto penale, vale a dire, di norme che si inseriscono nel precetto medesimo, completando la
descrizione del reato. Siffatte disposizioni non possono considerarsi extrapenali e l’errore su di esse è privo di efficacia.
Per Antolisei, per derimere i dubbi che si presentano il giudice può seguire il seguente criterio: non è extra-penale la
legge che dà una maggiore concretezza alla figura tipica di un reato precisandola; è extra-penale quella che inerisce
alla ratio che ha determinato la creazione della fattispecie considerata.
Ignoranza della legge penale
Per la teoria generale del diritto, l’errore può essere definito come una falsa rappresentazione della realtà: esso è distinto
dall’ignoranza. Infatti mentre quest’ultima si definisce come la mancanza di conoscenza, implicando per tale ragione un
quid negativo, l’errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà derivante da una situazione successiva ad un
quid positivo (o facere positivo).
In ogni modo la dottrina ritiene che, in materia penale, errore di diritto ed ignoranza, ai fini pratici, coincidano. Non così
nel caso di errore di fatto, il quale soggiace ad una differente disciplina legale che non verrà analizzata con la presente
scrittura.
L’errore-motivo può essere determinato sia da un errore di diritto (falsa rappresentazione o ignoranza di una norma
giuridica), sia in un errore di fatto (falsa rappresentazione di una realtà fenomenica), ma ciò che ci occupa in questo
caso è soltanto l’oggetto finale dell’errore. Se ricade sull’errore nel divieto, sia esso derivante da legge penale quanto
extra penale, è inescusabile, come sancisce l’art. 5 C.P. secondo cui nessuno può invocare a propria scusante
l’ignoranza della legge (ignorantia legis non excusat).
A delle conclusioni interessanti, ma simili, si perviene se considerassimo l’ipotesi del dubbio che un soggetto ha nei
confronti di un’azione quando un’ipotesi di illiceità si affaccia nella mente del soggetto nei confronti dell’agire stesso:
si avrà in tale situazione un conflitto tra due o più rappresentazioni della realtà giuridica (tale azione sarà o non sarà
permessa dall’ordinamento?). Ma a questo punto il soggetto risponderà dell’illecito in ogni caso, nell’ipotesi in cui
agisca nonostante il dubbio sulla liceità del suo agire, in quanto avrebbe potuto evitare la commissione del reato
attivando i mezzi necessari atti a conoscere il precetto penale ostativo alla legalità del suo comportamento.
In un solo caso è possibile scusare un’azione oggettivamente illecita nel caso di “errore inevitabile di diritto” come
afferma la sentenza n. 364/1988 della Corte Costituzionale: “E' costituzionalmente illegittimo l'art. 5 cod. pen. nella
parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile.” Nella motivazione
di tale sentenza la Corte afferma: “chi attenendosi scrupolosamente alle richieste preventive dell’ordinamento, agli
obblighi di solidarietà sociale, di cui all’art. 2 costituzione, adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie
prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può essere trattato allo stesso
modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri. Come è stato rilevato, discende dall’ideologia
contrattualistica l’assunzione da parte dello stato dell’obbligo di non punire senza preventivamente informare i cittadini
su che cosa è vietato o comandato, ma da tale ideologia discende anche la richiesta, in contropartita, che i singoli si
informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima di agire. La violazione del divieto di commettere reati,
avvenuta nell’ignoranza della legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle leggi dello Stato
tutta l’attenzione dovuta. Ma se non v’è stata alcuna violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti del possibile, si
è dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, 1° comma, Cost.) e, ciò malgrado, continua ad ignorare la legge, deve
concludersi che la sua ignoranza è inevitabile, pertanto scusabile”, si è riconosciuto l’esistenza della scusabilità
dell’errore di diritto “inevitabile” che si verifica quando il soggetto si trovi in uno stato inevitabile d’ignoranza del
precetto penale: tale è colui che attiva tutti i mezzi necessari per conoscere la legge penale e che, nonostante
l’adempimento di tutte le formalità che la legge gli offre, egli rimane comunque in stato d’ignoranza nei confronti del
precetto penale “de quo”.
Successivamente a tale sentenza sono intervenute altre sentenze, questa volta, della Corte di Cassazione. A tal
uopo ne citiamo qualcuna:
“Alla stregua della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, l'errore sul precetto è inevitabile nei casi di
impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato. Ma mentre per il comune cittadino
l'inevitabilità dell'errore va riconosciuta ogniqualvolta l'agente abbia assolto, con il criterio della ordinaria diligenza, al
cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la
conoscenza della legislazione vigente in materia, per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata
attività, tale dovere è particolarmente rigoroso, tanto che essi rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis"
nello svolgimento dell'indagine giuridica. In questa seconda situazione occorre, cioè, ai fini dell'affermazione della
scusabilità dell'ignoranza, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico
orientamento giurisprudenziale l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza della interpretazione e,
conseguentemente della liceità del comportamento futuro. (Fattispecie nella quale è stata esclusa l'inevitabilità
dell'errore su norme integrative del precetto penale addotto dall'imputato, biologo accusato di abusivo esercizio della
professione medica per avere effettuato un prelievo di sangue venoso a fini di analisi, essendosi il medesimo limitato ad
allegare alcune pronunce di giudici di merito favorevoli alla sua tesi e un avviso di natura meramente interna di una
pubblica amministrazione) Cass. penale, sez. VI, 21-02-1997 (06-12-1996), n. 1632”.
“In materia contravvenzionale, è configurabile la cosiddetta "buona fede" ove la mancata coscienza dell'illiceità derivi
non dall'ignoranza della legge, ma da un elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della
sua liceità, come un provvedimento dell'autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o
contraddittoria una equivoca formulazione del testo della norma (Cass. penale, sez. III, 21-04-1989 (08-03-1989), n.
6160). “Nelle contravvenzioni la buona fede del trasgressore diventa rilevante quando si risolve - in presenza ed a
causa di un elemento positivo estraneo all'agente - in uno stato soggettivo tale da escludere la colpa. Ne deriva che
difetta l'elemento psicologico, per scusabilità dell'errore, qualora l'agente abbia tratto il convincimento di liceità da un
fatto positivo dell'autorità. (Nella specie l'agente si era recato in Lucca in virtù di un permesso del magistrato di
sorveglianza, pur contravvenendo ad un foglio di via obbligatorio con divieto di ritorno in quella città per tre anni - la
cassazione ha ritenuto corretta la decisione di proscioglimento adottata dalla corte d'appello, che aveva considerato
scusato il comportamento dello imputato sia perché conforme al suddetto permesso, sia perché in precedenza il
ricorrente già era stato assolto per fatto analogo (Cass. penale, sez. I, 17-07-1989 (14-07-1988), n. 10424)”.
“La esclusione della colpevolezza nelle contravvenzioni non può essere determinata dall'errore di diritto
dipendente da ignoranza non inevitabile della legge penale, quindi, dal mero errore di interpretazione, che diviene
scusabile quando è determinato da un atto della pubblica amministrazione o da un orientamento giurisprudenziale
univoco e costante, da cui l'agente tragga la convinzione della correttezza dell'interpretazione normativa e, di
conseguenza, della liceità della propria condotta. (Cass. penale, sez. III, 21-04-2000 (17-12-1999), n. 4951)”.
Si può quindi definire come “errore inevitabile di diritto” quell’errore che viene commesso da colui il quale,
pur avendo attivato tutti i mezzi necessari affinché potesse conoscere la legge penale, pur avendo richiesto pareri ad
autorità competenti autorizzate dalla legge ad agire nell’interesse di determinati soggetti giuridici, agisca senza la
coscienza dell’illiceità, nonostante l’antigiuridicità obbiettiva del suo comportamento.
Sarà il giudice che di volta in volta accerterà la presenza dell’errore inevitabile di diritto il quale, una volta
rilevato, renderà il soggetto non responsabile della condotta oggettivamente antigiuridica messa in essere dal tale
soggetto.
LA COLPA
Per l'articolo 43 1°c << Il delitto è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se previsto, non è voluto
dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l'inosservanza di leggi,
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