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SEZIONE 1. La condotta nucleo del fatto di reato
Non è possibile, infatti, ipotizzare una condotta umana che non si ponga come atteggiamento esteriore. Solo per traslato si parla di condotta a proposito di eventi puramente mentali: volere, desiderare, sperare qualcosa; ma è uso, questo, che prescindendo, com'è ovvio, dall'osservazione diretta effettuata attraverso i sensi, si fonda su un'operazione di estensione analogica da fatti certi, che hanno accompagnato comportamenti che si ritengono qualificati da dati eventi mentali, a quello che ci si propone di accertare. Dove è importante sottolineare che movimento corporeo o inerzia sono sempre atteggiamenti percepibili attraverso i sensi.
La definizione di un certo illecito come illecito di azione o illecito di omissione non dipende da come si è estrinsecato il comportamento del soggetto agente, bensì dal rapporto tra questo comportamento e il contenuto del dovere. Si tratterà allora di...
verificare la corrispondenza della fattispecie concreta, quella effettivamente posta in essere o pensata come tale, alla fattispecie astratta. Verifica che va svolta prescindendo da qualsivoglia premessa d'ordine naturalistico. Ciò significa che occorre abbandonare l'idea secondo la quale un comportamento di inerzia non può dar luogo ad un illecito di azione. Che è, a ben vedere, il filo rosso con ampie e lodevoli ragioni di carattere garantistico che è comune alle opinioni per le quali si dà azione solo col movimento corporeo. Ma è estrinsecazione al di fuori del soggetto e come tale percepibile coi sensi, anche uno stato di inerzia. Il problema sta nell'accertare se, nel contesto concreto dell'accadimento storico, quella inerzia si deve o no riportare sotto la previsione della regola incriminatrice. Così, ci si deve chiedere se il non batterciglia e rimanere assolutamente immobili di fronte al Capo dello Stato chePorge la mano in segno di saluto rappresenti offesa al di lui onore o prestigio. La risposta non può che dipendere dalle circostanze che accompagnano tale condotta.
Da un punto di vista formale, per non dire formalistico, potrebbe osservarsi che l'impossibilità di utilizzare il silenzio per addivenire ad una misura cautelare (assumendo quel silenzio come indice di mancata rottura con l'ambiente criminale e quindi sintomo eloquente di probabile ricaduta nei reati di cui all'art. 274, lett. c), c.p.p.) è altra cosa dal considerare questo silenzio come illecito. Soluzione assai poco appagante, che ricorda quegli episodi delle guerre caraibiche di spagnoli che impiccavano inglesi catturati "non come inglesi, ma come eretici" e di inglesi che replicavano impiccando spagnoli "non come spagnoli, ma come assassini". E che non si tratti di una metafora ad effetto lo si deduce dalla circostanza che la pena edittale del favoreggiamento consente.
l'applicazione di misure cautelari coercitive: dunque potrebbe rientrare dalla finestra quello che è stato cacciato dalla porta. Ma anche a ritenere che la prudente valutazione del giudice scarti quest'ultima eventualità come inpatente contrasto con lo spirito dell'art. 274, lett. a), c.p.p., rimane pur sempre che da quest'ultima norma si ricava il divieto di utilizzare la possibilità di una misura cautelare per indurre l'interrogato a parlare. Se così è siamo di fronte ad un principio generale in forza del quale il silenzio, che pure obiettivamente aiuta un terzo, non realizza favoreggiamento. Conclusione alla quale si arriva sulla strada di un'interpretazione sistematica che utilizza ogni regola che concorre a definire i confini della fattispecie incriminatrice penale, caratterizzata da quelli che risultano, in forza del sistema, limiti della regola incriminatrice. 2. Azione cosciente e volontaria Da quanto detto emerge che lacoscienza e volontà possono esistere senza dolo o colpa. Ad esempio, una persona che causa la morte di qualcuno sparando un colpo d'arma da fuoco in un poligono di tiro, senza voler causare la morte di nessuno e nella convinzione che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, agisce con coscienza e volontà, ma senza dolo e senza colpa. Tuttavia, non può esistere dolo o colpa senza coscienza e volontà. Ora, se la coscienza e volontà è sempre il punto di partenza del dolo o della colpa, quali sono le ragioni della separazione concettuale tra questi termini, operata dal legislatore? Dal momento che il legislatore enuncia esplicitamente gli elementi che costituiscono il dolo, la colpa e la preterintenzione, si potrebbe presumere che abbia implicitamente richiesto anche il requisito di coscienza e volontà. La ragione di questa separazione concettuale tra coscienza e volontà da un lato, e dolo, colpa o preterintenzione dall'altro, potrebbe essere oggetto di ulteriori riflessioni.Il rilievo autonomo dell'elemento della coscienza e volontà risiede nelle diverse conseguenze che si producono in caso di assoluzione per mancanza di coscienza e volontà rispetto a quelle che si attuano se l'assoluzione è per difetto di dolo o di colpa, nella disciplina del rapporto tra giudicato penale e giudizi extrapenali.
Così, diverse sono le formule terminative della sentenza a seconda che difettino coscienza e volontà ovvero dolo o colpa. Nel primo caso la formula di assoluzione è "il fatto non sussiste"; nel secondo, "il fatto non costituisce reato": esiste un fatto penalmente rilevante, perché riconducibile alla coscienza e volontà dell'agente, ma non costituisce reato per mancanza dell'elemento soggettivo. Sul piano penale le conseguenze della diversità tra tali formule terminative sono puramente formali, dal momento che in entrambi i casi il soggetto agente è da considerarsi.
non colpevole e basta. Sia l'art. 25 c.p.p. 1930 sia l'art. 652 c.p.p. attuale dispongono, senza che vi siano innovazioni di sorta sul piano che qui ci interessa4 che: "La sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'art. 75, II comma (...)". Per questi casi bisogna ancora distinguere tra reati a forma vincolata e reati a forma libera. Per i primi la coscienza e volontà.deve rivolgersi a quel segmento del fare dell'uomo che corrisponde alladescrizione della figura criminosa. Se più atti conformi allo schema descrittivo realizzano un unicoreato (atti contestuali e lesivi del medesimo interesse giuridico: ad esempio una serie di ingiurie rivoltecontestualmente alla medesima persona) è sufficiente la coscienza e volontà rispetto a uno qualsiasidegli atti.Veniamo ai reati a forma libera o causalmente orientati. Essi sono caratterizzati da una condotta chenon appare descritta per note intrinseche che caratterizzano una data previsione normativa, ma riceverilevanza dal collegamento con un risultato ad essa esterno, ma da essa cagionato, sia effettivamenteprodotto, sia virtuale. Esempio di collegamento con evento storicamente dato è quello della condottacostitutiva dell'omicidio: "Chiunque cagiona la morte di un uomo" (art. 575 c.p.). Esempio di13collegamento meramente virtuale quello della condotta diattentato contro l'integrità, l'indipendenza, l'unità dello Stato: "Chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l'indipendenza dello Stato è punito con l'ergastolo.
Ciò, oltre che erroneo sul piano dell'esegesi normativa, comporterebbe una menomazione delle garanzie individuali, perché condurrebbe a punire la mera intenzione. La mera intenzione di cui si parla come irrilevante quale torto penale non è certo quella intenzione che si esaurisce in un evento mentale, ma quella che si traduce all'esterno in atti privi di tipicità.
Posto ciò, si rende necessario distinguere tra fattispecie causalmente orientate sorrette da dolo e fattispecie causalmente orientate sorrette da colpa, perché alla determinazione del criterio di accertamento della condotta tipica per le due categorie di.
reati si arriva attraverso percorsi note-volmente diversi. Per le fattispecie dolose causalmente orientate l'atto tipico è l'ultimo prima del quale si esplichi il processo causale in direzione dell'evento. Dai due esempi si desume che l'atto qualificato da rappresentabilità ed evitabilità dell'evento vietato coincide con quello posto in essere immediatamente prima che la rimozione di quanto rende varappresentabile ed inevitabile l'evento fosse possibile. Nel primo non si ha colpa in quanto, al momento dell'incidente, il guidatore non si trovava in una situazione dalla quale dovesse eliminare quanto avrebbe potuto rendere rappresentabile ed inevitabile il risultato vietato. Nel secondo si ha colpa perché, in momento immediatamente anteriore a quello del verificarsi dell'incidente, il guidatore avrebbe potuto arrestare la marcia e controllare i freni. C'è, insomma - e lo vedremo quando tratteremo.più analiticamente della colpa - la prescrizione di una condotta che elimina le conseguenze della leggerezza precedentemente poste in essere. L'atto tipico che deve essere assistito da coscienza e volontà è proprio quello contrassegnato dall'ultima possibilità di rimuovere gli effetti del comportamento imprudente, leggero, imperito. Prova ne è che se in tale momento sopravviene una forza alla quale il soggetto non può resistere e che lo pone nell'impossibilità di operare la rimozione dovuta, l'evento cagionato non gli si può imputare a colpa.
3. Omissione cosciente e volontaria. Per accertare la volontarietà dell'omissione, infatti, bisogna accertare la libertà della condotta diversa da quella dovuta: se la condotta diversa è necessitata, l'omissione è priva di coscienza e volontà. Con ciò si dà risposta anche al problema della c.d. natura della condotta.
omissiva. Le tesi che a questo proposito si sono contrapposte si possono articolare lungo tre direttrici: da una parte si dice che l'omissione è un non fare, dall'altra che è un "aliud agere"