Riassunto esame Diritto Internazionale, prof. Giardina, libro consigliato Diritto Internazionale, Conforti
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blighi che gravano sullo Stato stesso in virtù di un trattato
precedente.
art. 41 Due o più parti di un trattato multilaterale non possono
concludere un trattato che miri a modificare il primo, sia
pure limitatamente ai loro rapporti, quando la modifica è
vietata dal trattato, oppure pregiudica le altre parti con
traenti, o, in più, è incompatibile con la realizzazione del
l’oggetto e dello scopo del trattato multilaterale stesso.
Il testo dell’art. 41 appare ambiguo, poiché sembra accogliere la tesi
dell’invalidità dell’accordo successivo che viola gli obblighi assunti
verso le altre parti del primo accordo. Tuttavia questa ipotesi è smenti
ta dai lavori preparatori della Convenzione e anche dal fatto che il
caso previsto dall’art. 41 non figura tra le cause di invalidità dei tratta
ti in Vienna 69. Si può concludere che l’art. 41 risolve il problema
solo in termini di illiceità e responsabilità internazionale degli Stati
contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato mul
tilaterale. Esso, quindi, è solo una specificazione dei parr. 4 e 5 relati
va agli accordi derogatori apparentemente limitati ai rapporti tra i con
traenti.
In realtà, gli Stati cercano di evitare situazioni del genere inse
rendo negli accordi le cosiddette clausole di compatibilità o clausole
di subordinazione che risolvono il problema alla radice. Secondo
l’art. 30, par. 2, di Vienna 69, quando un trattato precisa che esso è su
bordinato ad un trattato anteriore o posteriore, le disposizioni di que
st’ultimo prevalgono. In ogni caso, a queste clausole spesso si accom
pagna l’impegno delle parti ad intraprendere tutte le azioni necessarie,
lecite e idonee per sciogliersi da obblighi incompatibili.
Un impegno del genere è contenuto nell’art. 307 del Trattato Ce. Il
problema della compatibilità, ad esempio, si è verificato tra il Trattato
Ce e il Gatt, l’Accordo Generale sulle Tariffe doganali e il Commer
cio, poi confluito nel Wto, Organizzazione Mondiale per il Commer
cio. Il Wto tende alla globalizzazione dei mercati, mentre il Trattato
Ce istituisce un’unione doganale a carattere regionale, che prevede
l’abbattimento interno delle barriere doganali, ma che istituisce una ta
riffa doganale comune verso l’esterno.
11. Le riserve nei trattati.
Attraverso l’istituto della riserva lo Stato esprime la volontà di:
- non accettare alcune clausole di un trattato;
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- accettare alcune clausole con talune modifiche;
- accettare alcune clausole secondo una certa interpretazione
espressa attraverso la cosiddetta dichiarazione interpretativa.
In seguito alla riserva, tra lo Stato, che ne è autore, e gli altri Stati con
traenti l’accordo si forma solo per la parte non investita della riserva,
mentre tra gli altri Stati rimane integralmente applicabile.
La dichiarazione interpretativa di non accettare una o più norme
di un trattato, se non in un certo significato, rende non opponibile allo
Stato dichiarante altre interpretazioni della norma. Parte della dottrina
distingue tra dichiarazioni interpretative qualificate o condiziona
te, che sono vere e proprie riserve, e dichiarazioni interpretative
semplici, che sarebbero solo una proposta di interpretazione, mirante
ad evitare il consolidarsi di una prassi, favorirla o inaugurarla.
L’ammissione delle riserve ha lo scopo di consentire la più lar
ga partecipazione possibile nei trattati multilaterali. Invece, nei trattati
bilaterali la parte che non vuole assumere certi impegni può proporre
direttamente la cancellazione dal testo della clausola su cui c’è diver
sità d’opinione.
Molto meno elastica era la situazione nel diritto internazionale
classico. La possibilità di apporre riserve doveva essere già concorda
ta nella fase di negoziazione e la riserva stessa doveva figurare nel te
sto predisposto dai plenipotenziari. A questo punto gli Stati potevano
scegliere se ratificare o meno. Formulare riserve non previste nel testo
impediva la formazione del consenso, comportava l’esclusione dello
Stato dal novero dei contraenti; solo eventualmente poteva costituire
proposta di un nuovo accordo.
Un cambiamento decisivo è dovuto al parere della Corte Inter
nazionale di Giustizia (28.05.1951), in risposta ad una richiesta del
l’Assemblea Generale dell’Onu circa la possibilità di apporre riserve
alla Convenzione sul genocidio, che non prevedeva tale clausola. Con
un principio oggi entrato nella prassi, la Corte rispose che una riserva
poteva essere formulata all’atto della ratifica, anche se la facoltà non
era prevista dalla Convenzione, purché essa fosse compatibile con
l’oggetto e con lo scopo del trattato. Un altro Stato può, comunque,
contestare la riserva e la sua compatibilità con lo spirito del trattato e,
se non si raggiunge un accordo sul punto, il trattato non è esistente tra
Stato contestante e Stato autore della riserva.
A questa linea flessibile è ispirata la disciplina sulla riserva sug
gerita da Vienna 69:
art. 19 Una riserva può essere sempre formulata, purché
non espressamente esclusa dal trattato e purché non
incompatibile con l’oggetto e lo scopo dello stesso.
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art. 20 Quando la riserva non è prevista nel testo del tratta
to, essa può essere contestata da un altro contraen
te, ma, se la contestazione non viene manifestata
entro 12 mesi dalla notifica della riserva ai con
traenti, la riserva si ritiene accettata.
artt. 20 - 21 L’obiezione ad una riserva non impedisce che essa
esplichi i suoi effetti nei rapporti tra lo Stato formu
lante e lo Stato obiettante, a meno che quest’ultimo
non abbia espresso la chiara e manifesta intenzione
di impedire che il trattato entri in vigore nei rappor
ti tra i due Stati.
La prassi successiva ha portato un’ulteriore evoluzione. Si am
mette che l’obiezione alla riserva abbia gli effetti più vari: dall’impe
dire che l’accordo si formi tra Stato riservante e Stato obiettante, fino
all’effetto puramente precauzionale addirittura morale. Si consente di
formulare riserve anche in periodo successivo alla ratifica, purché non
vi siano obiezioni sul ritardo. Ma la tendenza maggiormente innovatri
ce si ricava dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
Umani che, in caso di formulazione di riserva inammissibile (esclusa
dal testo, contraria all’oggetto e allo scopo del trattato), afferma che lo
Stato formulante non viene escluso dal trattato, ma unicamente la ri
serva è invalida e deve ritenersi come non apposta. Tuttavia non è
possibile per ora estendere a tutti i trattati questa interpretazione, ri
volta specificamente alla Convenzione Europea dei Diritti Umani,
fondamentale strumento per la difesa delle prerogative dell’essere
umano e, quindi, da non sottoporre più di tanto a tentativi di modifica.
Infatti, la Corte Internazionale di Giustizia continua a comportarsi in
modo tradizionale.
Può accadere che sorgano problemi circa la competenza a for
mulare riserve. Il problema va risolto analizzando i vari testi costitu
zionali. In Italia la questione si è già posta, quando il Governo ha ag
giunto di sua iniziativa riserve non concordate col Parlamento. Parte
della dottrina ritiene ammissibile un’ipotesi del genere, o anche che il
Governo non tenga conto di una riserva espressa dal Parlamento nella
legge di autorizzazione, assegnando all’esecutivo il ruolo di gestore
dei rapporto internazionali. Altra parte della dottrina è invece di pare
re contrario, giudicando essenziale la collaborazione dei due organi
per la formazione della volontà statale. Alla collaborazione tra Gover
no e Parlamento è ispirato l’art. 80 Cost. Per il Conforti, l’apposizio
ne di una riserva da parte del Governo all’atto della ratifica è valida
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per il diritto costituzionale e anche per il diritto internazionale. In
caso, invece, di non dichiarazione del Governo di una riserva voluta
dal Parlamento e contenuta nella legge di autorizzazione, per la parte
coperta dalla riserva sarà ipotizzabile una violazione del diritto inter
no. Lo Stato, quindi, non rimarrà impegnato per quella parte del tratta
to, a meno che il Parlamento non revochi la riserva.
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12. L’interpretazione dei trattati
L’attività interpretativa dei trattati, che consente di comprendere
le volontà espresse nel testo dell’accordo, ha portato all’abbandono
del metodo subbiettivistico per il quale, sulla scorta della disciplina
dei contratti nel diritto interno, ha rilievo la volontà effettiva delle par
ti come contrapposta a quella dichiarata. Ora la regola generale si rifà
al metodo obbiettivistico, per il quale si deve attribuire al trattato il
senso che appare palese nel testo, dalla sua costruzione logica, in ar
monia con l’oggetto e con la funzione dell’atto. In tal senso, a diffe
renza del primo metodo, i lavori preparatori assumono un’importanza
sussidiaria. Ad essi si ricorre solo per comprendere un testo ambiguo e
lacunoso e per rafforzare interpretazioni già desumibili generalmente
dal testo del trattato. In pratica, vanno risolte le contraddizioni che de
rivano dai compromessi tra le parti, accettate per arrivare ad un accor
do, spesso presenti, oltre che nel testo, anche nei lavori preparatori.
Vienna 69 si pronuncia a favore del metodo obbiettivistico nei
seguenti articoli.
art. 31 Un trattato deve essere interpretato in buona fede, secondo
il normale significato dei termini del testo, alla luce del
l’oggetto e dello scopo del trattato stesso; si fa eccezione
quando ad un termine può attribuirsi un significato parti
colare, se è certo che tale era l’intenzione delle parti.
art. 32 I lavori preparatori sono un mezzo supplementare di inte
grazione, quando il testo ha un significato ambiguo e
oscuro e quando dall’esame dello stesso deriva un signifi
cato assurdo e irragionevole.
art. 33 Nel caso di trattati redatti in più lingue, se la comparazio
ne dei testi porta a differenze di significato ineliminabili
attraverso gli strumenti interpretativi suddetti e se non è
prevista la prevalenza di un testo, va comunque adottato il
significato che meglio concilia le varie versioni, tenuto
conto dell’oggetto e dello scopo del trattato.
Valgono poi quelle regole di teoria generale dell’interpretazione vi
genti in quasi tutti gli ordinamenti e considerate, nell’ordinamento in
ternazionale, principi generali del diritto, con lo scopo di favorire, più
che impedire, l’incontro tra le volontà degli Stati. Rispetto al passato
ha preso piede il criterio dell’interpretazione estensiva e di un aspet
to particolare di essa come l’analogia. In definitiva si va verso la ri
cerca del senso letterale del testo e quasi mai verso l’idea di sovranità
dello Stato che, invece, porterebbe ad un’interpretazione restrittiva.
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Un’applicazione di questi principi è ravvisabile nella teoria dei
poteri impliciti, applicata dalla Corte Internazionale di Giustizia in
fase di interpretazione della Carta dell’Onu. Secondo la Corte, il trat
tato istitutivo dell’Onu, più che come accordo va visto come costitu
zione, per cui ogni organo dell’istituzione dispone non solo dei poteri
espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tut
ti i poteri necessari per l’esercizio di tali poteri. Questa teoria, consi
derando la generalità e l’indeterminatezza di molti fini dell’organizza
zione, ha spesso portato ad ampliare notevolmente i poteri degli orga
ni delle Nazioni Unite.
La teoria dei poteri impliciti, spesso utilizzata nei diritti interni,
ha assunto grande importanza anche nella Comunità Europea. Nel
trattato istitutivo, l’art. 308 ammette che quando un’azione della Co
munità, non prevista dall’accordo, è necessaria per raggiungere uno
degli scopi prefissati dell’organizzazione, il Consiglio, su parere del
Parlamento, può votare all’unanimità le disposizioni del caso, am
pliando i poteri degli organi interessati. Tuttavia, questa norma sembra
non accogliere la teoria degli organi impliciti, poiché l’ampliamento
dei poteri viene fatto non su base interpretativa, ma con una delibera
zione ad hoc dell’organo rappresentativo di tutti gli Stati. Di fatto, la
Corte di Giustizia ha invece scavalcato l’art. 308, ricavando i poteri
impliciti direttamente dalle norme del trattato.
Secondo il Conforti, questa teoria è eccessivamente estensiva.
Bisogna essere cauti nel trasferire per analogia sul piano internaziona
le le norme di diritto interno. E’ vero che spesso la sua applicazione
consente l’efficace funzionamento di organi, nelle more del trattato
istitutivo, ma è anche vero che ampliare eccessivamente questa pratica
può rivelarsi poco opportuno politicamente e portare a contrasti tra gli
Stati membri di un trattato istitutivo di organizzazioni internazionali.
Contraria alle interpretazioni unilateralistiche, cioè che una
norma di diritto internazionale possa assumere significati diversi a se
conda dello Stato contraente, è Vienna 69. Abbiamo visto come l’art.
33 si preoccupa di conciliare i testi di uno stesso trattato redatto in più
lingue. Inoltre, l’art. 31 afferma che nell’interpretare un trattato occor
re tenere conto delle altre norme internazionali in vigore tra le parti e
di ogni altra regola di diritto internazionale pertinente al caso. E’ si
gnificativo che, nel novero di queste norme richiamate come ausilio
interpretativo, Vienna 69 non includa le norme di diritto interno (cosa
che avveniva frequentemente in passato). Una prova in più, questa,
per capire come si sia ormai lontani dall’interpretazione dei trattati in
modo unicamente conforme al proprio diritto. Insomma, per favorire
l’incontro delle volontà degli Stati contraenti, va rifiutata ogni inter
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pretazione unilateralistica che non sia autorizzata dall’accordo stesso e
va invece ricercato per ogni clausola un significato unico.
L’esigenza di evitare interpretazioni unilateralistiche, soprattut
to di termini tecnico-giuridici suscettibili di avere significati diversi
nei vari ordinamenti, è stata ultimamente avvertita in sede di stipula
zione dei cosiddetti accordi di diritto uniforme, ossia quelle intese
con cui gli Stati si impegnano a regolare allo stesso modo settori del
diritto privato, del diritto privato internazionale e del diritto processua
le. Nel caso di lacune nel significato delle parole, l’interprete o il giu
dice interno dovranno evitare di rifarsi ai significati più vicini al pro
prio diritto, se non autorizzati dagli accordi stessi, per cercare di far
prevalere i principi generali e i principi comuni agli Stati contraenti.
13. La successione degli Stati nei trattati.
La successione nel diritto internazionale avviene quando uno
Stato, che si sostituisce per i motivi più vari ad un altro nel governo
effettivo di una comunità territoriale, assume i vincoli derivanti dai
trattati stipulati dal precedente regime. La sostituzione può avvenire
nelle seguenti maniere:
1. Cessione: la parte del territorio di uno Stato viene consegnata e
passa sotto la sovranità di un altro Stato già esistente.
2. Conquista: la parte del territorio di uno Stato passa sotto la so
vranità di un altro Stato già esistente che ne prende possesso.
3. Distacco consensuale: la parte del territorio di uno Stato si co
stituisce in Stato indipendente con l’accordo delle parti.
4. Rivoluzione: la parte del territorio di uno Stato si costituisce in
Stato indipendente in seguito a rivolgimenti politici.
5. Incorporazione: l’intero territorio di uno Stato è soggetto ad in
globazione in un altro Stato.
6. Fusione: l’intero territorio di uno Stato si unisce ad un altro Sta
to, per formare un’entità del tutto nuova.
7. Smembramento o secessione: dal territorio di uno Stato si for
mano più Stati nuovi. 4
8. Radicale cambiamento di regime: in seguito a rivolgimenti
politico-sociali un nuovo Governo si sostituisce in toto a quello
esautorato. (Ipotesi non riconosciuta da tutta la dottrina).
In tutti questi casi bisogna risolvere se obblighi e diritti pattizi (dato
che quelli consuetudinari si rivolgono a tutti gli Stati) passino allo Sta
to subentrante. All’argomento è dedicata la Convenzione di Vienna
1978, entrata in vigore nel 1996, sulla successione degli Stati nei trat
tati, predisposta dalla Commissione di diritto dell’Onu. La Convenzio
ne si applica a tutte le successioni intervenute dopo l’entrata in vigore
della stessa, ma uno Stato successore può chiederne l’applicazione ad
una successione avvenuta precedentemente. La Convenzione per alcu
ne parti si differenzia dal diritto internazionale generale e questo dà
vita ad una disciplina particolare.
Un principio della prassi, comunemente accettato, anche da
Vienna 78, è “res transit cum suo onere”, per cui uno Stato che si
sostituisce ad un altro è vincolato dai precedenti trattati localizzabili,
ovvero accordi e clausole di accordi di natura reale che riguardano l’u
so di determinate parti del territorio (servitù attive e passive, affitti di
parti di territorio, navigabilità dei fiumi, smilitarizzazione di aree, co
struzione di opere sui confini). Di solito si fanno rientrare in questa
categoria anche gli accordi che fissano le frontiere (anche Vienna
78), ma, per il Conforti, queste intese esauriscono i loro effetti nel mo
mento in cui la frontiera viene determinata, dopo di che a dover esser
rispettato non è l’accordo, ma il principio consuetudinario, riconosciu
to da tutti, del rispetto del diritto di sovranità che ciascun Paese eserci
ta all’interno dei propri confini.
Questo principio in linea di massima è stato rispettato anche da
gli Stati nati dalla decolonizzazione. Ad esempio, in America Latina si
è applicato il principio dell’uti possidetis, in base al quale i nuovi Sta
ti hanno ereditato le frontiere delle circoscrizioni dell’impero colonia
le spagnolo. Questa prassi ha evitato di mettere a rischio la stabilità e
l’indipendenza dei nuovi Stati con lotte nate dalla contestazione sulle
frontiere. La Corte Internazionale di Giustizia risolse a favore del
Ciad, ex Stato coloniale francese, una controversia sui confini conte
stati dalla Libia, innescata proprio da Tripoli che nel 1955 li aveva
stabiliti con un accordo di buon vicinato stipulato con la Francia.
Un limite alla successione nei trattati localizzabili è stabilito dal
diritto internazionale per quegli accordi di natura politica, cioè stret
tamente legati al regime precedente (in tal senso anche Vienna 78 art.
12). In realtà si tratta, più che di un limite, dell’applicazione del prin
cipio generale rebus sic stantibus, in base al quale un trattato, o de
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terminate sue clausole, si estingue, se mutano in modo radicale le cir
costanze esistenti al momento della conclusione.
Per quanto riguarda, invece, i trattati non localizzabili la mag
gioranza della dottrina, e la prassi lo conferma, è concorde nell’appli
care la regola della tabula rasa, in base alla quale lo Stato che suben
tra non è vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore.
Assai particolare la scelta fatta da Vienna 78, che distingue tra
Stati di nuova indipendenza, nati dalla decolonizzazione, ai quali ap
plica il principio della tabula rasa, dalle altre ipotesi di subentro per le
quali invece assume il principio della continuità dei trattati. Questa
scelta non trova applicazione nella prassi nella quale è generalizzato il
principio della tabula rasa.
Facendo riferimento ai casi di successione prima elencati, si
possono definire i seguenti casi di applicazione del principio della
tabula rasa.
Distacco: allo Stato formatosi su parte del territorio, si
applica la tabula rasa per gli accordi non lo
calizzabili.
Cessione / Conquista gli accordi vigenti nello Stato che subisce il
distacco non hanno più vigore nel territorio
distaccato. A quest’ultimo si applicano auto
maticamente gli accordi vigenti nello Stato
che acquista il territorio. La dottrina parla di
mobilità delle frontiere dei trattati. Questa
regola è accolta da Vienna 78, che la applica
a tutti i casi, accogliendo così la disciplina
prevista dal diritto consuetudinario.
Secessione: da uno Stato si creano nuovi Stati per i quali
cessano di aver vigore i precedenti trattati.
Da queste regole si differenzia il caso della Siria, che nel ‘58
costituì con l’Egitto la Repubblica Araba Unita e se ne staccò nel ‘61.
Dopodiché, Damasco, così come gli altri componenti della Rau, con
tinuarono ad applicare i trattati conclusi tra il 1958 e il 1961.
Il problema della successione non influenza affatto i cosiddetti
accordi di devoluzione, ovvero quelle intese tra nuovo Stato ed ex
madrepatria, con cui il primo acconsente a subentrare nei trattati già
conclusi dalla seconda. Dato che questi accordi non hanno efficacia
per gli altri contraenti dei trattati, spetta poi al nuovo Stato rinnovare
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le intese con essi. Il rinnovo può anche avvenire tacitamente e risultare
da fatti incontrovertibilmente concludenti.
Per Vienna 78, limitatamente agli Stati ex coloniali, la pratica
del rinnovo è necessaria per i trattati bilaterali, che il nuovo Stato vo
glia continuare ad osservare, e per i trattati multilaterali chiusi.
Per i trattati multilaterali aperti, invece, il nuovo Stato, anziché
aderire, può procedere alla notificazione di successione, atto col qua
le la partecipazione al trattato retroagisce al momento dell’acquisto
dell’indipendenza. L’adesione, invece, avrebbe efficacia ex nunc. Una
prassi, questa, applicata agli Stati sorti dalla decolonizzazione e ora di
ventata consuetudine (es.: Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovac
chia). Anche in tal caso, però, Vienna 78 si discosta dalla consuetudi
ne e applica la regola della notificazione ai soli Stati ex coloniali,
mentre per gli altri prevede il principio della successione automatica.
Un discorso particolare va fatto per lo smembramento, ipotesi
affine alla secessione, ma, mentre quest’ultima non causa l’estinzione
dello Stato originario, lo smembramento causa la nascita di due o più
Stati nuovi, nessuno dei quali conserva, sia pure approssimativamente,
la stessa organizzazione di governo, lo stesso regime, la stessa costitu
zione materiale dello Stato preesistente. Ad esempio, la formazione
delle due Germanie dopo il Terzo Reich; gli Stati nati dalla dissoluzio
ne dell’Unione Sovietica o della Jugoslavia e della Cecoslovacchia.
Per il diritto generale, quanto alla successione nei trattati, lo
smembramento è assimilabile al distacco. Ai nuovi Stati (sempre per i
trattati non localizzabili) si applica il principio della tabula rasa, pre
vedendo per i trattati multilaterali aperti la facoltà di aderirvi con la
clausola di successione. Anche Vienna 78 (art. 34) unifica le ipotesi
del distacco e dello smembramento, sottoponendole, tuttavia, al prin
cipio della continuità dei trattati; come già detto, la Convenzione riser
va la tabula rasa ai soli Stati ex coloniali.
Alcuni sostengono che il principio della tabula rasa applicata
allo smembramento non trova riscontro nella prassi in cui spesso si re
gistra la tendenza dei nuovi Stati ad accollarsi, dividendo pro quota, le
obbligazioni pattizie dello Stato smembrato con altri Stati e organiz
zazioni internazionali. Questa tesi è smentita dal fatto che l’accollo dei
debiti risulta di solito da nuovi accordi tra i nuovi Stati, motivati, più
che dalla volontà di aderire ai principi del diritto internazionale, dal
desiderio di non interrompere il flusso dei crediti a proprio favore.
Inoltre, il gran numero di notificazioni di successione presentate nei
casi succitati, dimostra che nella prassi è vigente il principio della ta
bula rasa. Non vi sarebbe stato bisogno delle notificazioni, infatti, se
la successione fosse stata automatica. Molti Stati, poi, non procedono
alla notificazione per i trattati a cui non desiderano partecipare.
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Opposte allo smembramento sono le seguenti ipotesi:
Incorporazione: uno Stato si estingue e passa a far parte di un altro
Stato, del quale prevale l’organizzazione di gover
no. (Es.: formazione del Regno d’Italia; riunifica
zione delle due Germanie).
Fusione: due o più Stati si estinguono e danno vita ad uno
Stato nuovo, con organizzazione diversa da quelle
degli Stati precedenti (Es.: fusione nel 1990 tra Ye
men del Nord e Yemen del Sud).
L’applicazione dei trattati nell’ipotesi di incorporazione, pre
vede che gli accordi dello Stato accolto cessino di aver vigore, ad ec
cezione di quelli localizzabili, mentre ad esso si applicano i trattati
dello Stato incorporante (regola della mobilità delle frontiere nei trat
tati – principio della tabula rasa).
Così anche, lo Stato sorto dalla fusione (sempre che non abbia
alcuna continuità con uno degli Stati preesistenti) nasce libero da im
pegni pattizi (sempre con esclusione degli accordi localizzabili).
Eccezione a quanto detto, si verifica quando tra gli Stati nati da
incorporazione o fusione, si instauri un rapporto di tipo federale, che
si ha quando lo Stato incorporato o gli Stati che si sono fusi, pur estin
guendosi come soggetti internazionali, conservano un notevole grado
di autonomia nell’ambito delle nuove formazioni nazionali. In tal
caso, la prassi, pur con qualche eccezione, si è orientata nel senso del
la continuità degli accordi con efficacia limitata alla regione incorpo
rata o fusa, sempre che una simile limitazione sia compatibile con
l’oggetto e con lo scopo dell’accordo.
La disciplina di Vienna 78 (artt. 31 – 33), che si discosta dal di
ritto generale, è orientata al principio della continuità dei trattati per
gli Stati che si uniscono a seguito di incorporazione o fusione, entro i
limiti territoriali a cui si riferivano gli accordi. Eventuali estensioni del
trattato a tutto il nuovo Stato vanno realizzati mediante accordi suc
cessivi o notificazioni di successione. La Convenzione estende, quin
di, a livello generale la prassi relativa ai vincoli di tipo federale.
Discorso a parte va fatto quando, senza che si verifichi alcuna
modificazione di territorio, lo Stato subisce un radicale mutamento
di governo. In tal caso deve ritenersi che muti la persona di diritto in
ternazionale. In quest’ipotesi, nonostante molti governi abbiano prete
so l’applicazione del principio della tabula rasa, si applica il criterio
della successione del nuovo Governo nei diritti e negli obblighi con
tratti dall’esecutivo precedente, ad eccezione dei trattati di natura poli
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tica, strettamente legati al governo preesistente e incompatibili col
nuovo regime. Per il Conforti questa, più che un’eccezione al princi
pio della tabula rasa, costituisce un’applicazione del principio rebus
sic stantibus, per cui gli accordi si estinguono se mutano radicalmente
le circostanze al momento della loro conclusione.
Si discute se il diritto internazionale imponga una successione
anche in situazioni giuridiche di diritto interno, come proprietà dei
beni pubblici, rispetto delle concessioni amministrative, assunzione
del debito pubblico. Per quest’ultimo aspetto è di rilievo il fatto che,
di solito, il debito è contratto con l’emissione di titoli di credito sotto
scritti da persone fisiche e giuridiche nazionali o estere. Ma è possibile
– è questo il caso per noi rilevante – che il debito scaturisca da un ac
cordo internazionale con altri Stati o con organizzazioni internaziona
li. In questo caso il principio generale applicabile è quello della tabula
rasa ad eccezione dei debiti localizzabili (con esclusivo riguardo al
territorio: finanziamento di opere pubbliche o di contratti con autorità
pubbliche locali). E’ pur vero che la prassi recente (smembramento
dell’Unione Sovietica e della Cecoslovacchia) ha portato i nuovi Stati
ad assumersi equamente, tramite accordi basati sul numero degli abi
tanti e dimensione dei territori, i debiti del regime passato, ma questo
più allo scopo di continuare a godere del credito estero, che nel rispet
to di norme internazionali. Non è escluso, tuttavia, che il ripetersi di
questo atteggiamento possa portare alla formazione di una prassi nuo
va, limitatamente agli accordi di mutuo, che impone l’accollo dei de
biti dello Stato predecessore.
14. Cause di invalidità e di estinzione dei trattati.
Le cause di invalidità e di estinzione dei trattati sono analoghe a
quelle dei contratti e, in generale, dei negozi giuridici di diritto inter
no. Vi sono poi cause tipiche di diritto internazionale.
Tra le cause di invalidità generali, trattate anche da Vienna 69,
si ricordano i vizi della volontà, ovvero:
errore essenziale (art. 48) errore circa un fatto o una situazione
che lo Stato credeva esistente al momento
della conclusione del trattato e che era base
essenziale del consenso dello Stato.
frode (dolo) (art. 49) indurre un altro Stato a concludere
un trattato attraverso una condotta cosciente
tesa ad occultare l’esistenza di un motivo di
invalidità.
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corruzione (art. 50) da parte dell’organo stipulante che
convince l’organo omologo a concludere un
trattato attraverso la concessione di favori
economici o materiali.
violenza (art. 51) fisica o morale esercitata nei con
fronti dell’organo stipulante.
Vienna 69, tra le cause di invalidità inserisce anche la violenza
esercitata sullo Stato, che si manifesta nella minaccia o nell’uso della
forza. L’art. 52 afferma che è nullo il trattato concluso attraverso l’uso
o la minaccia della forza in violazione dei principi della Carta dell’O
nu (che ammette l’uso della forza solo per respingere un attacco arma
to altrui). Questa norma rispecchia il diritto consuetudinario afferma
tosi dopo il secondo conflitto mondiale, che si ispira alla volontà della
comunità internazionale di mettere al bando la guerra come modo di
risoluzione delle questioni internazionali.
Precedentemente si riteneva che la violenza sullo Stato fosse
irrilevante, considerando che anche i trattati di pace, tra vincitori e
vinti in posizione nettamente sbilanciata, sono considerati validi. Per il
Conforti non si può sostenere questa teoria, dato che i trattati di pace
intervengono in un momento in cui non c’è più la minaccia delle armi;
essi rappresentano comunque un componimento di interessi, sulla base
rispettivamente dalla vittoria o dalla sconfitta, in cui le parti si fanno
reciproche concessioni. Come in un normale trattato, gli accordi di
pace possono anche non essere stipulati o ratificati. E in ogni caso,
quando tra minaccia della forza e conclusione di un patto c’è un rap
porto diretto e immediato, l’invalidità è palese. (Ad esempio, il Tratta
to di Berlino del 1938 tra Germania e Cecoslovacchia, che prevedeva
la cessione ai tedeschi del territorio dei Sudeti, considerato nullo dal
la giurisprudenza olandese). Per l’invalidità si è espressa anche la
Corte Internazionale di Giustizia nel 1973. Per uso della forza si inten
de esclusivamente quella bellica e militare, mentre sono escluse da
questa definizione le pressioni politiche ed economiche, anche se il
lecite. La prassi non conferma questa interpretazione e Vienna 69, no
nostante le richieste dei Paesi di nuova indipendenza, solo nell’atto fi
nale della Conferenza esprime una generica condanna, dal valore pu
ramente esortativo, delle pressioni politiche ed economiche. Lo stesso
dicasi per il cosiddetto uso della forza interna, ossia il potere di go
verno, in funzione coercitiva, esercitato sui cittadini di altro Stato, che
giustificherebbe, come autotutela, misure simili da parte dello Stato
colpito, ma non renderebbe nullo l’eventuale trattato, stipulato unica
mente per porre fine alle illecite azioni di governo.
10
L’esistenza di trattati ineguali, che evidenziano una netta dif
ferenza tra le parti del potere contrattuale, non comportano, dunque,
invalidità dell’intesa, ma unicamente potrebbe trovare un correttivo
nell’interpretazione restrittiva da parte dello Stato più debole delle
clausole eccessivamente sfavorevoli.
Tra le cause di estinzione generali si ricordano:
condizione risolutiva l’evento futuro e incerto, indicato nel patto,
all’accadere del quale termina il rapporto.
termine finale fatto o data futuri e certi, indicati nel trattato,
al cui sopraggiungere termina il rapporto.
denuncia o recesso l’atto formale con cui lo Stato dichiara agli
altri contraenti la volontà di sciogliersi dal
trattato, sempre che ciò sia espressamente o
implicitamente previsto dal trattato stesso.
inadempimento non osservanza da parte della controparte di
obblighi essenziali del trattato.
impossibilità esecutiva sopravvenuta difficoltà insormontabile ad
eseguire le prestazioni dettate dal patto.
abrogazione accordo successivo tra le parti con cui si
prende atto della totale o parziale incompati
bilità del trattato con i fini di ciascuno dei
contraenti.
Un’altra causa di estinzione degli accordi internazionali è la
clausola rebus sic stantibus. In base ad essa il trattato si estingue se
mutano le circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione
del patto. Si deve, però, trattare di circostanze essenziali, senza le qua
li gli Stati contraenti non si sarebbero accordati.
La dottrina classica parlava di clausola, perché si sosteneva che gli
Stati contraenti, esplicitamente o implicitamente, subordinassero l’ef
ficacia del trattato alle circostanze iniziali. In tal senso si trattava di
una condizione risolutiva espressa o tacita.
Anche se il mutamento delle circostanze non sia stato previsto come
causa di estinzione, per una norma di diritto generale comunemente
accettata, si ritiene che il trattato si estingue ugualmente.
Vienna 69 (art. 62) conferma questa che è un eccezione alla norma
consuetudinaria, pacta sunt servanda, affermando che l’estinzione si
verifica quando: 11
- le circostanze mutate erano base essenziale del consenso;
- il mutamento sia tale da trasformare radicalmente la portata de
gli obblighi ancora da eseguire;
- il mutamento non derivi da fatto illecito dell’ente che lo invoca.
L’art. 62 dice anche che la clausola non può essere invocata in caso di
trattato che fissa le frontiere, ma l’affermazione è fuori luogo, perché
abbiamo già detto in occasione della successione nei trattati, che l’ef
ficacia di questi accordi si esaurisce nel momento in cui il confine vie
ne tracciato e che il rispetto delle frontiere riguarda i principi sulla so
vranità territoriale e non il diritto dei trattati.
Si hanno applicazioni specifiche del principio rebus sic stantibus
quando, in caso di successione nei diritti e negli obblighi pattizi di uno
Stato ad un altro, cadono gli accordi incompatibili col nuovo regime.
Si discute se la guerra possa essere considerata causa di estin
zione o di sospensione dei trattati tra le Nazioni belligeranti per quegli
accordi conclusi prima del conflitto. La regola classica dell’estinzione
si è affievolita negli ultimi tempi, lasciando il posto, soprattutto nei
trattati multilaterali, alla tendenza di considerare estinte solo quelle
convenzioni incompatibili con lo stato di guerra. Tuttavia, per il Con
forti, l’intera materia va riportata nell’ambito di applicazione della
clausola rebus sic stantibus.
Non c’è molta chiarezza nella dottrina sull’efficacia delle cause
di invalidità e di estinzione: se esse operino automaticamente o deb
bano essere fatte valere con uno specifico atto di denuncia. In linea di
massima, va riconosciuta l’automaticità e questo è un compito che
spetta soprattutto agli operatori giuridici interni, in particolare i giudici
nazionali, che, in base a precisi segnali degli organi preposti alla ge
stione degli affari esteri, non possono non riconoscere nelle loro pro
nunce se un trattato sia ancora in vigore, sia invalido o sia estinto.
L’automaticità si rileva dal fatto che si tratta di decisioni che prescin
dono da atti formali di denuncia. Accanto a questa ipotesi, sopravvive
la procedura di denuncia, ovvero l’atto formale motivato con cui
uno Stato notifica alle parti contraenti o al depositario dell’accordo la
volontà di sciogliersi dal vincolo. Quest’atto non è necessario quando
non sia previsto dal trattato stesso, ma a volte vi si ricorre egualmente
per far risaltare in modo certo che, a giudizio della parte opponente, il
trattato non è più applicabile in quanto invalido o estinto. Gli Stati
contraenti non sono vincolati dalla unilaterale manifestazione di vo
lontà dello Stato denunciante e possono essere in disaccordo sulla ef
fettiva estinzione del patto, esprimendo il dissenso con ritorsioni o
12
rappresaglie. Da questa situazione si può uscire solo con un nuovo ac
cordo o con una sentenza di un giudice internazionale.
Per quanto riguarda i soggetti legittimati a denunciare il tratta
to ritenuto invalido o estinto, ex art. 80 Cost., così come per la compe
tenza a stipulare, in Italia ci si orienta per ritenere tale potere nelle
mani del Governo con il controllo del Parlamento che può sollecitare
l’esecutivo, in caso di perdurante inattività, a denunciare, oppure a far
rilevare la sua volontà, revocando con legge l’ordine di esecuzione di
un trattato oppure la stessa autorizzazione alla ratifica.
Vienna 69 (artt. 65 – 68) tratta la questione in maniera diversa
dal diritto internazionale consuetudinario suesposto. Lo Stato che in
voca un vizio del consenso o un altro dei motivi elencato dalla Con
venzione come causa di estinzione o invalidità, deve:
- notificare per iscritto la denuncia agli altri contraenti;
- se, trascorsi almeno tre mesi (prima, se c’è particolare urgenza),
non vi sono obiezioni, lo Stato può dichiarare il trattato invalido
o estinto con atto sottoscritto da organo con pieni poteri;
- in caso di obiezioni, le parti devono cercare soluzioni pacifiche
alla controversia (negoziato, conciliazione, arbitrato), in modo
che si arrivi ad una soluzione nel termine di un anno;
- estinto tale termine, ognuna delle parti può mettere in moto una
procedura di conciliazione presso l’Onu che, però, sfocia non in
una decisione obbligatoria, ma in una mera esortazione;
- una decisione obbligatoria può, invece, essere richiesta alla Cor
te Internazionale di Giustizia, ma solo per invalidità fondata su
una norma di jus cogens.
15. Le fonti previste da accordi.
Il fenomeno delle organizzazioni internazionali.
Le Nazioni Unite.
Spesso i trattati, oltre a contenere regole materiali, istituiscono
ulteriori procedimenti o fonti di produzione di norme. Questo accade
negli accordi istitutivi di un’organizzazione internazionale, abilita
ta, dal trattato che le dà vita, ad emanare decisioni vincolanti per gli
Stati membri. Sono le cosiddette fonti previste da accordo o fonti di
terzo grado. Attualmente l’attività delle organizzazioni raramente va
oltre la predisposizione di progetti di convenzioni o oltre attività tese a
facilitare la collaborazione e la solidarietà tra gli Stati aderenti, che poi
sono liberi di tradurre al proprio interno, con la ratifica, le norme con
13
venzionali, o ancora oltre l’emanazione di raccomandazioni non vin
colanti dal mero valore esortativo.
Le risoluzioni delle organizzazioni internazionali possono esse
re adottate a maggioranza, semplice o qualificata, o all’unanimità. Ora
si è diffusa anche la pratica del consensus, che consiste nell’approvare
una risoluzione, non con votazione formale, ma con dichiarazione del
presidente dell’organismo che attesta l’accordo tra i membri.
L’Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite, è stata fondata il
26 giugno 1945 con la Conferenza di San Francisco che elaborò la
Carta dell’organismo al quale, oltre agli Stati vincitori della Seconda
Guerra Mondiale che lo fondarono, via via aderirono quasi tutti i Paesi
del mondo (ultimi ingressi Svizzera e Timor Est nel 2003).
Organi principali dell’Onu sono:
Consiglio di Sicurezza: composto da 15 membri. 5 (Stati Uniti, Rus
sia, Cina, Gran Bretagna, Francia) sono permanenti con diritto di veto,
ossia il voto negativo che impedisce l’adozione di delibere che non
abbiano mero carattere procedurale; altri 10, eletti dall’Assemblea Ge
nerale, in carica per due anni. Ha una competenza su questioni attinen
ti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e dispo
ne in certi casi di poteri decisionali vincolanti.
Assemblea Generale: vi fanno parte i rappresentanti di tutti gli Stati
membri con pari diritto di voto e alcuni osservatori. Ha una competen
za vastissima, ma uno scarso potere vincolante.
Consiglio Economico e Sociale: si compone di membri eletti dall’As
semblea per tre anni. E’ in posizione subordinata all’Assemblea, in
quanto ne segue le direttive e, a volte, prepara atti che poi vengono
adottati da quella.
Consiglio di Amministrazione Fiduciaria: in passato ha svolto il
controllo sulle amministrazioni dei territori coloniali e ora ha funzione
simili al Consiglio Economico e Sociale.
Segretario Generale: nominato dall’Assemblea su proposta del Con
siglio di Sicurezza. E’ a capo del Segretariato che è l’organo esecuti
vo dell’Onu.
Corte Internazionale di Giustizia: composta da 15 giudici, dirime le
controversie tra gli Stati. Ha anche funzione consultiva, potendo dare
pareri non vincolanti, su richiesta, all’Assemblea, al Consiglio di Sicu
rezza e ad altri organi autorizzati dall’Assemblea.
14
Consiglio di Sicurezza, Assemblea Generale e Consiglio Econo
mico sono organi composti da Stati. I soggetti che ne fanno parte, nel
le decisioni collegiali manifestano la volontà del proprio Stato. Il Se
gretario e la Corte, invece, sono composti da individui che assumono
l’ufficio a titolo personale con l’obbligo di non ricevere istruzioni da
alcun Governo.
Qualora vi sia necessità, la Carta dell’Onu prevede la possibilità
di istituire organi sussidiari delle Nazioni Unite. Ve ne sono numero
si, permanenti o temporanei con poteri non vincolanti, in varie materie
(pace, disarmo, diritti umani, codificazione del diritto internazionale.
Ve ne sono molti nel campo della collaborazione economica con fun
zioni normative o operative. Tra essi ricordiamo:
Unctad (Conferenza sul Commercio e lo Sviluppo) che ha preparato
la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati, poi approvata
dall’Assemblea.
Undp (Programma per lo Sviluppo) che ha il compito di approvare
programmi presentati dai singoli Stati, di stanziare i relativi fondi e di
sovrintendere all’esecuzione dei progetti relativi.
Unicef (Fondo per l’Infanzia).
Unhcr (Alto Commissariato per i Rifugiati).
Unitar (Istituto per l’Insegnamento e la Ricerca).
Unep (Programma per l’Ambiente).
Tolto l’obbligo, espresso dall’art. 1 della Carta, a non interveni
re nelle questioni di competenza interna degli Stati, i compiti dell’O
nu sono ampi e indeterminati, raggruppabili in tre settori:
- mantenimento della pace;
- sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati, basate sul ri
spetto del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeter
minazione dei popoli;
- collaborazione e cooperazione in campo economico, sociale,
culturale e umanitario. 15
In genere, i poteri dell’Onu non sono vincolanti. La sua princi
pale attività è quella di emanare raccomandazioni e di predisporre pro
getti di convenzioni. Comunque, poteri vincolanti spettano raramente
all’Assemblea, che di solito, più che un organo legislativo, è un forum
di discussione, e al Consiglio di Sicurezza.
Per l’Assemblea, questi poteri si riscontrano nella ripartizione,
con maggioranza di due terzi, delle spese dell’organizzazione, vinco
lante per tutti gli Stati (Carta art. 17). La questione ha provocato in
passato forti contestazioni, soprattutto nella norma che prevede la so
spensione del voto in Assemblea per lo Stato in ritardo di due annuali
tà nei contributi. Obbligatorietà, in base ad una consolidata consuetu
dine, è assegnata alle decisioni su modalità e tempi per la concessione
dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale.
Gli atti vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono previsti dal
cap. VII della Carta (artt. 39 e ss.). In particolare, sono importanti:
- misure non implicanti l’uso della forza (art. 41) contro uno
Stato che abbia anche solo minacciato la pace. In base a tale
norma il Consiglio di Sicurezza può irrogare sanzioni contro
uno Stato che violi o minacci la pace internazionale o anche
solo per comportamento interno a tutela della popolazione civi
le. Le sanzioni, imponibili anche contro parti armate in un con
flitto civile, sono revocate o sospese, quando cessano i motivi
dell’adozione. Si tratta dell’interruzione totale o parziale delle
relazioni economiche, delle comunicazioni ferroviarie, maritti
me, aeree, postali, telegrafiche e altre e della rottura delle rela
zioni diplomatiche.
- misure implicanti l’uso della forza (art. 42) contro uno Stato
che abbia anche solo minacciato la pace. Quest’ultima norma
prevede l’intervento bellico contro e all’interno di uno Stato.
16. Istituti specializzati dell’Onu.
Altre organizzazioni internazionali a carattere universale.
Le decisioni tecniche di organismi internazionali.
All’attività dell’Onu si affianca quella degli Istituti specializza
ti delle Nazioni Unite. Si tratta di organizzazioni sorte da trattati di
stinti da quello dell’Onu e i cui Stati membri possono o meno coinci
dere con quelli delle Nazioni Unite. La contiguità si crea in base ad un
accordo di collegamento tra le due organizzazioni, che prevede lo
scambio di rappresentanti, di osservatori, di documenti, la reciproca
consultazione, il coordinamento e l’obbligo per l’Istituto di prendere
almeno in esame le raccomandazioni dell’Onu e di osservare le norme
16
della Carta, allo scopo di garantire il potere di coordinamento e con
trollo da parte dell’Onu.
Anche queste istituzioni emanano raccomandazioni e predi
spongono progetti di convenzione. Le loro decisioni sono adottate a
maggioranza e diventano vincolanti se gli Stati, entro un certo perio
do, non manifestano la volontà di ripudiarle. Si tratta spesso di deci
sioni tecniche, vincolanti proprio perché sono inquadrabili come fonti
previste dall’accordo istitutivo dell’organizzazione. Gli Istituti svolgo
no anche attività operative: assistenza tecnica, aiuti, prestiti, ecc.
Ecco ora un elenco degli Istituti specializzati esistenti:
Fao (Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura). Creata nel
1945, svolge attività di ricerca e informazione, per promuovere l’ese
cuzione di programmi agricoli e alimentari a favore soprattutto dei
Paesi in sviluppo e del Terzo Mondo.
Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro). La particolare struttu
ra dell’organo assembleare, la Conferenza Generale, costituita da
quattro delegati per Stato, due in rappresentanza del governo, uno dei
datori di lavoro, uno dei lavoratori, fa sì che le maggioranze possano
formarsi per il collegamento tra gruppi politicamente affini, più che
per intese tra Stati. Svolge la sua attività in materia di lavoro e ha con
tribuito allo sviluppo di norme a tutela dei lavoratori. Emana racco
mandazioni e predispone progetti di convenzione. I progetti, approvati
a maggioranza di due terzi della Conferenza Generale, vengono comu
nicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno. Essi però
sono obbligati entro un certo termine a sottoporli, comunque, agli or
gani competenti per la ratifica e a informare il Direttore Generale del
l’Ilo sulla sorte da essi subita.
Unesco (Organizzazione per l’Educazione Scientifica e la Cultura).
Promuove la diffusione della cultura e lo sviluppo dei mezzi di educa
zione all’interno degli Stati membri, senza distinzione di razza, sesso,
condizione economica o sociale. Si propone anche la conservazione
del patrimonio artistico e scientifico mondiale. Ogni Stato può farsi
rappresentare da cinque membri, ma dispone di un solo voto.
Icao (Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile). Emana
disposizioni tecniche (dette standard internazionali o pratiche racco
mandate) sull’organizzazione del traffico aereo civile. Le decisioni, a
differenza dell’Ilo e dell’Unesco, sono vincolanti per tutti gli Stati
membri, compresi quelli dissenzienti.
17
Who (Organizzazione Mondiale della Sanità). Suo obiettivo principa
le è il conseguimento da parte di tutti i popoli del livello più alto di sa
lute possibile. Emana raccomandazioni, disposizioni, progetti di con
venzione, per prevenire epidemie, conoscere malattie mortali e diffon
dere l’uso dei farmaci. Svolge anche un’intensa opera di assistenza
tecnica e le sue decisioni hanno un certo potere vincolante.
Imo (Organizzazione Internazionale Marittima). Si occupa dei proble
mi relativi alla sicurezza e all’efficienza dei traffici marittimi.
Itu (Unione Internazionale per le Telecomunicazioni).
Wmo (Organizzazione Mondiale Meteorologica).
Upu (Unione Postale Universale). Contribuiscono al coordinamento
delle attività statali nei settori di rispettiva competenza. I regolamenti
di Wmo e Upu non vincolano lo Stato dissenziente. Per quanto riguar
da l’Itu, le revisioni periodiche dei due regolamenti amministrativi
sulle telecomunicazioni e sulle radiocomunicazioni, adottate a mag
gioranza semplice, vincolano tutti gli Stati membri che non si dichia
rano dissenzienti all’atto dell’adozione o entro un certo termine.
Imf (Fondo Monetario Internazionale). E’ costituito da quote di capi
tale sottoscritte da ciascuno Stato membro. L’entità della partecipazio
ne determina la forza del voto. E’ un’organizzazione controllata dai
Paesi ricchi, quindi, e in particolare dagli Usa. Gli Stati membri posso
no ricorrere al prestito dell’Imf, per far fronte a squilibri nella propria
bilancia dei pagamenti, con condizioni concordate che comportano an
che l’adozione di piani nazionali di risanamento.
Ibrd (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo). Ha un
capitale sottoscritto dagli Stati membri e può procurarsi capitali ulte
riori tramite l’emissione di obbligazioni. Suo scopo è la concessione
agli Stati membri o a privati di mutui garantiti da uno dei Paesi ade
renti, a tassi di interesse variabili in funzione del grado di sviluppo del
Paese debitore.
Ifad (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo). Ente finanzia
rio che contribuisce con aiuti e prestiti allo sviluppo agricolo dei Paesi
poveri. L’organizzazione ricalca quella dell’Imf e dell’Ibrd, ma il suo
controllo è nelle mani dei Paesi in sviluppo e dei Paesi dell’Opec.
Wipo (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale). Si oc
cupa di tutela del diritto d’autore e dei brevetti in campo industriale,
letterario e artistico, cooperando con le altre organizzazioni interna
zionali del settore e fornendo assistenza tecnica e legale agli Stati.
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Unido (Organizzazione per lo Sviluppo Industriale). Promuove pro
grammi e studi su problemi dell’industrializzazione dei Paesi in svi
luppo, fornendo assistenza tecnica e consulenza nell’applicazione del
le innovazioni tecnologiche.
Iaea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). Promuove lo
sviluppo dell’energia atomica a scopi pacifici, coadiuvando l’Onu nei
controlli dei Paesi che potrebbero usarla a scopi bellici.
Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio). E’ un organismo in
dipendente dall’Onu creato nel 1994. Ha lo scopo di favorire, attraver
so tavoli negoziali, la massima liberalizzazione del commercio mon
diale (globalizzazione). Questi negoziati prima si svolgevano in seno
al Gatt (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio) e sono stati
poi annessi allo Statuto del Wto. I suoi organi possono emettere deci
sioni vincolanti e anche fornire interpretazioni delle norme dello Sta
tuto. In caso di inadempienza può adottare contromisure e fa da arbitro
nelle controversie nascenti dagli accordi che fanno capo ad essa.
Organismi per la tutela dell’ambiente e per la conservazione delle
risorse. Si tratta di numerose Convenzioni o trattati che non si manife
stano in vere e proprie organizzazioni, ma assegnano un potere norma
tivo alla conferenza o all’assemblea degli Stati contraenti. Le decisioni
possono essere vincolanti per gli Stati membri, derivando la loro forza
cogente dal trattato istitutivo; il che le qualifica come fonti di norme
internazionali di terzo grado.
17. Le Comunità Europee e l’Unione Europea.
Decisamente vincolanti sono gli atti delle Comunità Europee,
che si delineano quindi come chiari esempi di fonti di norme interna
zionali previste da accordi.
Le tre Comunità Europee sono nate in tempi diversi:
Ceca (Parigi 1951); Cee (ora Ce) ed Euratom (Roma 1957).
Sono 25 gli Stati membri; 6 i Paesi fondatori: Belgio, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda. Le Comunità agiscono attra
verso organi comuni.
Modifiche di rilievo ai trattati istitutivi, con lo scopo di rafforza
re l’integrazione tra gli Stati membri, sono state apportate da:
- Atto Unico Europeo, in vigore dal 1° luglio 1987;
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- Trattato di Maastricht sull’Unione Europea, in vigore dal 1°
novembre 1993;
- Trattato di Amsterdam, in vigore dal 1° maggio 1999.
- Trattato Costituzionale, firmato a Roma il 29 ottobre 2004.
Dopo questi accordi la realtà dell’Ue si basa su tre punti fermi:
- sviluppo delle Comunità Europee;
- politica estera e di sicurezza;
- giustizia e affari interni.
Il Trattato di Maastricht ha apportato significative modifiche:
- cambio del nome da Cee a Ce, per sottolineare l’aspetto sociale
e non solo economico dell’organismo;
- rafforzamento della funzione del Parlamento;
- creazione della cittadinanza europea, status attribuito a tutti i
cittadini degli Stati membri, che consente la libera circolazione
ed il soggiorno in tutto il territorio comunitario;
- istituzione dell’Euro, moneta unica europea, e della Bce, Banca
Centrale Europea.
Le novità inserite dal Trattato di Amsterdam sono:
- disciplina comunitaria nel rilascio dei visti, nella concessione
del diritto d’asilo, nell’immigrazione; temi che prima erano og
getto di coordinamento intergovernativo;
- confluenza nel Trattato Ce degli Accordi di Shengen (1985)
sulla soppressione delle frontiere interne.
Scopi delle tre Comunità sono:
Ceca: attuazione di un mercato comune nel settore carbo-side
rurgico, con abbattimento delle dogane, unificazione dei
prezzi, ripartizione razionale della produzione.
Euratom: creazione di un mercato comune per la produzione dell’e
nergia atomica a scopi pacifici.
Ce: la sua attività coinvolge l’intera vita economica e sociale
degli Stati membri, favorendo la libera circolazione di
merci, persone, servizi e capitali; creando un unico mer
cato interno; garantendo la libera concorrenza attraverso
norme antitrust; attuando una politica comune in agricol
20
tura, trasporti e commercio. Altri compiti riguardano gli
aiuti e gli incentivi alle imprese, la regolazione della sicu
rezza sociale, della politica economica e monetaria, dello
sviluppo ecologico e dell’ambiente, garanzia della parità
tra uomo e donna, omologazione delle legislazioni dei
Paesi membri.
Non bisogna confondere l’unione doganale, caratterizzata dal
l’abbattimento delle barriere doganali e dall’istituzione di tariffe do
ganali comuni verso Paesi terzi, dalla Zona di libero scambio, che in
vece prevede solo l’abbattimento delle barriere doganali tra i mem
bri, come l’Efta (che oggi, dopo lo sviluppo dell’Ue, lega solo Islan
da, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) e la Nafta (in vigore dal 1994
tra Canada, Stati Uniti e Messico).
La realizzazione delle norme del Trattato Ce risiede nella vo
lontà politica degli Stati membri di metterle in pratica attraverso pro
pri atti, allo scopo di consentire continui progressi nel campo dell’in
tegrazione economica e sociale. Tale obiettivo deve svolgersi secondo
i principi di proporzionalità e sussidiarietà, cioè rispetto dei limiti
necessari per il raggiungimento degli obiettivi del trattato e, nelle ma
terie di non esclusiva competenza comunitaria, intervento della Comu
nità, solo se l’azione dello Stato membro non sia sufficiente a realiz
zarne gli obiettivi.
Per sua natura la Ce si presenta molto diversa dalle altre orga
nizzazioni internazionali. Secondo alcuni sarebbe addirittura uno Sta
to federale in embrione. E’ dotata di organi con ampi poteri decisio
nali che comportano una progressiva sostituzione della sovranità degli
Stati membri anche in rapporti meramente interni. Sicuramente alcuni
principi sono propri del vincolo federale, come, ad esempio, la preva
lenza del diritto comunitario sul diritto interno. D’altro canto, la sovra
nità dei singoli Stati non risulta ancora degradata ad autonomia a tal
punto da potersi parlare di super-Stato.
Gli organi delle Comunità Europee, comuni alle tre organizza
zioni sono stati in parte modificati e puntualizzati dalla Costituzione
europea, recentemente varata. In essa confluiscono i principi dei trat
tati suddetti e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione approvata
nel 2000 a Nizza. Gli organi sono i seguenti:
Parlamento Europeo - Nato nel 1979, i suoi componenti vengono
eletti a suffragio universale dai cittadini europei per un periodo di cin
que anni. Il numero dei suoi membri non può essere superiore a 700,
con un minimo di 4 membri per Stato. Il Parlamento esercita, insieme
21
al Consiglio, la funzione legislativa e le funzioni di controllo politico e
consultiva. Elegge il Presidente della Commissione europea su propo
sta del Consiglio. Sembrano conservati al Parlamento i poteri di coo
perazione – codecisione – veto che condizionano le prerogative del
Consiglio dei ministri.
Consiglio Europeo - Nato nel 1974, è formato dal Presidente, dai capi
di Stato e di Governo, dal presidente della Commissione, con la pre
senza del ministro degli Esteri. Ha il compito di dare all’organismo e
alle Comunità l’impulso al necessario sviluppo, definisce i suoi orien
tamenti e le priorità politiche generali. Viene convocato ogni trimestre
dal Presidente e, in generale, si pronuncia, per consenso.
Il Presidente del Consiglio europeo viene eletto a maggioranza qualifi
cata dal Consiglio stesso e rimane in carica per due anni e mezzo. Il
suo mandato è rinnovabile una volta; ha il compito di presiedere i la
vori, adoperandosi a facilitare coesione e consenso. Settori di compe
tenza, al di fuori di quelli strettamente comunitari, sono: politica estera
e di sicurezza, cooperazione nella giustizia e negli affari interni.
Il Consiglio europeo, in accordo con il presidente della Commissione,
nomina il Ministro degli Esteri dell’Unione. Questi guida la politica
estera e di sicurezza dell’organismo, in qualità di mandatario del Con
siglio europeo
Consiglio dei Ministri - E’ l’organo in cui sono rappresentati gli Stati
membri. Di volta in volta ne fanno parte i ministri competenti delle
questioni all’ordine del giorno. Emana gli atti più importanti della le
gislazione comunitaria, deliberando a maggioranza qualificata.
Commissione Europea - E’ composta fino al 2014 da un rappresen
tante per ogni Stato membro. Successivamente il numero dei compo
nenti sarà uguale ai due terzi del numero degli Stati appartenenti al
l’Unione. I suoi membri partecipano a titolo individuale e non in rap
presentanza dei Governi di provenienza, con il divieto di ricevere
qualsiasi istruzione da essi.
Corte di Giustizia Europea - Controlla il rispetto della Costituzione
e del diritto comunitario. Vi si può ricorrere anche individualmente.
Dal 1988 ad essa è stato affiancato un Tribunale di primo grado.
Banca Centrale Europea - Coordina la politica monetaria dell’Unio
ne e la graduale applicazione della moneta unica.
Corte dei Conti - Esercita una costante funzione di controllo sulle en
trate e sulle spese delle Comunità. E’ composta da 15 giudici indipen
denti, nominati dal Consiglio con competenza specifica nel settore.
22
L’Unione europea emana atti vincolanti (regolamenti – deci
sioni – direttive) e atti non vincolanti (raccomandazioni – pareri).
Il regolamento è l’atto comunitario più importante e completo,
attraverso cui la legislazione comunitaria si sostituisce o si sovrappone
alla legislazione interna degli Stati membri. Contiene norme generali e
astratte; è obbligatorio e direttamente applicabile in ciascuno degli
Stati membri. Vincola anche tutti gli individui che operano all’interno
dell’area comunitaria. Entra in vigore 20 giorni (o altro termine stabi
lito) dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità.
La decisione ha invece portata concreta. Essa può indirizzarsi
ad uno Stato membro, ad un individuo o ad un’impresa operanti nel
l’area comunitaria. E’ atto vincolante e il soggetto a cui è indirizzata è
tenuto ad osservarla. La decisione acquista efficacia non con la pub
blicazione (a meno che non si tratti di decisione emanata con procedu
ra di codecisione), ma con la notificazione al soggetto interessato.
La direttiva è atto obbligatorio che vincola l’interessato, non in
ogni suo elemento (come regolamenti e decisioni) ma solo per il risul
tato da raggiungere. E’ a discrezione dello Stato la scelta della forma e
dei mezzi da usare. Se rivolta a tutti gli Stati, entra in vigore con la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità. Se rivolta ad
uno Stato singolo, a meno che non sia frutto di codecisione, entra in
vigore con la notificazione ai destinatari.
Normalmente la direttiva dovrebbe enunciare principi generali e
astratti, ma la prassi consolidata, mai contestata, vede il proliferare
delle cosiddette direttive dettagliate, ovvero atti, del tutto simili a re
golamenti, in cui gli organi comunitari specificano minuziosamente
modi e tempi dei risultati da raggiungere, spingendosi anche sino a in
dicare le norme interne che gli Stati sono tenuti ad adottare.
Non hanno invece efficacia vincolante le raccomandazioni e i
pareri. Ad essi si affiancano una serie di atti comunitari atipici che
esulano dalle procedure comunitarie e che intendono avere effetto vin
colante. Tali atti rivelano una chiara volontà di obbligarsi e, quando
non siano intese di carattere politico, possono considerarsi accordi in
forma semplificata, ma qualora essi pretendano di modificare le norme
comunitarie o si pongano in contrasto col diritto comunitario, costitui
scono violazione impugnabile di fronte alla Corte di Giustizia.
Le Comunità Europee, come tutte le organizzazioni internazio
nali, hanno il potere di concludere accordi internazionali. Per quan
23
to riguarda gli organi competenti a stipulare, il Trattato istitutivo (art.
300) assegna alla Commissione il potere di condurre negoziati, al
Consiglio, previa consultazione o parere conforme del Parlamento, il
potere di impegnarsi, alla Corte di Giustizia di dare pareri preventivi
sulla conformità dell’accordo con le norme del Trattato istitutivo. In
caso di parere negativo, l’accordo non potrà entrare in vigore se non
dopo la modifica formale del Trattato stesso. Gli accordi conclusi se
condo questa procedura sono vincolanti per le istituzioni comunitarie
e per gli Stati membri.
La competenza a concludere accordi internazionali, se il Tratta
to Ce non disponga diversamente, ha carattere esclusivo, per cui gli
Stati membri non possono concludere per loro conto accordi nelle
stesse materie. L’azione della Comunità si sostituisce a quella degli
Stati, ma, per evitare di paralizzare i rapporti con l’esterno, in caso lo
Stato terzo non abbia intenzione di concludere un’intesa con tutta la
Comunità o se non vi sia unanimità tra gli Stati membri ad impegnarsi
con uno Stato terzo, è invalsa la pratica del Consiglio di concedere au
torizzazioni al singolo Stato membro a concludere accordi esterni. Da
qui, anche la pratica, soprattutto quando vi sia dubbio che la materia
dell’intesa rientri tra quelle di competenza comunitaria, di stipulare
accordi misti, alla cui conclusione partecipano sia la Comunità che
tutti gli Stati membri.
Se uno Stato membro conclude un accordo esterno senza l’au
torizzazione del Consiglio, l’accordo è pienamente valido, ma com
porta la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunita
rio e un giudizio di accertamento di fronte alla Corte di Giustizia. Par
ticolare il caso dell’Italia, dove l’art. 11 Cost. assegna un rango pres
soché costituzionale al diritto comunitario. Un accordo non autorizza
to, quindi, sarebbe invalido internazionalmente per violazione di nor
me costituzionali di importanza fondamentale.
Si pone poi il problema, teoricamente da risolvere negativamen
te, se la Comunità possa stipulare accordi esterni anche nelle materie
in cui questa potestà non è espressamente prevista. Una risposta è stata
data da varie sentenze della Corte che, applicando la teoria dei poteri
impliciti, ha ritenuto esistente la competenza a concludere rapporti con
Stati terzi in tutte le materie in cui la Comunità abbia competenza in
terna. Anzi, per una sorta di parallelismo tra competenze interne e
competenze esterne, nel momento in cui il potere viene esercitato, la
competenza esterna diviene esclusiva rispetto agli Stati membri.
18. L’Ocse, l’Osce e il Consiglio d’Europa.
Tra le organizzazioni nate nell’ultimo dopo guerra, l’Ocse, Or
ganizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dalle Na
24
zioni del vecchio continente industrializzato si è poi estesa a Paesi oc
cidentali non europei, contrapponendosi al mondo in sviluppo.
L’Ocse, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa, è un ente di sicurezza paneuropea. Vi fanno parte 55 Stati. Ai
sensi del cap. VIII della Carta dell’Onu, è uno strumento regionale
fondamentale per il preallarme e la prevenzione dei conflitti, la gestio
ne delle crisi e la ricostruzione successiva ai conflitti in Europa. Opera
attraverso una propria rete di missioni nei Balcani, nel Caucaso, in
Asia centrale e in alcuni Paesi ex sovietici.
Tutti gli Stati europei occidentali e orientali fanno parte del
Consiglio d’Europa, che rappresenta il primo esperimento di adesio
ne ai valori dello Stato di diritto e di tutela internazionale giurisdizio
nale dei diritti umani. I suoi scopi sono indicati nel Trattato istitutivo.
art. 1 Conseguire una più stretta unione tra i membri, per salva
guardare e promuovere gli ideali e i principi che costitui
scono il patrimonio comune, favorendo il progresso eco
nomico e sociale.
art. 3 Ogni Stato membro deve accertare il principio della pre
minenza del diritto e quello in virtù del quale ogni perso
na sottoposta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Proprio ai diritti umani è dedicata la Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel
1950 e che è stata ratificata da tutti gli Stati membri del Consiglio
d’Europa. Elenca tutti i diritti riconosciuti degni di tutela e ha istituito
la Corte europea dei diritti dell’uomo per la tutela giurisdizionale.
19. Le raccomandazioni degli organi internazionali.
Ad eccezione delle Comunità europee, la raccomandazione è
l’atto tipico dell’Onu e, in genere, di tutte le organizzazioni internazio
nali. Il suo carattere non vincolante non consente di annoverarla tra le
fonti previste da accordi, tuttavia può produrre un effetto di liceità,
nel senso che non commette illecito lo Stato che, per eseguire una rac
comandazione, osserva un comportamento contrario ad impegni pre
cedentemente assunti con accordo o previsti dal diritto internazionale
consuetudinario. L’effetto di liceità è ammesso solo nei rapporti tra gli
Stati membri e solo in ordine alle raccomandazioni che rispettino
25
competenze e limiti previsti dal Trattato istitutivo. In tal senso, l’ob
bligo assunto, implicito in ogni trattato istitutivo, a cooperare con gli
scopi dell’organizzazione, prevale sugli interessi dei singoli Stati, che
debbono farsi da parte rispetto ai fini generali dell’organizzazione, sia
pure attraverso atti non vincolanti.
L’effetto di liceità assume rilievo in riferimento alle raccoman
dazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulle misure implicanti o
non implicanti l’uso della forza. Gli Stati, a cui sono richieste, potran
no adottarle anche violando norme pattizie diverse dalla Carta dell’O
nu o norme di diritto internazionale generale.
Per valutare la legittimità delle raccomandazioni per la relati
va applicazione dell’effetto di liceità, non esiste nelle organizzazioni
un organo che giudichi sulla legittimità, né questo compito può essere
eseguito dallo stesso organo emanante. Di conseguenza l’effetto di li
ceità potrà verificarsi solo per quegli Stati membri che hanno votato a
favore della raccomandazione o l’abbiano approvata senza alcuna ri
serva. Nei confronti dei contrari o degli astenuti l’effetto di liceità
deve escludersi, poiché è prevalente la volontà di dissociarsi dall’atto.
Inoltre, non si può dire che una raccomandazione reiterata nel
tempo divenga obbligatoria, facendo leva sul dovere di cooperazione
contenuto nel Trattato istitutivo. Ammettere una tesi del genere, vor
rebbe dire forzare eccessivamente la tesi della cooperazione sino a
sovvertire la natura non vincolante della raccomandazione.
20. La gerarchia delle fonti internazionali.
Classifica gerarchica delle fonti di diritto internazionale:
1. Consuetudine: fonte di primo grado costituita anche dai princi
pi generali comuni agli ordinamenti interni. E’ l’unica fonte di
norme generali che vincolano tutti gli Stati.
2. Trattato: fonte di secondo grado che trova la sua obbligatorietà
nella norma consuetudinaria pacta sunt servanda.
3. Fonti previste da accordi: fonte di terzo grado costituita dagli
atti delle organizzazioni internazionali.
La subordinazione dei trattati alla consuetudine non significa in
derogabilità delle norme generali. Una norma di grado inferiore può
derogare alla norma di grado superiore se quest’ultima lo consente. E’
26
opinione comune che le norme consuetudinarie siano caratterizzate da
flessibilità e quindi derogabilità mediante accordo. Questo non fa che
confermare il principio della prevalenza del diritto particolare, anche
se anteriore, rispetto a quello generale. I trattati, infatti, vincolano uni
camente gli Stati contraenti e possono prevalere sulle norme consuetu
dinarie che hanno portata generale. Al contrario, invece, quando la
consuetudine si forma proprio in deroga alle norme di un determinato
trattato. Anche per i principi generali di diritto comuni agli ordina
menti interni, anch’essi norme di diritto generale, vale il principio del
la derogabilità mediante accordo.
Esistono, poi, una serie di norme di diritto internazionale gene
rale accettate e considerate inderogabili dalla comunità internazionale;
esse costituiscono lo jus cogens. Dell’argomento tratta Vienna 69 nei
seguenti articoli:
art. 53 è nullo qualsiasi trattato in contrasto con una norma impe
rativa del diritto internazionale generale, ovvero una nor
ma a cui non può essere apportata alcuna deroga, modifi
cabile solo da una nuova norma cogente di diritto interna
zionale generale.
art. 64 se una nuova norma imperativa di diritto internazionale si
forma, qualsiasi trattato esistente in contrasto con questa
norma diviene nullo e si estingue.
art. 66 in caso di controversia, tra gli Stati aderenti alla Conven
zione, sull’invalidità di un accordo per contrarietà allo jus
cogens, la questione può essere risolta dalla Corte Inter
nazionale di Giustizia mediante ricorso anche unilaterale
di una delle parti. (Norma sinora mai applicata).
Per una definizione dello jus cogens bisogna rifarsi alla Carta
dell’Onu (art. 103). La norma afferma che in caso di contrasto tra gli
obblighi della Carta contratti dai membri dell’Onu e gli obblighi da
essi assunti in base ad altro accordo internazionale, prevarranno i pri
mi. L’art. 103 afferma che nella comunità internazionale, nonostante
comportamenti a volte tesi a sottrarsi agli obblighi della Carta, il ri
spetto dei principi della Carta dell’Onu è ormai per tutti la base della
vita di relazione internazionale. Si tratta di una consuetudine, afferma
ta espressamente o implicitamente nella stragrande maggioranza dei
trattati istitutivi di enti internazionali, che attribuisce carattere di jus
cogens ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
L’art. 103 parla di prevalenza sugli obblighi derivanti da trattati
e non di invalidità di questi ultimi, per cui, nel caso di obbligo tempo
27
raneo derivante dalla Carta, è chiaro che la prevalenza varrà finché
dura tale obbligo (temporanea inefficacia e non invalidità). Per cui lo
jus cogens è da intendere in termini di inderogabilità e non invalidità.
Lo jus cogens contenuto nella Carta dell’Onu è formato dai
principi generali, ormai consuetudinari, che sono alla base dei grandi
settori di competenza delle Nazioni Unite. Tra essi ricordiamo:
- mantenimento della pace;
- astensione dall’uso o dalla minaccia della forza nei rapporti in
ternazionali, salvo risposta ad attacco armato;
- collaborazione in campo economico e sociale;
- divieto di comportamenti che possano compromettere l’econo
mia di altri Paesi;
- collaborazione nel settore umanitario;
- rispetto della dignità umana;
- principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Egualmente si deve parlare di inderogabilità delle norme sul
l’invalidità e sull’estinzione dei trattati. Essendo norme generali che
regolano la struttura del rapporto e non il contenuto, esse sono di livel
lo superiore al trattato.
Anche gli atti delle organizzazioni internazionali (fonti previ
ste da accordi) incontrano un limite nelle norme del trattato istitutivo,
che può contenere norme derogabili e norme cogenti (tra queste ulti
me, quelle che definiscono le maggioranze necessarie per l’adozione
degli atti). Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra atti e diritto in
ternazionale generale, si conferma la regola fondamentale della dero
gabilità al diritto consuetudinario, ad esclusione dello jus cogens; a
meno che lo stesso Statuto dell’organizzazione non imponga la stretta
osservanza del diritto consuetudinario.
1
PARTE SECONDA
IL CONTENUTO
DELLE NORME INTERNAZIONALI
21.Il contenuto del diritto internazionale come insieme di limiti
all’uso della forza internazionale ed interna degli Stati
Tutto il diritto internazionale si snoda intorno all’idea che esso
sia costruito da un insieme di limiti all’uso della forza da parte degli
Stati. Può essere violenza di tipo bellico diretta verso gli altri Stati
(forza internazionale), oppure violenza diretta verso l’interno: perso
ne fisiche o giuridiche, loro beni (forza interna).
La Dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’Onu (ris. 3314
del 1974) definisce la forza internazionale come aggressione armata
in tutte le sue specie.
La forza interna, intesa come potere di governo, sovranità
esplicata su individui e loro beni, non può essere considerata solo
come forza materiale, cioè atti concreti (azioni di polizia, esecuzione
forzata dei beni, esecuzione di condanne penali); allo stesso tempo
una violazione del diritto internazionale non deriva solo dall’effettivo
esercizio della coercizione. Anche una sentenza o una legge che con
tenga un provvedimento concreto possono costituire comportamento
internazionalmente illecito. Ma, in ogni caso, deve sempre esistere un
chiaro riferimento alla realtà. Se a un comando astratto non segue la
sua applicazione ad un caso concreto, non si può parlare di violazione
del diritto internazionale, per il quale sono rilevanti le conseguenze
concrete derivanti da un atteggiamento interno di uno Stato. L’attività
normativa astratta non interessa, neanche quando sia oggetto speci
fico di una convenzione internazionale. Ad esempio, una convenzione
sul divieto del lavoro minorile si ritiene violata quando lo Stato non
adotti una legge in merito. Ma, avendo la convenzione per obbligo
solo quello di emanare la legge relativa, c’è chi paradossalmente ha
affermato che, se poi non c’è punizione per coloro che non applicano
la legge, la convenzione va considerata rispettata. In definitiva, l’atti
vità di mero comando, anche se rivolta a persone determinate e a que
stioni concrete, non ha rilievo per il diritto internazionale se non è se
guita dall’attuale e concreta possibilità di agire in modo coercitivo per
farla rispettare. L’attuazione reale deriva dalla effettiva presenza di
persone e beni coinvolti dal comando concreto sul territorio dove il
potere dello Stato viene esercitato.
2
Sia la forza internazionale che la forza interna sono azione eser
citata dallo Stato su persone o cose, ma come questo può avvenire
quando il potere di governo deve intervenire su attività incoercibili
per loro natura, come trasmissioni radio, attività spaziali, comunica
zioni in rete? Anche in tal caso si ritiene che i diritti e gli obblighi in
ternazionali, di cui lo Stato è titolare, presuppongono sempre la sua
possibilità di governare, nei luoghi di partenza e arrivo, sulle attività
umane e sui mezzi necessari a produrre tali fenomeni.
22. La sovranità territoriale.
La norma consuetudinaria fondamentale in tema di limitazio
ne del potere di governo dello Stato è quella sulla sovranità territoria
le. Lo Stato non può fare certe cose fuori del proprio territorio, mentre
può farle all’interno. La sovranità territoriale si manifesta in modo
pieno esclusivamente sul proprio territorio e su persone o beni che vi
si trovino. Contemporaneamente, ogni Stato ha l’obbligo di non eser
citare azioni coercitive in territorio altrui, se non col consenso dell’au
torità locale.
Ad esempio, l’Onu ha sanzionato l’arresto in Argentina, da
parte di Israele, del criminale nazista Eichmann. Le Nazioni Unite,
pur sottolineando la necessità di perseguire coloro che si erano mac
chiati di crimini contro gli ebrei, esortò il Governo israeliano ad assi
curare al Governo di Buenos Aires una riparazione adeguata per l’in
vasione del territorio argentino, in conformità con la Carta e con le
norme consuetudinarie.
Invece, l’attività di consoli e agenti diplomatici costituisce
esempio di autorizzazione ad autorità straniere ad operare legittima
mente fuori del proprio territorio. Addirittura le capitolazioni sono un
caso di attività giurisdizionale all’estero, svolta su autorizzazione del
Governo territoriale, che consentiva a cittadini stranieri di essere
giudicati dai consoli dei propri Paesi.
La libertà dello Stato di disporre sul suo territorio nei confronti
della popolazione e delle risorse naturali va sempre più restringendosi,
man mano che l’evoluzione del diritto internazionale porta all’affer
mazione dei principi di tutela dei diritti umani, di solidarietà e coope
razione in campo economico e sociale.
Comunque, non mancano chiari esempi di tutela della sovrani
tà territoriale. Una risoluzione dell’Onu, rivolta soprattutto agli Stati
nati dalla decolonizzazione, fa esplicito riferimento al principio della
sovranità permanente di ogni Stato su risorse e ricchezze naturali, e al
principio della libertà di scelta del proprio sistema politico, economi
co, sociale e culturale, conformemente alla volontà popolare.
3
Altro esempio è dato dalla Carta dell’Onu (art. 2) che vieta la
minaccia e l’uso della forza nei rapporti internazionale; una norma,
questa, che si riflette principalmente sulla tutela della sovranità e del
l’integrità territoriale degli Stati.
La sovranità si acquista con l’esercizio effettivo, indisturbato
ed esclusivo del potere di governo su un certo territorio. La formazio
ne di una consuetudine tesa a rispettare l’autodeterminazione dei po
poli, vietare l’uso della forza, permette di identificare casi di acquisto
di territori in violazione di norme internazionali, nei quali l’Onu è do
vuta intervenire, nell’esercizio di competenze generalmente ricono
sciutegli, per dichiarare l’indipendenza di territori (es.: Namibia, quale
ex colonia tedesca passata in amministrazione temporanea al Sud
Africa su mandato Onu, e poi indipendente grazie all’assistenza diretta
delle Nazioni Unite).
Tuttavia, nonostante tentativi per limitare il principio della ef
fettività ai casi legittimi, la prassi attuale è orientata ad affermare la
sovranità territoriale, quando sia raggiunta attraverso l’effettivo e con
solidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque
conquistato. Questo può solo provocare, per prassi consolidata e vin
colante per tutti gli Stati, la negazione di effetti extraterritoriali agli
atti di governo emanati in un territorio illegittimamente acquisito.
Anche in caso di acquisto o perdita della sovranità territoria
le, in seguito a nascita o estinzione dello Stato, rimane decisivo il prin
cipio dell’effettività, poiché gli accordi alla base del cambiamento
hanno solo effetti obbligatori reali e non fanno sorgere un diritto di so
vranità territoriale.
23. I limiti della sovranità territoriale. L’erosione del dominio
riservato e il rispetto dei diritti umani.
I limiti più importanti alla sovranità territoriale sono oggi dettati
dalle norme convenzionali che perseguono valori di giustizia, di coo
perazione e di solidarietà tra i popoli. Il processo progressivo di intro
missione del diritto internazionale nelle questioni interne sta provo
cando un restringimento del dominio riservato o competenza interna,
ovvero di quei settori in cui lo Stato è libero da obblighi esterni.
Anche la concessione della cittadinanza, una delle incontestate
libertà degli Stati, oggi è fortemente limitata convenzionalmente o da
atti giurisdizionali, come la sentenza della Corte Internazionale di
Giustizia (1955) che affermò che non può essere considerata interna
zionalmente legittima l’attribuzione della cittadinanza senza un lega
me effettivo tra individuo e Stato concedente.
4
Altra fonte di limiti per la sovranità territoriale è rappresentato
dalla tutela internazionale della dignità umana, che si è tradotta in
atti di grande valore politico, anche se di scarso valore giuridico, come
la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’Atto finale della
Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre a numerose
convenzioni. Si tratta di documenti dettagliati che elencano minuzio
samente i diritti umani degni di tutela (diritti civili, politici, libertà,
messa al bando di forme di discriminazione e di violenza) e che sono
oggetto anche del diritto consuetudinario.
Il diritto consuetudinario nella materia dei diritti umani presenta
dei principi generali e irrinunciabili, riconosciuti dalle Nazioni civili,
riportabili al divieto delle gross violations, ossia le violazioni gravi e
generalizzate dei diritti umani, come apartheid, genocidio, distruzione
di gruppi etnici, razziali, politici o religiosi, pulizia etnica, tortura,
trattamenti disumani e degradanti, esodi forzati, eliminazione di pri
gionieri politici. Opporsi a queste pratiche è considerato jus cogens, su
cui tutti gli Stati concordano.
L’obbligo di rispettare i diritti umani si manifesta, per lo Stato,
in un comportamento negativo e di astensione da certe pratiche lesi
ve e, per quanto riguarda il diritto consuetudinario, dal compiere gross
violations. Ma il rispetto dei diritti umani si manifesta anche nel com
portamento positivo di impedire che nel proprio territorio avvengano
violazioni, attraverso misure di protezione, di controllo, di prevenzio
ne e di repressione.
Alla materia dei diritti umani si applica la regola del previo
esaurimento dei ricorsi interni. La violazione delle norme consuetu
dinarie sui diritti umani non può dirsi consumata e non può farsi vale
re a livello internazionale, finché esistono nello Stato offensore rimedi
adeguati ed effettivi per eliminare l’azione illecita o per fornire all’in
dividuo una congrua riparazione. Tale regola è contenuta in tutte le
convenzioni sui diritti umani.
24. La punizione dei crimini internazionali.
Il mancato rispetto dei diritti umani comporta la punizione dei
crimini internazionali. Le norme, generali o convenzionali, che disci
plinano questi crimini si rivolgono all’individuo e concorrono, di con
seguenza, alla affermazione della soggettività internazionale per l’in
dividuo stesso. E’ ancora agli albori il giudizio di crimini internazio
nali presso istituzioni giurisdizionali internazionali. Esperienze isolate
5
rimangono i Tribunali per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e in
Ruanda, mentre ha appena visto la luce la Corte penale internazionale.
La punizione è, quindi, generalmente affidata ai tribunali interni.
L’Accordo di Londra del 1945, che istituì il Tribunale di No
rimberga, divideva tra: crimini contro la pace – crimini contro l’uma
nità – crimini di guerra. Per una definizione dei crimini più completa
bisogna rifarsi allo Statuto della Corte penale internazionale, adottato
a Roma nel 1998, che prevede quattro tipi di crimini che devono veri
ficarsi su larga scala e far parte di un programma politico:
- genocidio (riconducibile ai crimini contro l’umanità): elimina
zione totale o parziale di un gruppo etnico, razziale o religioso;
- crimini contro l’umanità: atti contro una popolazione civile,
quali omicidio, schiavitù, deportazione o esodo forzato, priva
zione illegale della libertà, tortura, violenza carnale, prostituzio
ne forzata o violenza sessuale di eguale gravità, persecuzioni
per motivi razziali, politici, religiosi, di sesso, sparizione forza
ta, apartheid, altri atti disumani fonti di sofferenze gravi di ca
rattere psichico e fisico;
- crimini di guerra: quelli contro l’umanità in periodo bellico,
violazione della Convenzione di Ginevra del 1949 sul diritto
umanitario di guerra, attacchi intenzionali contro popolazione e
obiettivi civili;
- crimine di aggressione (principale dei crimini contro la pace).
Si tratta di crimini dotati del riconoscimento generale della comunità
internazionale e, quindi, presenti anche nel diritto consuetudinario. Di
solito alla responsabilità individuale si affianca la responsabilità in
ternazionale dello Stato, di cui spesso l’individuo è organo, dato che
solo uno Stato è in grado di organizzare su vasta scala atti del genere.
Crimini contro l’umanità possono essere commessi anche da
gruppi privati che non rappresentino alcuno Stato (es.: attentati
dell’11 settembre 2001 attribuiti all’organizzazione terroristica Al
Qaida). E’ dubbio invece che atti singoli di terrorismo, inquadrabili
in momenti di lotta per la liberazione di territori dalla dominazione
straniera, possano essere considerati crimini contro l’umanità. Quindi
non è possibile equiparare sempre il terrorismo a questi crimini.
Normalmente la giurisdizione penale è esercitabile sulla base
del principio di territorialità: il giudizio avviene nel territorio dello
Stato in cui il reato è stato commesso. Nel diritto internazionale si è
6
andato, invece, affermando il principio dell’universalità della giuri
sdizione statale: ogni Stato può procedere al giudizio, ovunque il cri
mine sia stato commesso, purché si tratti di crimini internazionali.
In questo modo è stato ampliato quanto previsto dal diritto consuetudi
nario, per cui lo Stato ha un dominio riservato ed è, quindi, libero di
esercitare la giurisdizione su un suo cittadino, mentre, per sottoporre a
giudizio penale uno straniero, deve esservi un qualche collegamento
con lo Stato del giudice. Questa limitazione viene meno quando il reo
ha compiuto un crimine internazionale.
Lo Stato, esercitando l’azione punitiva, persegue in questo modo un
interesse di tutta la comunità internazionale. E, come abbiamo visto, il
potere punitivo è esercitabile anche quando l’imputato sia stato cattu
rato all’estero, violando la sovranità territoriale dello Stato in cui di
morava. Lo Stato è libero di escludere la prescrizione per i crimini in
ternazionali, di concedere o meno l’estradizione ad uno Stato che
egualmente intende effettuare il giudizio. Il diritto pattizio, invece, an
che per reati non qualificabili come crimini internazionali, prevede
spesso la regola aut dedere aut judicare (estradare o giudicare). Al
l’universalità della giurisdizione penale si affianca anche l’universali
tà della giurisdizione civile, principio ormai avallato dal diritto inter
nazionale generale.
Spesso, nei Paesi in cui viene esautorato un Governo che si è
macchiato di violazioni gravi dei diritti umani, si tende a chiudere pa
cificamente con il passato attraverso leggi di amnistia o la creazione
delle Commissioni di verità e di riconciliazione. Tale prassi riguarda
solo il Paese interessato, mentre non si può impedire al resto della co
munità internazionale di procedere al giudizio.
Il principio dell’universalità della giurisdizione non si estende al
punto da consentire anche il giudizio in contumacia del criminale in
ternazionale, che deve essere fisicamente presente nel territorio dello
Stato giudicante. Questo principio è valido anche per i tribunali inter
nazionali ed è previsto dallo Statuto della Corte penale internazionale.
25. I limiti relativi ai rapporti economici e sociali.
La protezione dell’ambiente.
Altri limiti alla sovranità territoriale dello Stato sono posti dal
cosiddetto diritto internazionale economico, che trova la sua massi
ma applicazione nei rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in svi
luppo. E’ un settore strettamente dominato da regole convenzionali
che quasi per nulla fa registrare la nascita di norme consuetudinarie.
Molti suoi principi sono stati codificati dall’Onu, dall’Unctad e da al
tri organi delle Nazioni Unite e ribaditi da numerose Convenzioni e
7
Dichiarazioni. Tra essi il più importante è oggi quello che sottolinea la
necessità che tutti i Paesi partecipino ai benefici della globalizzazione.
La Dichiarazione sul diritto allo sviluppo dell’Assemblea Generale
dell’Onu considera tale principio come una sorta di diritto umano
spettante a tutte le componenti dei popoli di Paesi arretrati. Ma, nono
stante le buone intenzioni, a parte il principio generale che vieta com
portamenti che mettano in crisi l’economia di un altro Stato, non si è
prodotta alcuna norma consuetudinaria contenente precisi diritti e ob
blighi per gli Stati. L’unica norma rilevabile afferma che i rapporti tra
Paesi in sviluppo e Paesi industrializzati devono essere regolati con
venzionalmente. E proprio la nascita di una fitta rete di convenzioni
bilaterali e multilaterali ha posto dei limiti alla libertà degli Stati nel
regolare i propri rapporti economici.
In proposito, la realtà ha visto nascere:
accordi sui prodotti di base, che stabiliscono un prezzo remunerativo
per i Paesi produttori (di solito in sviluppo) ed equo per i consumatori;
il sistema delle preferenze, cioè tariffe favorevoli per gli Stati in svi
luppo, ma senza clausola di reciprocità con i Paesi sviluppati;
iniziative per agevolare il vantaggioso trasferimento di nuove tecno
logie dai Paesi sviluppati alle industrie dei Paesi in sviluppo.
Altri limiti per gli Stati in materia economica sono posti da una
serie di accordi, tendenti a creare integrazione tra gli Stati, liberalizza
zione del commercio internazionale, abbattimento degli ostacoli alla
libera circolazione di merci, servizi e capitali.
In ogni caso, si ribadisce che lo Stato in materia economica non
incontra limiti di diritto consuetudinario diversi da quelli relativi al
trattamento degli interessi economici degli stranieri. Ricerche fatte
dalla dottrina sono approdate a ravvisare tentativi del genere nelle san
zioni previste dalla legislazione antitrust (es.: ammende contro im
prese che concludano accordi tesi a falsare la concorrenza) e nella le
gislazione riguardante il commercio internazionale (es.: misure
coercitive di boicottaggio, tese a impedire esportazione o importazio
ne verso e da determinati Paesi).
Si è così affermata l’idea che lo Stato non debba interferire ne
gli interessi economici essenziali di altri Paesi e che ciascuno Stato
debba esercitare il proprio potere economico entro limiti ragionevoli.
Esistono altri condizionamenti alla sovranità territoriale deri
vanti dai limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali,
che, se indiscriminato, può produrre all’ambiente danni irreversibili.
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Spesso si è posto il problema se il diritto consuetudinario im
ponga l’obbligo di non compiere atti nocivi, soprattutto nel quadro di
rapporti di vicinato (utilizzo e inquinamento dei fiumi, emissione di
fumi e sostanze tossiche da attività industriali in prossimità dei confi
ni). Di simili problematiche si sono occupate la Dichiarazione di
Stoccolma (nell’ambito della Conferenza indetta dall’Onu nel 1972
sull’ambiente umano) e la Dichiarazione della Conferenza di Rio del
1992, che tuttavia non hanno forza vincolante. In base ad esse gli Stati
hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse naturali in con
formità alla propria politica ambientale e hanno l’obbligo di assicurar
si che le attività esercitate non causino danni all’ambiente in altri Stati.
In definitiva, secondo Conforti, che si discosta da quella dottri
na che parla addirittura dell’esistenza di un diritto umano all’ambiente
previsto dal diritto consuetudinario, non possono ancora ravvisarsi
norme di diritto generale che impongono agli Stati obblighi sugli usi
nocivi del territorio. Un’eccezione può essere fatta nell’utilizzo delle
acque comuni (fiumi, laghi): sarebbe vietato qualsiasi uso che possa
nuocere ad altri utilizzatori (deviazione, sottrazione, inquinamento).
Sulla materia esiste un accordo quadro, a cui dovrebbero ispi
rarsi i rapporti degli Stati rivieraschi, realizzato da una Convenzione
Onu del 1997, non ancora in vigore. Essa prevede un utilizzo equo e
ragionevole dei corsi d’acqua; ogni Stato rivierasco deve adottare le
misure necessarie per evitare di causare danni agli altri Stati riviera
schi e, nel caso in cui il danno si sia verificato lo stesso, discutere la
questione dell’indennizzo.
Tuttalpiù il diritto consuetudinario può prevedere un generale
obbligo di informare gli altri Stati dell’imminenza o dell’attualità di
un incidente, affinché si possano adottare misure preventive adeguate.
Per il resto non si può concludere che gli Stati si sentano effettivamen
te vincolati a impedire l’uso nocivo del territorio. L’unico caso è rap
presentato da una controversia tra Stati Uniti e Canada risolto dalla
sentenza arbitrale sulla Fonderia di Trail, emessa nel 1941. L’im
pianto canadese, operante al confine tra i due Stati, aveva danneggiato
gravemente le colture americane. La pronuncia affermò che, in base ai
principi del diritto internazionale e all’ordinamento degli Stati Uniti,
nessuno Stato ha il diritto di usare o permettere che si usi il proprio
territorio in modo da provocare danni a persone, beni e territorio di un
altro Stato. L’unicità di questo esempio non consente di ipotizzare una
norma generale applicabile agli attuali fenomeni di inquinamento,
causati oggi soprattutto dall’utilizzo di energia atomica. A questo bi
sogna aggiungere l’atteggiamento dei Paesi in sviluppo, che mal tol
lerano intralci al pieno sfruttamento delle proprie risorse, considerati
un attentato al principio di sovranità. Inoltre, il principio affermato
dalla Dichiarazione di Rio del 1992, in base al quale chi inquina
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paga, non potendosi considerare una norma consuetudinaria, può solo
essere fonte di responsabilità dell’inquinatore all’interno dello Stato o,
se esistono i presupposti processuali e le relative regole sulla respon
sabilità civile, di fronte ai giudici dello Stato inquinato.
Una linea di tendenza in formazione, anche se non ancora iden
tificabile come diritto generale, riguarda l’esistenza dell’obbligo a ge
stire razionalmente le risorse del proprio territorio secondo criteri di
sviluppo sostenibile, ovvero contemperare le esigenze di sviluppo
economico con quelle della tutela ambientale, di responsabilità inter
generazionale, ossia sviluppo, ma salvaguardando le generazioni pre
senti e future, e di approccio precauzionale, cioè evitare attività ri
schiose per l’ambiente in mancanza di piene certezze scientifiche.
Questa prerogativa è riconosciuta da alcune sentenze della Corte inter
nazionale di giustizia e di tribunali interni.
Discorso diverso va fatto per il diritto pattizio. Accordi bilate
rali e multilaterali sugli usi nocivi del territorio si sono andati moltipli
cando negli ultimi anni. Più che delineare divieti precisi, essi si limita
no a stabilire degli obblighi di cooperazione preventiva, informazione,
assistenza e consultazione reciproca, ispirandosi ai criteri di sviluppo
sostenibile, responsabilità intergenerazionale e approccio precauziona
le. Ci sono, poi, altre Convenzioni che si preoccupano di imporre al
l’interno degli Stati contraenti la predisposizione di adeguati sistemi di
responsabilità civile e penale.
26. Il trattamento degli stranieri.
Due sono i principi di diritto internazionale generale che si sono
formati per consuetudine in materia di trattamento degli stranieri:
a. allo straniero non possono imporsi prestazioni e comportamenti
che non si giustifichino con un sufficiente legame ( attacco ) del
lo straniero o dei suoi beni con la comunità territoriale.
Da ciò si evince che, qualora manchi il legame, non potranno
imporsi agli stranieri prestazioni giustificabili solo da un livello
massimo di attacco. Il servizio militare potrà essere richiesto
solo in caso di cittadinanza; prestazioni fiscali solo in caso di at
tività o possesso di beni che giustifichino tale imposizione; vin
coli a imprese o industrie, solo se siano collegate al territorio;
sanzioni penali, solo di fronte a reati che presentino un legame
con il territorio e con i sudditi dello Stato (salvo i casi di giuri
sdizione penale universale per i crimini internazionali).
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b. lo Stato territoriale deve predisporre misure idonee (obbligo di
protezione) a prevenire e reprimere le offese contro la persona
e i beni dello straniero; l’idoneità delle misure è commisurata a
quanto uno Stato civile fa a protezione di tutti gli individui in
merito all’ordine e alla sicurezza. Per quanto riguarda le misure
preventive, si può, ad esempio, riferirsi alle misure di polizia
normalmente adottate; per quanto riguarda quelle repressive,
l’utilizzo di un normale apparato giurisdizionale di fronte al
quale lo straniero possa chiedere giustizia. Lo Stato che nega
questa garanzia, per difetti organizzativi della macchina statale,
incorre nell’illecito di diniego di giustizia.
Si tratta di protezioni che nello Stato moderno sono ormai accordate in
generale all’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal suo
status. I beni dello straniero, invece, se si escludono alcune norme
convenzionali a difesa della proprietà, per il diritto internazionale pos
sono essere legittimamente sacrificati in vari casi.
La Carta dei diritti e doveri economici degli Stati afferma
che ogni Stato è libero di disciplinare gli investimenti in conformità
alla sua legge e ai propri fini di politica economica e sociale e di adot
tare tutte le misure necessarie, affinché le sue direttive vengano rispet
tate dagli stranieri e, in particolare, dalle società multinazionali. Ba
sandosi su questa norma, i Paesi in sviluppo portano avanti rivendica
zioni per l’affermazione della sovranità permanente sulle proprie ri
sorse naturali. Una simile norma, a fronte degli abusi del passato sugli
Stati colonizzati, sembra poter essere oggi regola di diritto generale,
purché non si spinga sino a negare l’equa remunerazione del capitale
straniero sacrificato agli interessi nazionali.
Non è in dubbio la libertà dello Stato di espropriare e naziona
lizzare beni stranieri o se vi siano o meno alla base motivi di pubblica
utilità, quanto, invece, l’obbligo di indennizzo a cui è tenuto lo Stato
espropriante. Nessuno Stato si è mai sottratto a questo onere, inteso
come equa remunerazione del capitale. Esso costituisce l’unico limite
alla libertà dello Stato in materia di trattamento di investimenti stra
nieri. Le varie formule con le quali l’indennizzo viene reso indicano
che nella questione c’è molta incertezza soprattutto circa il quantum.
La regola del pronto, effettivo ed adeguato risarcimento, adottata
dagli Stati Uniti tra le due guerre mondiali, può essere oggi utilizzata
per il singolo bene espropriato per pubblica utilità, ma non si è mai af
fermata nelle nazionalizzazioni.
L’indennizzo spesso è oggi oggetto di transazioni tra lo Stato naziona
lizzante e lo Stato di appartenenza degli stranieri espropriati. Con gli
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accordi di compensazione globale il primo Stato corrisponde una
somma di denaro al secondo, che resta l’unico a decidere l’effettiva
distribuzione tra i soggetti colpiti dalla nazionalizzazione.
Altri Stati hanno poi sostenuto che l’indennizzo, pur non dovendo co
stituire un indebito arricchimento a danno delle compagnie espropria
te, debba però tener conto del guadagno, anch’esso indebito, che le
compagnie stesse hanno avuto, sfruttando le risorse locali. Su questa
linea, contestata dagli Stati industrializzati, è la Carta dei diritti e do
veri economici degli Stati (pur essendo l’indennizzo dovuto, lo Stato
nazionalizzante determina il dovuto sulla base delle sue leggi, regola
menti e di ogni circostanza da esso giudicata pertinente). E si ispira a
tale principio anche il Tribunale Iran-Stati Uniti, istituito nel 1981
per risolvere le questioni relative ai ricorsi dei rispettivi cittadini con
tro le misure prese nei confronti dei loro beni, diritti e interessi (nelle
nazionalizzazioni su vasta scala, circostanze speciali possono giustifi
care temperamenti e aggiustamenti).
Riassumendo, l’obbligo all’indennizzo c’è e lo Stato naziona
lizzante commette illecito internazionale quando è inequivocabile la
sua volontà a non voler corrispondere la somma. Se interviene un ac
cordo o un arbitrato in merito, questo può anche sacrificare, in vista di
altri vantaggi, gli interessi del privato espropriato, in base al principio
che ogni Stato è libero di tutelare il proprio suddito che abbia subito
un torto all’estero nel modo e nei limiti che ritiene più opportuni.
La dottrina tradizionale è in genere favorevole alla successione
del debito pubblico contratto dallo Stato predecessore nei casi della
già affrontata ipotesi di mutamento di sovranità su un territorio. Tale
opinione, a cui si sono opposti i Paesi in sviluppo nati dalla decoloniz
zazione, trova, invece, applicazione nella prassi recente dello smem
bramento di Unione Sovietica e Cecoslovacchia. In genere si può dire
che la materia, trattata da Vienna 83, segue le regole della successione
dei trattati, che prevede il passaggio dei debiti localizzabili e non dei
debiti generali, salvo diverse soluzioni stabilite convenzionalmente.
La sovranità territoriale è pienamente esercitabile per quanto ri
guarda ammissione o espulsione dello straniero. Lo Stato può deci
dere in libertà la politica di immigrazione e imporre, quando e come
crede, l’abbandono del territorio agli stranieri. Un limite deriva dal
fatto che l’espulsione deve avvenire in modo non oltraggioso e lesivo
della dignità umana, concedendo un lasso di tempo ragionevole per
sistemare i propri interessi prima di uscire dal Paese.
Limiti particolari derivano dalle Convenzioni sui diritti umani
(Onu) e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
che obbligano gli Stati a non estradare stranieri in Paesi in cui rischie
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rebbero tortura o pena di morte e ad evitare l’espulsione, quando cau
serebbe la rottura dell’unità familiare dello straniero.
In base ad accordi internazionali, definiti convenzioni di stabi
limento, ciascun contraente si obbliga a riservare condizioni di parti
colare favore ai cittadini degli altri Stati contraenti in tema di ammis
sione ed esercizio di attività imprenditoriali e professionali. Particolar
mente significativo in merito è il Trattato Ce (modificato dal Trattato
di Maastricht) che, con l’istituzione della cittadinanza europea, ha rea
lizzato una parificazione tra i sudditi degli Stati membri sul territorio
comunitario, per quanto riguarda la circolazione, il lavoro e la capacità
elettorale.
Lo Stato che non osserva le norme sul trattamento dello stranie
ro compie illecito internazionale nei confronti dello Stato a cui la per
sona appartiene. Quest’ultimo può esercitare la protezione diplomati
ca, con cui assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazio
nale, attraverso proteste formali, proposte di arbitrato, minacce di ri
torsioni, ricorso a contromisure, al fine di ottenere dallo Stato territo
riale la cessazione della violazione e il risarcimento del danno causato
al proprio suddito. Questo mezzo può essere esperito, solo dopo che
sia stata esercitata la regola del previo esaurimento dei ricorsi inter
ni, ossia solo dopo che lo straniero abbia fatto ricorso senza successo
a tutti i rimedi previsti dall’ordinamento dello Stato territoriale, che
devono essere adeguati ed effettivi, cioè idonei ad eliminare l’azione
illecita e fornire la giusta riparazione. L’istituto della protezione diplo
matica ha carattere residuale, nel senso che lo straniero, oltre ai mezzi
interni, deve anche aver fatto ricorso ai rimedi internazionali aziona
bili individualmente.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica difende un diritto
di cui esso è titolare non un diritto del suddito. Esso non agisce come
rappresentante o mandatario e quindi è del tutto libero di agire o non
agire, avviare o interrompere la tutela, transigere, sacrificare l’interes
se individuale in nome di altri interessi. Né si può affermare che, in
ambito di protezione diplomatica, si crei una personalità internazio
nale dell’individuo, che si ha solo nei casi in cui egli agisce o rispon
de direttamente sul piano internazionale.
I Paesi in sviluppo contestano l’istituto della protezione diplo
matica, limitatamente ai rapporti economici che fanno capo a stranieri.
Essi si rifanno alla dottrina Calvo, che venne ideata nel secolo scorso
dal diplomatico argentino, per reagire alla pretesa dei Paesi europei di
intervenire militarmente in America latina a protezione dei propri sud
diti. Tale dottrina afferma che le controversie sul trattamento degli
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stranieri sono di esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato terri
toriale. Essa si è concretizzata nella cosiddetta clausola Calvo che, in
serita nei contratti con imprese straniere, le obbligava, in caso di con
troversie, a rinunciare alla protezione del proprio Paese. Su questa li
nea si è espressa la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, a
meno che gli Stati stessi non decidano di risolvere pacificamente le
eventuali controversie.
Per Conforti, non si può costringere uno Stato, accusato di vio
lazione nel trattamento di interessi stranieri, a trattare la questione sul
piano internazionale o mediante arbitrato, se ciò non sia stato assunto
convenzionalmente; allo stesso tempo non si può vietare allo Stato
dello straniero di protestare e di assumere iniziative, anche in presenza
della clausola Calvo, dato che lo Stato, con la protezione diplomatica,
fa valere unicamente un proprio diritto.
Nella pratica l’istituto della protezione diplomatica è in declino,
sostituito da strumenti diretti a garantire i privati all’estero contro il ri
schio di nazionalizzazioni. Ne sono un esempio le assicurazioni dirette
a coprire gli investimenti in Paesi in sviluppo, come la Miga, Agenzia
per la garanzia degli investimenti multilaterali, entrata in vigore nel
1988 su iniziativa della Banca internazionale per la ricostruzione e lo
sviluppo. Da segnalare poi l’Icsid, Centro internazionale per il regola
mento delle controversie in materia di investimenti, istituito con la
Convenzione di Washington nel 1965, a cui ha aderito un gran numero
di Paesi. L’Icsid propone un sistema di conciliazione e arbitrato per le
controversie tra privati investitori e Stati che ricevono l’investimento.
L’Icsid si affianca a strumenti classici come le Commissioni e i Tribu
nali, creati da accordi bilaterali, giudicanti sui reclami proposti dai cit
tadini degli Stati contraenti.
Si pone poi la questione, in caso di protezione diplomatica di
una persona giuridica, di quale sia la nazionalità di quest’ultima e,
quindi, quale sia lo Stato che debba esercitarla. Per le società commer
ciali ci si chiede se si debba far riferimento a criteri formali o legali
(luogo di costituzione, sede principale) o criteri sostanziali (naziona
lità della maggioranza dei soci o dei controllori della società).
A favore della prima ipotesi si è pronunciata la Corte Interna
zionale di Giustizia, nella sentenza del 1970 sull’affare della Barcelo
na Traction, che evidenzia la pratica diffusa della scelta di molte so
cietà di far parte di Stati compiacenti dal punto di vista fiscale e dei
controlli sulla gestione sociale, anche a rischio di un’inadeguata prote
zione diplomatica. Per la Barcelona Traction, azienda canadese, forni
trice di energia in Spagna, e con una maggioranza di azionisti belga, la
Corte escluse che il Belgio avesse titolo per agire in protezione diplo
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matica dell’azienda dichiarata fallita in Spagna, per i danni provocati
dal fallimento e per altre situazioni dolose che tentavano di trasferire
la proprietà dell’azienda in mano spagnola. Ma, in mancanza di una
prassi certa, non si può negare che la protezione diplomatica possa es
sere esercitata dallo Stato degli azionisti.
27. Il trattamento degli organi stranieri, particolarmente degli
agenti diplomatici.
Limiti alla sovranità degli Stati sono posti dal diritto consuetu
dinario con le immunità diplomatiche degli agenti diplomatici, codi
ficate dalla Convenzione di Vienna del 1961 promossa dall’Onu.
Le immunità sono prerogative che accompagnano l’agente du
rante la permanenza in uno Stato, nell’esercizio delle sue funzioni, e
lo lasciano quando egli ne abbandona il territorio. La presenza dell’a
gente è subordinata alla volontà dello Stato, espressa attraverso il gra
dimento, che precede l’accreditamento, o, per quanto riguarda l’e
spulsione, con la consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare
il Paese entro un certo tempo
Le immunità diplomatiche si manifestano attraverso l’attivo in
tervento dello Stato territoriale e sono le seguenti:
a. Inviolabilità personale : protezione dalle offese alla persona,
mediante misure preventive e repressive. Si manifesta con il ge
nerico dovere di protezione che lo Stato ha verso ogni straniero.
Essa deve essere adeguata all’importanza della persona e preve
de l’inapplicabilità al diplomatico di qualsiasi misura di polizia.
b. Inviolabilità domiciliare: protezione della sede diplomatica e
dell’abitazione privata dell’agente. In passato si parlava di ex
traterritorialità delle sedi diplomatiche; oggi queste sono territo
rio dello Stato ospitante, ma non vi possono essere esercitati atti
di coercizione senza il consenso dell’agente.
c. Immunità dalla giurisdizione penale e civile: bisogna distin
guere tra atti compiuti come organo dello Stato, coperti da im
munità funzionale (ratione materia), e quelli compiuti come
privato, coperti da immunità personale ratione personae.
Per i primi, così come per gli atti privati che vedremo di segui
to, l’immunità è concessa per garantire all’agente l’esercizio in
disturbato delle sue funzioni, dato che i suoi atti non sono a lui
imputabili, ma allo Stato straniero. Per questo non si può sotto
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porre l’agente a giudizio penale o civile, neanche quando siano
cessate le sue funzioni e neanche in uno Stato terzo. (Al contra
rio la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 1997, in
base alla quale gli Stati, nei quali l’agente che ha commesso un
illecito transiti per rientrare in patria, non sono tenuti all’os
servanza dell’immunità funzionale). Anche gli atti privati sono
immuni dalla giurisdizione penale e civile, per quest’ultima sal
vo le azioni reali e successorie o riguardanti attività commercia
li dell’agente. Egli, però, non è dispensato dall’osservare la leg
ge, ma gode di un’immunità processuale per compiere indistur
bato le sue funzioni nello Stato che lo ospita. Una volta che il
suo ruolo è venuto meno, egli potrà essere sottoposto a giudizio
anche per gli atti illeciti privati compiuti nel periodo della fun
zione. All’esenzione dalla giurisdizione è tenuto solo lo Stato
presso cui l’agente esercitava le funzioni diplomatiche. La Con
venzione di Vienna 1961 prevede che l’immunità continui per
un certo lasso di tempo dopo la fine delle funzioni e che l’invio
labilità personale sussista anche negli Stati attraversati per rien
trare in patria.
d. Immunità fiscale: che sussiste esclusivamente per le imposte
dirette personali.
Le immunità diplomatiche, oltre ad ambasciatori, ministri pleni
potenziari, incaricati d’affari, spettano a tutto il personale diplomatico
delle missioni e alle famiglie. La Convenzione di Vienna le estende
anche al personale tecnico e amministrativo, con esclusione degli im
piegati residenti nello Stato territoriale. Tali immunità spettano anche
ai Capi di Stato, Capi di Governo e Ministri degli esteri quando si tro
vano all’estero in forma ufficiale.
Per quanto riguarda i crimini internazionali, l’immunità perso
nale copre questi reati. L’immunità funzionale, invece, ormai soccom
be di fronte all’esigenza di punizione di questi crimini: trattasi di jus
cogens. Poiché i crimini internazionali sono commessi proprio dagli
organi supremi dello Stato, sarebbe assurdo non procedere al giudizio
dell’agente diplomatico o altro individuo, una volta che siano cessate
le funzioni.
Altri organi statali non godono di alcuna immunità, neanche i
consoli, per i quali è prevista solo l’inviolabilità dell’archivio.
28. Il trattamento degli Stati stranieri.
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Altri limiti al potere d’imperio dello Stato sono rappresentati dal
principio della non ingerenza negli affari di altri Stati, interni e in
ternazionali. Di fatto, il principio ha perso via via spessore, sostituito e
assorbito da altre regole più specifiche. La più importante di queste è
costituito dal divieto della minaccia e dell’uso della forza bellica negli
affari interni e internazionali di altri Stati.
In proposito la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia
del 1986, sulle attività militari e paramilitari statunitensi contro il Ni
caragua, afferma che fornire armi e assistenza logistica ai ribelli è at
tività contraria sia al principio della non ingerenza, sia al divieto del
l’uso della forza, mentre l’invio di fondi ai ribelli costituisce inosser
vanza del solo principio di non ingerenza.
Ci si chiede se possa costituire inosservanza del principio di non
ingerenza l’applicazione di misure economiche tese a condizionare le
scelte interne e internazionali di uno Stato. La Corte Internazionale di
Giustizia, nella sentenza sul Nicaragua, afferma che l’interruzione di
un programma di aiuti allo sviluppo, la riduzione o sospensione delle
importazioni da un Paese che si vuole colpire, non possono costituire
illecito intervento negli affari altrui. Secondo Conforti, però, qualora
le misure non costituiscano reazione ad un comportamento illecito, ma
il modo per incidere sistematicamente sulle scelte dello Stato stranie
ro, esse devono considerarsi vietate. Anche in tal caso bisogna ritenere
che il principio della non ingerenza non operi autonomamente, ma sia
assorbito dalla lesione del principio di autodeterminazione dei popoli.
Inoltre, non è chiaro se costituisca violazione del principio di
non ingerenza il non impedire nel proprio Stato comportamenti che
possano turbare l’ordine pubblico e la vita normale di Stati stranieri.
Indubbiamente devono ritenersi lecite le manifestazioni di critica e di
condanna del sistema politico, sociale ed economico dello Stato stra
niero. Ma la dottrina è discorde quando si tratta di comportamenti più
incisivi. Forse, l’unica regola consuetudinaria vigente è quella che im
pone di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti contro altri
Stati. Tutto il resto appartiene alla sfera del diritto convenzionale.
Un altro tema sul trattamento degli Stati stranieri è se questi sia
no assoggettabili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale, ad
esempio, per inadempienza contrattuale, per licenziamento di un di
pendente assunto nella ambasciata o per altra questione civile. Alla re
gola dell’immunità assoluta, vigente sino alla seconda guerra mon
diale, si è andata sostituendo quella dell’immunità ristretta (o relati
va), che oggi corrisponde al diritto internazionale consuetudinario. In
base ad essa, l’immunità dello Stato straniero è limitata agli atti jure
imperii, ossia quegli atti propri dell’esercizio delle funzioni pubbliche
statali, e non si estende agli atti jure gestionis (o jure privatorum), os
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sia aventi carattere prettamente privatistico. In caso di dubbio sulla na
tura di un atto, va applicata l’immunità, essendo la sottoposizione alla
giurisdizione un’eccezione alla figura dell’immunità (così afferma la
Commissione di diritto internazionale dell’Onu nel Progetto sulle im
munità giurisdizionali degli Stati, adottato nel 1991).
Nelle controversie di lavoro, avviate dal lavoratore avente na
zionalità dello Stato territoriale per prestazioni in ambasciate o uffici
stranieri, sino ad epoca recente la giurisprudenza italiana applicava
l’immunità, quando le mansioni esplicate implicavano una partecipa
zione del lavoratore all’esercizio di funzioni sovrane o comunque atti
vità pubbliche dello Stato estero. In tal modo l’immunità era pratica
mente sempre applicata. Un temperamento a questa linea viene dalla
Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 1972, promossa
dal Consiglio d’Europa, che, pur adottando la differenza tra atti jure
imperii e atti jure gestionis, adotta per i rapporti di lavoro il criterio
della nazionalità del lavoratore, cumulato con quello del luogo della
prestazione; l’art. 5 afferma che:
- se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero presso
cui lavora, l’immunità sussiste in ogni caso;
- se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o vi
risieda abitualmente pur essendo cittadino di uno Stato terzo, e
il lavoro viene prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.
In linea di principio è da ammettere l’esercizio della giurisdizio
ne quando vi sono conseguenze civilistiche in violazione dello jus co
gens. Quest’ultimo prevale, infatti, sul diritto pattizio e sulle altre nor
me consuetudinarie.
E’ da criticare la decisione degli Usa, che ha emendato la Leg
ge sull’immunità dei sovrani stranieri con l’Antiterrorism and Effecti
ve Death Penalty Act del 1996, col quale si è esclusa l’immunità di
uno Stato straniero per le azioni civili derivanti da atti di tortura, as
sassinio, sabotaggio di aereo e presa di ostaggi, ma solo per quegli
Stati indicati come sponsor del terrorismo. La decisione è stata adot
tata in merito all’attentato libico di Lockerbie del 1988.
Lo Stato straniero può dichiarare la rinuncia all’immunità
espressamente o implicitamente. Si ritiene che vi sia rinuncia quando
lo Stato si fa attore in giudizio, proponendo domanda riconvenzionale.
L’immunità dalla giurisdizione civile è prevista anche per gli
enti territoriali e altre persone giuridiche, a conferma che a formare
la persona dello Stato nel diritto internazionale concorrono tutti coloro
che esercitano il potere di governo nell’ambito della comunità statale e
non solo gli organi del potere centrale.
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La teoria dell’immunità ristretta va applicata sia al procedimen
to civile di cognizione, sia all’esecuzione forzata sui beni detenuti
dallo Stato estero. Quest’ultima è ammissibile solo per quei beni non
destinati ad una funzione pubblica. Al contrario si applica l’immunità.
Più volte si è posto il problema se i conti correnti bancari, in
mancanza di una destinazione specifica del conto, possano essere col
piti da misure di esecuzione. La giurisprudenza ha sempre negato que
st’eventualità, in quanto il denaro è sempre destinato, almeno in linea
di principio, a finanziare fini istituzionali.
In Italia esisteva una disposizione di legge che sottoponeva pi
gnoramento e altre misure esecutive su beni mobili e immobili dello
Stato estero all’autorizzazione del Guardasigilli e dichiarava che que
sta norma era applicabile solo agli Stati che ammettevano la reciproci
tà, dichiarata con decreto dello stesso ministro. La Corte Costituziona
le ha annullato le parti della norma relative all’autorizzazione e al de
creto ministeriali, cancellando l’inammissibile dipendenza del potere
giudiziario dall’esecutivo nell’applicazione del diritto.
29. Il trattamento delle organizzazioni internazionali.
Non esistono particolari norme consuetudinarie che impongono
agli Stati di concedere immunità ai funzionari delle organizzazioni
internazionali. Obblighi in tal senso possono derivare solo da con
venzioni: l’accordo istitutivo dell’organizzazione, accordi successivi
con gli Stati membri, con Stati terzi, e in particolare con lo Stato in cui
è stata istituita la sede. Sempre per via convenzionale vengono regola
te le immunità dei rappresentanti degli Stati presso le organizzazioni.
L’organizzazione può sempre rinunciare all’immunità.
Come già detto, lo Stato, nell’ambito della consuetudine sul
trattamento degli stranieri, è tenuto a proteggere il funzionario che
opera nel suo territorio, con misure preventive e repressive, idonee ed
efficaci. La violazione dell’obbligo dà vita alla protezione diplomatica
da parte dello Stato del funzionario. Lo stesso avviene in parte anche
per i rappresentanti delle organizzazioni internazionali.
Si può dire che un obbligo di protezione diplomatica sorge per
l’organizzazione internazionale nei confronti dello Stato territoriale,
solo per quanto riguarda i danni arrecati ad essa (protezione funzio
nale) e non quelli arrecati all’individuo in quanto tale. Lo Stato invece
agisce in protezione diplomatica per la totalità dei danni. L’estensione
analogica tra le due situazioni si ferma ai danni funzionali, perché, nel
caso dei danni personali, il legame tra Stato e funzionario è costituito
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dalla cittadinanza, aspetto che non esiste nel rapporto tra funzionario e
organizzazione, tra i quali c’è solo un rapporto di impiego.
Al contrario, la Corte Internazionale di Giustizia nella decisio
ne del 1949 sul caso Bernadotte, mediatore dell’Onu tra arabi israe
liani, ucciso da estremisti israeliani. La Corte ammise l’azione di pro
tezione diplomatica dell’Onu per la totalità dei danni.
E’ ormai norma consuetudinaria, confermata da numerose con
venzioni, l’applicazione dell’immunità dalla giurisdizione civile, per
interpretazione estensiva con la situazione degli Stati, anche alle orga
nizzazioni internazionali.
30. Il diritto internazionale marittimo. Libertà dei mari e con
trollo degli Stati costieri sui mari adiacenti.
Il diritto internazionale marittimo è stato oggetto di importanti
convenzioni di codificazione:
a. Conferenza di Ginevra del 1958
produsse quattro convenzioni su:
. mare territoriale e zona contigua;
. alto mare;
. pesca e conservazione delle risorse biologiche marine;
. piattaforma continentale.
b. Conferenza di Ginevra del 1960
con lo scopo di fissare il limite esterno del mare territoriale, ma
non ebbe seguito.
c. Conferenza dell’Onu sul diritto del mare / 1974 - 1982
ha dato vita alla fondamentale Convenzione di Montego Bay
del 1982 entrata in vigore nel 1994: modifica sostanzialmente il
regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdi
zione nazionale. E’ assai sbilanciata a favore dei Paesi in svilup
po e sostituisce tra gli Stati contraenti le quattro Convenzioni di
Ginevra, già superate prima del 1982, riproducendo largamente
il diritto consuetudinario in materia.
Il diritto internazionale marittimo è stato dominato lungo la sua
storia da principi anche in contraddizione tra essi.
Principio della libertà dei mari: affermatosi in Europa nei secoli
XVII e XVIII. Lo Stato non può impedire l’utilizzazione degli spazi
marini da parte di altri Stati. La sua libertà non può limitare la libertà
altrui di sfruttamento e movimento (navigazione, pesca, ecc.).
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Principio del controllo dei mari adiacenti: affermatosi in contrappo
sizione al precedente. E’ la pretesa di assicurarsi l’uso esclusivo delle
acque di fronte alle proprie coste, con il potere di esercitare un con
trollo sulle navi straniere che vi navigano a scopo di pesca e per repri
mere il contrabbando. Questo principio si è andato affermando tra il
XIX e il XX secolo attraverso ulteriori principi:
Mare costiero: fascia di mare costiero equiparata, in quanto a
sovranità, al territorio dello Stato. Si è andato affermando dopo
la metà del XIX secolo e ha ampliato le pretese di controllo sta
tale sul mare adiacente.
Piattaforma continentale: affermatosi subito dopo la seconda
guerra mondiale con la generale accettazione della dottrina
enunciata dal presidente americano Truman nel 1945. In base ad
esso gli Stati Uniti rivendicavano il controllo e la giurisdizione
sulle risorse di quella parte di fondo marino, estesa anche centi
naia di miglia, che costituisce il prolungamento, a fondo costan
te (200 metri), delle terre emerse.
Zona economica esclusiva: affermatosi negli anni ’80 e propu
gnato dai Paesi latino-americani e dai Paesi in sviluppo, per
estendere lo sfruttamento delle risorse del fondo, del sottosuolo
e delle acque sovrastanti, in una zona marina distante anche 200
miglia dalla costa, considerata di pertinenza dello Stato costiero.
Mare presenziale: di recente alcuni Stati, per salvaguardare
l’ambiente e la conservazione delle specie ittiche, hanno spinto
la presenza in mare aperto, ben oltre la zona economica, pur non
rivendicando una giurisdizione esclusiva in materia di pesca. Si
afferma solo la presenza dello Stato costiero a fini di lotta con
tro la depredazione della fauna marina. Tali pretese, per ora,
hanno incontrato l’opposizione di molti Stati.
31. Il mare territoriale e la zona contigua.
Secondo il diritto internazionale consuetudinario, il mare terri
toriale è sottoposto alla sovranità automatica dello Stato costiero,
così come la costa e la terraferma.
Montego Bay sul mare territoriale afferma due principi base:
art. 2/3 la sovranità dello Stato si estende, al di là del territorio e
delle acque interne, ad una zona di mare adiacente alle
21
coste denominata mare territoriale, che può estendersi
fino ad un massimo di 12 miglia dalla costa.
Ha poi codificato il concetto di zona contigua al mare territoriale, già
recepita dalla Convenzione di Ginevra 58 sul mare territoriale:
art. 33 in una zona d’alto mare contigua al mare territoriale, lo
Stato costiero può esercitare i controlli necessari,
a. per prevenire le violazioni delle proprie leggi di poli
tica doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione;
b. per reprimere le violazioni alle medesime leggi, qua
lora siano state commesse sul suo territorio o nel suo
mare territoriale;
c. l’articolo fissa in 24 miglia la larghezza massima del
la zona contigua.
Sull’attinenza di questa normativa al diritto generale, Conforti sostie
ne che, riguardo alla vigilanza doganale, il potere dello Stato, consue
tudinariamente, incontra solo un limite funzionale e non spaziale. La
distanza dalla costa, in cui avviene l’atto repressivo o preventivo, non
è rilevante; può superare le 12 o 24 miglia, purché non si tratti di una
distanza tale da far perdere qualsiasi tipo di connessione con lo Stato
territoriale. A questa conclusione aderiscono anche coloro che sosten
gono, invece, che la vigilanza doganale può esercitarsi solo negli spazi
delimitati del mare territoriale e della zona contigua. Essi, attraverso la
pura finzione della presenza costruttiva, affermano che la nave, che
abbia contatti con la costa ed effettui in aree marine esterne trasbordi
di merci su imbarcazioni dirette verso la costa, è come se si trovasse
negli spazi sottoposti al potere di governo dello Stato costiero.
Per quanto riguarda la definizione dei punti terrestri da cui si
calcolano le 12 miglia, Montego Bay (art. 5) stabilisce che la linea di
base per la misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bas
sa marea, ma afferma anche (art. 7) che si può derogare a tale princi
pio con il sistema delle linee rette, affermato dalla Corte Internazio
nale di Giustizia nel 1951 per risolvere una controversia tra Norvegia
e Gran Bretagna. Con questo sistema si delinea la zona del mare terri
toriale non seguendo l’andamento sinuoso della costa, ma congiun
gendo i punti sporgenti della stessa o le estremità di scogli e isole in
prossimità della costa. La linea retta non deve discostarsi in maniera
apprezzabile dalla direzione generale della costa e le acque situate al
l’interno della linea devono essere sufficientemente legate al dominio
terrestre per essere sottoposte al regime delle acque interne. In ogni
22
caso, per la determinazione delle linee va anche tenuto conto degli in
teressi economici consolidati dall’uso su certe zone marine.
Montego Bay tratta anche delle baie (art. 10). Se la distanza tra
i punti naturali d’entrata della baia non supera le 24 miglia, il mare
territoriale viene misurato a partire dalla linea che unisce i punti e le
acque della baia sono considerate acque interne. Se la distanza tra i
punti supera le 24 miglia, la retta si traccia all’interno della baia dai
primi punti distanti 24 miglia, in modo da lasciare alle acque interne
lo spazio più ampio possibile. Sono considerate baie e, quindi, regola
te da queste norme, tutte quelle insenature che penetrino nel territorio
per almeno un semicerchio avente per diametro la distanza tra i punti
estremi. Gli altri golfi, dall’entrata larga e non profondi, non rientrano
nell’art. 10, ma possono essere chiusi interamente se rientrino nella
fattispecie dell’art. 7 con l’adozione del sistema delle linee rette.
L’art. 10, indipendentemente dalla superficie, definisce come
acque interne anche le baie storiche, cioè insenature sulle quali lo
Stato costiero vanta diritti esclusivi consolidati nel tempo, grazie an
che all’acquiescenza degli altri Stati.
I poteri sul mare territoriale sono gli stessi che lo Stato esercita
sulla terraferma, ma esistono due limiti alla sovranità sul mare terri
toriale (che non esistono per le acque interne).
Il primo limite è il diritto di passaggio inoffensivo. Montego
Bay lo definisce (artt. 17 e ss.) come il diritto al passaggio pacifico di
ogni nave straniera sul mare territoriale, per attraversarlo, per entrare
nelle acque interne, per prendere il largo, sempre che il passaggio sia
continuo e rapido.
Il passaggio è inoffensivo (art. 19) quando non reca pregiudizio alla
pace e alla sicurezza dello Stato costiero, cioè quando non comporti
l’uso della forza, manovre militari, propaganda ostile, inquinamento,
pesca, ecc.; in tali casi lo Stato costiero può adottare tutte le misure
necessarie ad impedirlo. Le norme sul passaggio inoffensivo si appli
cano a tutte le navi e, quindi, anche alle navi da guerra e ai sottomarini
che, però, devono navigare in superficie.
Eccezionalmente lo Stato costiero può chiudere al traffico il mare ter
ritoriale per motivi di sicurezza o per procedere a manovre militari,
dopo aver adeguatamente reso pubblica l’iniziativa.
Per gli stretti, meno ampi di 24 miglia, quindi totalmente costi
tuiti da mare territoriale, quando essi mettano in comunicazione due
zone di mare in cui la navigazione è libera, Montego Bay (artt. 37 e
ss.) stabilisce che le navi hanno diritto di transito non limitabile con
sospensione. Tali stretti, a differenza del mare territoriale, possono es
sere sorvolati e attraversati da sottomarini anche non in superficie. Per
gli altri stretti che, invece, mettono in comunicazione mare territoria
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le e una zona di libera navigazione, c’è solo un diritto di passaggio
inoffensivo non limitabile con sospensione.
Secondo limite, osservato nella prassi, riguarda l’esercizio della
giurisdizione penale sulle navi straniere da parte delle autorità dello
Stato territoriale. Essa non può esercitarsi per fatti puramente interni
alla nave straniera, cioè quei fatti che non hanno alcuna ripercussione
all’esterno e che non possono turbare la vita della comunità territoria
le. La distinzione viene applicata anche alle navi nei porti. Sul tema
Montego Bay è meno definitiva e si discosta dalla consuetudine.
32. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva.
La tendenza a sfruttare le risorse marine ha portato gli Stati co
stieri ad estendere il proprio controllo oltre il mare territoriale. Tale
tendenza ha dato vita agli istituti, generalmente accettati, della piatta
forma continentale e della zona economica esclusiva, riconosciuti
anche in Ginevra 58, nella Terza Conferenza sul diritto del mare e in
Montego Bay, che regola la piattaforma negli artt. 77 - 78:
- oltre alla libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio
atmosferico sovrastante il proprio territorio, lo Stato costiero, al
di là del mare territoriale, ha il diritto esclusivo di sfruttare le
risorse della piattaforma continentale;
- il diritto viene acquisito in modo automatico, così come la so
vranità sul mare territoriale, a prescindere dall’occupazione ef
fettiva della piattaforma;
Il diritto sulla piattaforma continentale ha natura funzionale, cioè
non dà vita ad una sovranità generale, ma unicamente al controllo e
allo sfruttamento delle risorse della piattaforma.
Il principio della piattaforma continentale è risultato iniquo per
quegli Stati, la cui conformazione geologica non permette di identifi
care tale zona. Si è ovviato a ciò con la creazione della zona economi
ca esclusiva che comporta l’assegnazione allo Stato costiero delle ri
sorse del fondo marino in una zona sino a 200 miglia dalla costa.
Per quanto riguarda il criterio di delimitazione della piattaforma
tra Stati che si fronteggiano, la Convenzione di Ginevra adottava il
criterio dell’equidistanza, in modo da tracciare un confine della piat
taforma partendo dalle rispettive linee di base del mare territoriale.
La Corte Internazionale di Giustizia, con sentenza del
20.02.69, afferma che l’equidistanza non è un principio consuetudina
24
rio, per cui la delimitazione può essere effettuata solo con accordo del
le parti interessate, che deve ispirarsi a principi di equità. Questo prin
cipio è stato adottato da Montego Bay che, con scelta discutibile, poi
afferma che, in attesa della delimitazione concordata, gli Stati debbo
no giungere ad arrangiamenti pratici provvisori.
La sentenza della Corte ha risolto una controversia tra Germania
Federale, Olanda e Danimarca ed ha evidenziato che spesso il criterio
dell’equidistanza tra Stati contigui può portare a risultati paradossali
quando la forma delle coste dei due Stati sia rispettivamente concava e
convessa o se, fra Stati frontisti, uno dei due ha la sovranità su una o
più isole in prossimità delle coste dell’altro Stato. E’ ovvio che, in tali
casi, il principio dell’equidistanza deve lasciare il passo al correttivo
dell’equa intesa tra le parti.
Di fatto, Conforti afferma che il subordinare l’accordo all’equi
tà non ha nessun senso, giacché l’intesa, equa o iniqua che sia, una
volta conclusa resta valida. Bisogna riconoscere, però, che la giuri
sprudenza internazionale ha delineato una serie di criteri pratici, anche
se non vincolanti, da tener presenti da parte di chi procede alla delimi
tazione. Si tratta, comunque, di correttivi rispetto al principio dell’e
quidistanza che rimane la regola base.
In seguito al favore della stragrande maggioranza dei Paesi, ne
gli ultimi anni ai poteri sulla piattaforma continentale si sono andati
sostituendo quelli esercitabili nell’ambito della zona economica
esclusiva. Alcuni Stati l’hanno già istituita con apposite norme inter
ne, senza incontrare alcuna opposizione, tanto che si può dire che sia
mo ormai di fronte ad un istituto di diritto consuetudinario. Montego
Bay se ne occupa agli artt. 61 e 62.
La zona può estendersi sino a 200 miglia dalla linea di base del
mare territoriale. Come per la piattaforma, la delimitazione della zona
tra Stati frontisti o contigui è rimessa all’accordo delle parti.
Allo Stato costiero spetta il controllo esclusivo sulle risorse
economiche della zona, sia biologiche, che minerali, nel suolo, nel sot
tosuolo e nelle acque sovrastanti con particolare rilievo per la pesca.
Allo Stato spetta fissare la quantità massima di risorse ittiche sfruttabi
li da lui, e, se vi sia un esubero, consentire la pesca agli stranieri nel
quadro degli accordi conclusi con i singoli Stati d’appartenenza.
L’attribuzione delle risorse della zona allo Stato costiero non
può pregiudicare le possibili utilizzazioni per altri Stati, che continue
ranno a godere del diritto di navigazione, di sorvolo e di posa di cavi e
condotte. Ma tale tesi, propria delle Potenze di tradizione marittima,
che si spinge anche sino al principio di libertà dei mari, è avversata dai
Paesi in sviluppo, secondo i quali la sovranità dello Stato costiero co
stituisce la regola, mentre la libertà è l’eccezione.
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Secondo Conforti, indubbiamente i criteri legati alla zona eco
nomica esclusiva rompono con i principi della libertà dei mari, secon
do cui ogni Stato poteva usare, come meglio credeva, gli spazi marini,
salvo il limite della pari libertà altrui. Quello che si è costituito attual
mente è un regime che non si basa sul confronto tra principio di libertà
e principio di sovranità dello Stato costiero, ma sul fatto che i diritti di
quest’ultimo, così come quelli degli altri Stati, hanno carattere fun
zionale, nel senso che sono consentite solo quelle attività indispensa
bili allo sfruttamento delle risorse, per il primo, e alle comunicazioni e
ai traffici marittimi e aerei, per gli altri.
Può succedere che i diritti sulla zona economica esclusiva si so
vrappongano a quelli della piattaforma continentale, quando questa si
estende per 200 miglia e oltre dalla linea del mare territoriale. Monte
go Bay (art. 82), nel rispetto della communis opinio, stabilisce che la
giurisdizione dello Stato costiero, in tal caso, si allarga sull’intera
estensione della piattaforma, stabilendo tuttavia che parte dei ricavi
dello sfruttamento delle zone situate tra le 200 miglia e il margine
continentale, limite estremo della piattaforma, debba essere versata al
l’Autorità internazionale dei fondi marini.
Per gli Stati che non hanno accesso al mare, con sviluppo mi
nimo di coste o con accesso a mari chiusi e semichiusi, Montego Bay
(artt. 69 – 70) prevede il diritto a partecipare, su base convenzionale,
allo sfruttamento di parte delle risorse biologiche eccedenti, non mine
rarie, delle zone economiche esclusive degli Stati costieri.
33. Il mare internazionale e l’area internazionale marina.
Viene definito mare internazionale quella zona sottratta al
controllo totale o parziale di un singolo Stato e sulla quale è ancora
applicabile il principio della libertà dei mari. In questo spazio tutti gli
Stati hanno eguali diritti e possono liberamente, pur con il limite del
rispetto della libertà altrui, procedere allo sfruttamento della pesca,
delle risorse biologiche e minerarie, navigare e posare cavi. Sinora
non si sono affermate le pretese di alcuni Stati che tendono ad assicu
rare la loro presenza oltre la zona economica esclusiva, detta del mare
presenziale, al fine di controllare la conservazione delle specie ittiche.
La risoluzione n. 2749-XXV (17.12.70) dell’Assemblea Gene
rale dell’Onu ritiene patrimonio comune dell’umanità tutte le risorse
minerarie del fondo e del sottosuolo del mare internazionale. Questo
principio fa ormai parte del diritto consuetudinario e comporta che lo
sfruttamento debba avvenire nell’interesse dell’intera umanità. Allo
scopo è stata creata l’Autorità internazionale dei fondi marini, di
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cui si occupano Montego Bay (parte XI-artt. 150 e ss.) e l’Accordo ap
plicativo dell’Assemblea Generale dell’Onu (28.07.94) che prevale
sulla Convenzione e la modifica in senso sfavorevole ai Paesi in svi
luppo. Le due normative comunque formano un corpo unico.
Organi dell’Autorità sono: Assemblea - Consiglio - Segreta
riato - Impresa. Tramite quest’ultimo, l’istituzione partecipa diretta
mente allo sfruttamento, con il sistema dello sfruttamento parallelo,
in base al quale l’attività è divisa in due fasi: quella attribuita alle im
prese dello Stato che ha individuato le aree da sfruttare e l’altra attri
buita all’Impresa. Tuttavia, allo stato attuale, a causa delle difficoltà di
realizzazione, nessuna attività di sfruttamento è stata ancora avviata.
34. La navigazione marittima.
Circa gli spostamenti sul mare, vige il principio generale per cui
ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha la
nazionalità, cioè lo Stato di bandiera, che esercita il suo governo at
traverso il comandante e le proprie navi da guerra. Il comandante è
organo dello Stato che esercita poteri coercitivi limitatamente agli
eventi che si verificano nel corso della navigazione, salvo il rispetto
degli obblighi relativi al trattamento degli stranieri a bordo, analoga
mente a quanto avviene per la sovranità territoriale.
Montego Bay (art. 92) stabilisce che la nave batta bandiera di
un solo Stato e in alto mare è sottoposta alla sua giurisdizione esclu
siva, salvo le eccezioni espressamente previste da trattati internazio
nali o dalla Convenzione. Inoltre, sono previsti una serie di obblighi
burocratici e tecnici che la nave deve osservare (art. 94). Tutto ciò
comporta che solo lo Stato di bandiera può reclamare per i danni ar
recati alla nave da illecito di altri Stati.
Il principio della sottoposizione della nave allo Stato di bandiera
subisce eccezioni che aumentano via via che la nave entra nelle zone
sottoposte alla sovranità dello Stato costiero. Eccone l’elenco.
Pirateria – Il diritto consuetudinario stabilisce che la nave pirata, che
commetta atti di violenza contro altre navi a fini di preda, può essere
catturata e sottoposta a misure repressive da parte di qualsiasi Stato. In
proposito Montego Bay, che tratta della pirateria agli artt. 100 – 107,
parla di un limitato diritto di visita delle navi mercantili altrui in alto
mare da parte di navi da guerra. La nave mercantile non può essere
fermata a meno che non vi siano seri sospetti che:
a. la nave pratichi pirateria;
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b. la nave pratichi la tratta degli schiavi;
c. dalla nave partano trasmissioni radiotelevisive non auto
rizzate rivolte al grande pubblico;
d. la nave non abbia alcuna nazionalità;
e. la nave, pur battendo bandiera straniera o rifiutandosi di
issare la bandiera, abbia in realtà la stessa nazionalità del
la nave da guerra.
Nel caso in cui i sospetti si rivelano infondati, e sempre che l’atteggia
mento della nave non li giustifichi, la nave fermata deve avere un in
dennizzo per qualsiasi perdita o danno.
Il diritto di visita, nei casi sub a, d, e, non presenta problemi circa la
sua applicazione, in quanto generalmente riconosciuti. Invece, i casi
sub b e c non trovano riscontro nel diritto internazionale consuetudi
nario e, quindi, la visita è da considerare illegittima se lo Stato visitan
te e lo Stato di bandiera non sono contraenti della Convenzione.
Ingresso della nave in zona economica esclusiva altrui – In tal caso,
lo Stato costiero può esercitare sulle navi altrui tutti i poteri relativi
allo sfruttamento delle risorse, reprimendo le infrazioni, visitando e
sequestrando il carico, infliggendo sanzioni penali all’equipaggio.
Non sono giustificabili misure sproporzionate alle infrazioni commes
se.
Ingresso della nave nel mare territoriale altrui – Lo Stato costiero
esercita il proprio potere di governo imponendo il limite di passaggio
inoffensivo. Inoltre, la giurisdizione dello Stato di bandiera è valida
solo per quei fatti puramente interni alla comunità navale, per gli altri
interviene la giurisdizione dello Stato costiero.
Diritto di inseguimento (Montego Bay art. 111) – Le navi da guerra
o adibite a servizio di vigilanza doganale o sanitaria appartenenti allo
Stato costiero possono inseguire anche in acque internazionali la nave
che abbia violato le sue leggi, purché l’inseguimento abbia avuto ini
zio nelle acque sotto la sovranità dello Stato costiero (acque interne,
mare territoriale, piattaforma continentale, zona economica esclusiva),
nel rispetto dei limiti, imposti in ogni zona, alla presenza straniera dal
lo Stato costiero. L’inseguimento deve essere continuo e sulla nave
catturata possono esercitarsi quei poteri previsti nella zona in cui l’in
seguimento ha avuto inizio. L’inseguimento deve cessare se la nave
entra nel mare territoriale di altro Stato.
Presenza costruttiva (Montego Bay art. 111) – La nave straniera che,
pur in acque internazionali, partecipi a traffici illeciti (es.: trasbordo di
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Internazionale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Diritto Internazionale, Conforti. Gli argomenti sono: le funzioni di produzione, l'accertamento e l' attuazione coattiva del diritto internazionale, lo Stato come soggetto di diritto internazionale e gli altri soggetti e presunti tali, i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, l’inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi, l’incompatibilità tra norme convenzionali, l’interpretazione nei trattati.
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