Riassunto esame Diritto Penale, prof. Trapani, libro consigliato Diritto Penale, Gallo - quarta parte
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alla metà.
La dottrina italiana ama far risalire questo articolo al vecchio art. 42 del codice toscano del 1853:
“Il delitto si considera perfetto allorché tutti gli elementi che ne costituiscono l'essenza si riscontrano nel fatto
perpetrato”.
Sul quando un fatto possa considerarsi realizzato abbiamo già discusso nel volume I, nella parte sulla successione delle
leggi penali nel tempo. Conviene ora tuttavia soffermarci di nuovo sui reati necessariamente permanenti, dei quali un
esempio potrebbe essere rinvenuto nel sequestro di persona, art. 605.
Se l'illecito istantaneo è composto da elementi verificatisi i quali è impossibile pensare ad una ulteriore perpetrazione
del fatto, non è così per l'illecito permanente. Qui la condotta tipica deve perpetrarsi per un lasso di tempo
apprezzabile; a.e., nel sequestro di persona, la privazione della libertà deve avere consistenza apprezzabile.
Nell'omicidio, invece, la morte dell'uomo è elemento che, con la sua presenza, chiude il fenomeno criminoso. Se tale
lasso di tempo apprezzabile manca, è allora che si avrà tentativo nel reato permanente: a.e., sempre nell'ipotesi del 605,
se la persona riesce a divincolarsi.
Dunque, se negli illeciti istantanei è perfetto quel reato che è lecito definire consumato e realizzato, negli illeciti
permanenti il tentativo si verifica prima della realizzazione, non della consumazione.
Portata dell'art. 56 c.p.
L'art. 56 è la norma che fissa i requisiti generali ed indifettibili del tentativo. Segna il superamento della
formulazione del Codice Zanardelli, risalente al 1889, il quale esigeva per la punibilità a titolo di tentativo almeno il
cominciamento del delitto avuto di mira. Il Codice Rocco esige, invece, la presenza di “atti idonei diretti in modo non
equivoco ...”. Tuttavia, nonostante la differente formulazione, il significato non cambia. Entrambe le norme hanno la
stessa funzione: quella di far acquistare rilievo a condotte che, alla stregua delle varie fattispecie di parte generale, non
saebbero penalmente rilevanti. In altri termini, se l'art. 56 non esistesse, la condotta volta a porre in essere un delitto
che non sortisse l'effetto dovuto sarebbe penalmente irrilevante. Né si potrebbe trovare un altro modo per farle
acquistare questo rilievo, dal momento che l'analogia in campo penale – soprattutto quando si tratta di analogia
sfavorevole al reo – è vietatissima. Il rigore della tassatività della legge penale può quindi essere superato soltanto con
una norma di tal fatta: l'art. 56 è quindi indispensabile nel sistema per la punibilità a titolo di tentativo.
Come opera tale disposizione nell'ordinamento? Per Gallo lo fa tramite il suo effetto estensivo: effetto che non si
innesta solo sulle singole fattispecie di parte speciale, ma che opera con riguardo all'intero ordinamento.
Quale, invece, il significato che presenta la punibilit di quegli atti volti a porre in essere un delitto, ma che non
sortiscono l'effetto voluto? Per Gallo è un significato frutto di valutazioni e volontà squisitamente politiche: quella di
spostare in avanti la soglia di rilevanza penale di questi comportamenti, di disporre una linea avanzata di trincee a
difesa degli interessi ritenuti meritevoli di tutela dalla norma penale. Tale allungamento della soglia di rilevanza deriva,
a parere di molti commentatori, dalle preoccupazioni proprie di uno stato che mirava a presentarsi come “totalitario”.
Ma che, per Gallo, ha sortito comunque un effetto positivo.
La struttura del delitto tentato. Idoneità e direzione non equivoca degli atti: termini di relazione.
Dall'art 56 si coglie un primo dato: nel nostro ordinamento non esiste tentativo di reato contravvenzionale, ma solo di
delitto. È questa una presa di posizione che si coordina con la mancata previsione di tentativo delitto colposo.
Affinché gli atti possano risultare idonei e rilevanti a titolo di tentativo, essi debbono essere qualificati da due note:
● Idoneità;
● Direzione non equivoca.
Qual'è però il referente al quale queste note debbono essere rivolte? Cioè, a cosa dovevano essere idonei quegli atti, ed
a cosa non equivocabilmente diretti? Al delitto. Per Gallo dovrà essere tenuto in considerazione l'elemento soggettivo
finalistico, al fine di determinare a cosa effettivamente tendesse il comportamento dell'agente. Perché, qualora fossero
sufficienti le sole caratteristiche obbiettive, esteriori, fenomeniche per qualificare un atto “idoneo e non equivoco”. Per
Gallo è necessario accertare l'intenzione: a.e. non sarebbe punibile per tentato delitto quel ladro che compie atti di
sopralluogo per un futuro furto; atti che, tuttavia, potrebbero esteriormente essere interpretati come atti di tentativo.
La Relazione al Re non sosteneva qualcosa di molto diverso: in essa è scritto che la non equvocità va desunta dalle
circostanze esterne, obiettive, fenomeniche; tuttavia nulla vieta che siano prese anche altre circostanze in
considerazione. Comunque sia, anche l'indagine sull'intenzione – per Gallo necessaria – andrà comunque condotta sulla
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base del criterio dell'id quod plerumque accidit: il problema dell'indagine sull'intenzione è quindi un non problema, dal
momento che l'indagine sull'intenzione è possibile solo grazie alle massime di esperienza.
L'idoneità degli atti
La dottrina vuole delineare il rapporto di idoneità prendendo l'evento come riferimento. Ma quale evento deve essere
preso in considerazione? L'evento naturalistico o l'evento giuridico? Il secondo: meno sostenibile è la posizione di chi
ritiene si tratti di evento naturalistico. Se fosse così, infatti, resterebbero esclusi dalla possibilità di essere commessi per
tentativo tutti i reati di mera condotta, che sono per definizione quelli sprovvisti di evento naturalistico.
Prendendo in considerazione l'evento giuridico, l'idoneità potrebbe essere definita come la capacità dell'atto a porsi
con efficacia condizionante nella serie causale che avrebbe condotto alla realizzazione del delitto, ove non fosse
intervenuto qualcosa che abbia interrotto il crimine, indipendentemente dalla volontà dell'agente. Idoneità è dunque
insieme condizione e virtualità: condizione per il motivo appena esposto, virtualità perché sappiamo che, nel caso
concreto, l'evento non si è verificato.
Gallo ripete più e più volte che l'idoneità va misurata in concreto, non in astratto. Ciò perché un atto che, secondo le
comuni massime di esperienza, potrebbe essere inidoneo a costituire un tentativo, nel caso concreto potrebbe invece
rivelarsi come tale. Nessuno, per esempio, osa pensare che un cucchiaino di zucchero può essere idoneo a commettere
omicidio; però se lo somministriamo ad un diabetico di forma grave, ecco che si rivela come idoneo. Il giudizio in
concreto non potrò però spingersi oltre un certo limite, oltrepassarlo. Centrale sarà “bloccare il fotogramma del film”
all'atto del quale va accertata l'idoneità. Lì dovrà essere compiuta un'analisi secondo il criterio di valutazione di un
osservatore medio, criterio di valutazione che dovrà essere integrato con le conoscenze possedute dall'agente.
Astrazione concretizzata, quindi, perché se l'atto fosse stato effettivamente idoneo, il reato si sarebbe consumato.
Così, l'atto di chi insinua la mano in tasca ad un viaggiatore in un autobus pensando che dentro vi sia un potrafogli è un
atto che, secondo il senso comune, è atto idoneo a costituire un tentativo. Questo anche se poi, nel caso concreto, la
vittima il portafogli o ce l'ha in un'altra tasca, o non se l'è proprio portato appresso: la mancanza assoluta dell'oggetto,
infatti, non si traduce in impossibilità assoluta degli atti posti in essere a consumare un furto.
Oltre ciò, è forse necessario anche un'indagine sull'idoneità alla luce degli atti che si sono prodotti successivamente?
Quelli che sostengono tale ordine di idee sono quelli che parlano, al riguardo, di prognosi postuma. Sono tuttavia in
molti a rigettare questa ipotesi, sostenendo che l'idoneità vada calcolata soltanto in base agli atti precedenti o coevi alla
condotta umana. Per Gallo tali impostazioni non tengono conto del punto fermo dell'elaborazione sul nesso di
causalità: la distinzione tra condizione e causa. La condotta è solo una delle condizioni che concorrono a formare il
risultato; risultato che è la causa – per il delitto è l'evento. Causa che sarà qualificabile come l'insieme di quella miriade
di condizioni, condizioni di cui la condotta umana è solo una. Non può quindi dirsi che l'atto o gli atti erano
necessariamente inidonei, dal momento che il risultato non si è prodotto in concreto:. Infatti, l'elaborazione sul nesso di
causalità pone in chiaro che il mancato percorso causale può dipendere da altri fattori. Gli atti della condotta umana
dunque non perdono la loro idoneità, anche se non si traducono nel risultato che si aveva di mira. Restano idonei
perché potevano inserirsi in una serie causale che avrebbe portato al prodursi dell'evento. Perché – e arriviamo al
nocciolo della questione – fermarsi alle sole circostanze presenti al momento in cui l'atto si è realizzato? Un atto in sé
considerato può considerarsi come inidoneo, al momento della sua commissione, a.e. a cagionare la morte. Ma
circostanze verificatesi successivamente al momento della sua commissione possono fargli acquistare l'idoneità. Basti
pensare a chi somministra una dose di veleno bassisima ad un malato; malato che successivamente ingerirà dosi di
farmaco che, per reazione, potranno condurlo vicino alla morte. Ecco qui che l'idoneità di un atto inidoneo al momento
della condotta si può manifestare quale idoneo in un momento successivo, per la sopravvenienza di ulteriori
condiciones che lo gli faranno acquistare questa qualificazione. Per Gallo, dunque, al fine della completezza di un
giudizio di idoneità in concreto si devono tenere in conto tutte le circostanze ANCHE SUCCESSIVE alla condotta
dell'agente.
Nel giudizio di idoneità, infine, quale livello di capacità deve avere l'atto affinché acquisti rilevanza penale? Basta la
possibilità oppure è necessaria qualcosa di più, come la probabilità? Per Gallo la seconda: insomma, una potenzialità
superiore alla media matematica; cioè l'attitudine senza ragionevole dubbio che la condotta umana possa inserirsi
in una serie causale idonea al prodursi dell'evento.
La direzione non equivoca
C'è un'altra nota che contrassegna sul piano oggettivo gli atti costitutivo di tentativo: è la direzione non equivoca,
come dispone l'art. 56. 8
In cosa consiste? I compilatori del codice la ritenevano un requisito soggettivo; con il termine “diretti”, in particolare,
si intendeva dare risalto al finalismo della condotta, cioè al dolo.
La lettura sistematica ci consente, tuttavia, di discostaarci dall'intento del legislatore. Anzitutto teniamo conto che il
tentativo è esso stesso illecito delittuoso: il suo elemento psicologico rilevante, quindi, non può che essere il dolo.
Come per l'idoneità, anche la non equivocità dha bisogno di un referente: per porla sotto forma di domanda, l'atto deve
essere diretto in modo non equivoco a che cosa? Allo scopo.
Bisognerà, quindi, appurare se gli atti compiuto dall'agente si presentino come oggettivamente diretti in modo non
equivoco al raggiungimento di tale scopo. In secondo luogo, bisognerò chiederci se questo comportamento fosse o no
sorretto da dolo.
Come per l'idoneità, anche la non equivocità potrà essere desunta da altri dati esterni alla condotta? Sì, per Gallo, dal
oento che anche l'esplosione di un colpo di arma da fuoco può essere motivata da una gamma di intenzioni; gamma che
và dalla effettiva volontà omicida, fino allo scherzo.
Anche qui, occorrerà rinviare al metro di giudizio formulabile dall'osservatore medio: alle massime di esperienza,
all'id quod plerumque accidit. La condotta va messa in relazione con le sue finalità; e l'osservazione andrà condotta
tenendo conto della ontologia degli atti.
In conclusione, il criterio per accertare la direzione non equivoca dovrà essere fornito dal giudizio di un estraneo che
operi sulla scorta di massime di esperienza condivise e collaudate.
Ad ultimo, non resta che da chiederci se l'enunciazione del requisito della idoneità sia superflua, dal momento che ad
una prima e sommaria analisi quello della direzione non equivoca sembra includerlo in sé stessa. No, non è superfluo:
ad un'analisi non sommaria – ma approfondita – i due requisiti sono entrambi indispensabili. Un atto potrebbe, infatti,
essere qualificato come inidoneo, ma non equivoco: a.e. la puntura di una bambolina vodoo in un contesto in cui tutti
hanno fede cieca nella magia.
La clausola del mancato intervento di un comportamento volontario del soggetto agente
Riportiamo il penultimo comma dell'art. 56:
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora
questi costituiscano per sé un reato diverso.
Quello del penultimo comma è il c.d. fenomeno della desistenza volontaria. Fenomeno che dà luogo a mille problemi
ed interrogativi. Comunque, ogni volta che gli atti idonei siano interrotti volontariamente, non si soggiace più alla
pena per tentativo. Ma cosa deve intendersi per “interruzione volontaria”? In un comportamento attivo od omissivo
nel quale si estrinsechi la volontà e la presa di posizione dell'agente. Sempre che la condotta precedente alla
desistenza volontaria presenti tutti i requisiti dei primi commi dell'art. 56: idoneità e direzione non equivoca: altrimenti
il tentativo non si è ancora realizzato. Così, se Caio si proponeva di realizzare un furto con scasso, ma poi ha
volontariamente desistito, sarà giusto ed equo attribuirgli almeno il furto con scasso.
Potrebbe, tuttavia, darsi il caso che il momento dell'azione si sia già concluso, e che per impedire l'evento sia necessario
intervenire nel processo causale. Siamo qui in presenza della figura del recesso attivo, disciplinata dall'ultimo comma
del 56: Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo
alla metà.
È questo il fenomeno, a.e., di chi, dopo aver somministrato il veleno con l'intento di uccidere una persona, si “pente” e
gli procura l'antidoto, che gli salva la vita.
L'elemento psicologico del tentativo
La dottrina sostiene che nel tentativo l'elemento psicologico non può essere altro che il dolo. Affermazione esatta, ma
alla quale arriva per un ragionamento sbagliato: quello, cioè, che l'elemento psicologico del delitto tentato sia lo stesso
del delitto che si voleva commettere.
Gallo arriva ad una conclusione simile, ma con un ragionamento diverso.
Anzitutto, egli considera che la pena per il tentativo è sempre determinata con riferimento a quella prevista per il delitto
che si voleva realizzare. Inoltre, ex art. 42 II comma il riconoscimento che la condotta di tentativo ha natura delittuosa
esclude la possibilità che si possa, sempre con riguardo al tentativo, fare riferimento alla colpa o alla preterintenzione. 9
Diremo di più: il tentativo ci può essere solo con dolo intenzionale o con dolo diretto. Il comportamento per un fine
diverso – che c'è invece nel dolo eventuale – non dà luogo a tentativo: rigirando la questione, non può darsi tentativo
con dolo eventuale. Ciò non toglie che, anche quando ci sia incertezza sull'idoneità della propria azione a cagionare
l'evento, possa comunque esserci tentativo: è questa un'ipotesi che si configura proprio con la presenza del dolo
intenzionale. Non è quindi necessario parlare di dolo eventuale, neanche nel caso di dubbio sulla capacità della propria
condotta a cagionare l'evento.
Rapporti tra l'art. 56 e 49 c.p.
Parte della dottrina sostiene che l'art. 49 ed il 56 regolano la stessa materia: sarebberro, insomma, l'uno il doppione
dell'altro. Per Gallo è strano: il legislatore, infatti, non è aduso ripetere negativamente quanto già ha disposto in
positivo. Ma ci sono argomenti più vincenti che ci inducono a rigettare nettamente questa visione ed, anzi, a ritenere
l'art. 49 come una norma cardine del sistema, norma che Trapani “inserirebbe all'art. 1 di un futuro progetto di
riforma del codice penale”.
Art. 49 - Reato supposto erroneamente e reato impossibile. — Non è punibile chi commette un fatto non
costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.
La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è
impossibile l’evento dannoso o pericoloso.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato
diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso.
Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a
misura di sicurezza.
Art. 56 - Delitto tentato. — Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.
Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è
l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora
questi costituiscano per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo
alla metà.
Considerandoli uno il doppione dell'altro, come poco prima si scriveva, si arriverebbe al paradosso di assoggettare a chi
commette un atto idoneo a commettere in modo non equivoco una contravvenzione (dal momento che l'art. 49 include
anche queste nel proprio ambito, a differenza dell'art. 56) a nessuna sanzione, mentre ad assoggettare chi commette un
atto non idoneo a commettere una contravvenzione alla misura di sicurezza, così arrivando ad una grave incongruenza:
quella di dar luogo ad effetti penali più gravi per chi ha commesso un fatto meno grave.
Ma continuiamo. L'art. 49 parla di idoneità dell'azione; il 56 di atti idonei. Gallo fa notare come dire azione è cosa
diversa dal dire atti. Il 56 ha sue presupposti negativi: che l'azione non si compia e che l'evento non si verifichi. Solo in
questi casi può aversi tentativo.
L'art. 49 possiede, invece, un elemento positivo: la impossibilità del verificarsi dell'evento dannoso o pericoloso.
Se nell'art. 56 c'è carenza di conformità al tipo descrittivo, nel 49 c'è carenza di realizzazione dell'offesa contenuto
del reato. Questo è il punto centrale, che ci fa capire perché le due norme non si ripetono:
● Si applicherà l'art. 56 se l'iter criminoso è incompiuto;
● Si applicherà l'art. 49 se l'iter criminoso è compiuto, a difetta dell'offesa.
L'art. 49 dichiara non punibile la condotta se l'oggetto è inesistente: come nel caso di chi avvelena un cadavere, oppure
chi ruba un chicco d'uva. Qui l'inesistenza o l'inidoneità dell'oggetto a costituire offesa fanno venire meno ogni
punibilità.
Atti preparatori ed atti esecutivi
Art. 115. Accordo per commettere un reato. Istigazione. — Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora
due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse
è punibile per il solo fatto dell’accordo.
Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se la istigazione è stata
accolta, ma il reato non è stato commesso.
Qualora la istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere
sottoposto a misure di sicurezza.
Vediamo da qui che nessuno è punibile per il solo fatto dell'accordo o dell'istigazione a commettere un delitto; residua,
comunque, l'applicabilità delle misure di sicurezza. 10
Ma è il momento di appurare quale forza ha l'art. 155 nella teoria del tentativo. La sua forza normativa è costituita dal
fatto che accordo ed istigazione risulteranno atti atipici se non seguiti da un comportamento che realizzi, almeno nelle
forme del tentativo, l'offesa all'interesse o agli interessi protetti. In un'ipotesi di commissione di un reato ad opera di più
persone, la tipicità degli atti posti in essere potrà affermarsi o negarsi solo se quegli atti sarebbero apparsi tipici in un
processo di esecuzione monosoggettiva.
Alcuni sostengono che l'art. 115 funzioni da limite esterno all'art. 56. Per avvalorare questa tesi bisognerebbe però
dimostrare che gli atti che cadono sotto la disciplina di quest'ultimo, se non ci fosse, ricadrebbero sotto la disciplina del
delitto tentato. Ma possono negarsi all'accordo ed all'istigazione i requisiti della idoneità e della direzione non
equivoca? Per Gallo no: queste ultime non debbono essere genericamente volte ad un delitto, ma a commetterlo,
realizzarlo come autore immediato. Non può parlarsi di limite esterno proprio perché l'accordo e l'istigazione sono
rivolte a far commettere un delitto, non a commetterlo. Ecco quindi che l'art. 115 non può funzionare da limite
esterno; in altri termini non sottrae al tentativo condotte che altrimenti ne avrebbero potuto costituire possibile
realizzazione.
È bene, dunque, ribadire la distinzione:
● Atti esecutivi: sono quelli idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
● Atti preparatori: sono atti idonei a commettere un delitto, ma sono privi di univocità.
Se il delitto tentato sia o no perfetto
Stante la distinzione poco sopra delineata fra atti esecutivi ed atti preparatori, ne dovremmo concludere ritenendo il
delitto tentato come un delitto perfetto: esso è infatti costituito dall'inizio di un fatto criminoso non portato a termine, e
quindi da atti esecutivi. Insomma, il delitto tentato non è un delitto “fermatosi a metà strada”: esso invece fonda la sua
rilevanza sulla idoneità e sulla direzione non equivoca cui è diretto.
Si pone perciò una domanda: il delitto tentato dà luogo ad un delitto perfetto, penalmente autonomo rispetto al delitto
realizzato, oppure ad un delitto imperfetto? Non dovrà trarci in inganno nell'indagine il fatto che la sanzione per il
tentativo si “appoggi”, sia ricollegata a quella per il delitto consumato. Ciò è spiegabile considerando che è dovuto a
tecniche di economia normativa e di equità: economia normativa perché si evitano ripetizioni inutili; equità perché la
sanzione per il delitto tentato non può non tenere luogo della sanzione per il delitto realizzato.
Dobbiamo invece vedere se il tentativo resta autonomo nella struttura ed autonomo nella sostanza della pena
comminata.
Quale, al riguardo, il pensiero dei compilatori del codice penale? Per essi delitto tentato e delitto consuato sono
violazioni della medesima disposizione di legge; momenti di realizzazione di un illecito che trova la sua unità
nell'offesa, nella messa in pericolo di uno stesso interesse.
Ciò significa che l'autonomia del tentativo viene meno ogniqualvolta che manchi un'indicazione precisa – ma che
non deve essere necessariamente esplicita – alla stregua della quale si debba concludere che il delitto tentato è visto
come entità individua. Ci vogliono segni chiari ed inequivocabili: altrimenti il delitto tentato è un modo di
realizzazione dell'offesa contenuto del delitto consumato.
Tentativo e delitto consumato
Le circostanze sono applicabili nel delitto tentato? Vediamolo caso per caso.
Con riguardo alle circostanze comuni, non c'è dubbio che esse siano applicabili: esse aggravano o attenuano tanto
l'illecito concretamente realizzato, quanto quello solo tentato.
Le circostanze speciali sono invece quelle dettate in rapporto ad uno o più deterinati titoli di reato: esempi possono
essere rinvenuto negli artt. 576 e 577. Dottrina e giuridprudenza sono unanimi: ritengono che le circostanze, in questo
caso, si debbono applicare.
Spesso, però, può sembrare che una circostanza sia incompatibile con il tentativo, per la struttura del dato fattuale. A.e.,
nei delitti contro il patrimonio un'aggravante è quella della causazione di un danno di particolare gravità. Qui sembra
che, affinché tale aggravante venga in rilievo, deve esserci almeno l'evento dannoso, e non basta che si ponga soltanto
come oggetto della volizione o della rappresentazione dell'agente. Comunque, se a.e. un furto non ha avuto esito ma il
danno ha avuto effetti dannosi sull'oggetto di particolare valore, non ci sono dubbi che la circostanza sia applicabile.
La condotta costitutiva di tentativo, insomma, può risultare circostanziata solo ad opera di uno o più elementi accessori
antecedenti, contestuali o immediatamente successivi alla condotta.
Un celebre brocardo dice infatti: non si dà tentativo di delitto circostanziato, ma tentativo circostanziato di delitto.
Tentativo: configurabilità in relazione a determinati tipi di delitto
È bene, prima di cominciare l'indagine, porre in chiaro ancora una volta che l'art. 56, nella sua lettera, esclude possa
darsi luogo a tentativo di contravvenzione. Non ci sono dietro ragioni “ontologiche”, di teoria generale del diritto; 11
nulla avrebbe infatti impedito di considerarle. È, invece, una scelta dal carattere prettamente politico.
Possiamo anzitutto concludere con discreta certezza che il sistema non prevede tentativo nei delitti di attentato. Sono
questi reati nei quali la condotta è tipicizzata alla stregua di una potenzialità; nei quali, cioè, la condotta risulti rivolta
ed idonea a cagionare un determinato tipo di risultato. Qui il fatto oggettivo di reato non si allontana dallo schema del
tentativo; l'attentato, infatti, riposa tutto sul dato psicologico determinato dal fine. Teniamo comunque in considerazione
che, in questo tipo di reati, qualora la condotta risultasse inidonea a cagionare l'offesa potrà sempre trovare applicazione
l'art. 49 II comma: a.e. qualora dovessi scrivere una lettera ai capitani reggenti della RSM invitandoli ad annettere il
Triveneto.
Dubbi nascono a proposito di altri tipi di delitti. Molti, a.e., sostengono che nei delitti unisussistenti – che si realizzano
o si consumano con un unico atto – non possa darsi tentativo. Un esempio di un delitto di tale sorta è l'ingiuria
consistente di un'unica parola; risulta perciò strano a taluni che prima della parola che realizza e consuma l'illecito possa
darsi un atto idoneo diretto in modo non equivoco all'atto stesso. E, anche se tale atto potesse configurarsi, la verifica
sarebbe impossibile.
Tuttavia, per Gallo, questa difficoltà è dovuta solo ad un difetto nella capacità di ragionamento astratto. Ragionando ben
bene, non è difficile acclarare che può darsi tentativo anche nei delitti unisussistenti. Pensando all'ingiuria, a.e., si può
supporre che l'agente venga sorpreso in appostamento per il passaggio della vittima designata, vittima che è uno
straniero, con un foglio con su scritta una parola della lingua della vittima – che l'agente non conosce – lesiva dell'onore
della vittima, insieme ad un altoparlante che renda più plateale l'offesa. Nonostante l'esempio sia “scoppiato”, esso ci è
servito ad avvalorare la tesi di Gallo: quella cioè per cui l'elemento unisussistente non è strutturalmente inidoneo a
dare tentativo, e che – semmai – i problemi possono nascere in ordine alla grave difficoltà dell'accertamento.
Ancora, posizione negativa è stata da parte della dottrina assunta in tema di configurabilità di tentativo nei delitti di
omissione propria: quelli consistenti nella mancata tenuta della condotta cui si era giuridicamente obbligati. Il
problema però cessa di porsi come tale allorché ci muoviamo nell'ottica della concezione di Gallo (già esposta nel II
volume, I parte) di questi tipi di delitti, i quali presupporrebbero sempre un termine. La condotta omissiva non si
perfeziona sempre alla scadenza di detto termine, ma può anche darsi che il titolare dell'obbligo possa porsi in una
situazione nella quale l'adempimento del dovere sia reso impossibile. Pensiamo, ad esempio, a colui sul quale grava il
dovere di consegnare una somma di denaro entro un certo termine, che venga sorpreso su un aereo, con la somma in suo
possesso, mentre questo sta partendo. Siccome le linee aeree non dispongono del servizio che garantirebbe il rientro
dell'agente nel termine stabilito, qualora Tizio venga fermato sull'aereo, prima che esso decolli, non potrà negarsi la sua
imputabilità a titolo di tentativo.
Gli stessi dubbi hanno riguardato i delitti di omissione impropria. Delitti qualificati, ai sensi del II comma 40, da un
evento naturalistico come conseguenza di una condotta omissiva. Ma qui Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel
ritenere la configurabilità del tentativo: basti pensare alla balia, che cessa di nutrire il bambino affidatole, che viene
scoperta prima che la denutrizione di questi diventi irreversibile.
Puntualizzazione meritano i delitti sottoposti a condizione obiettiva di punibilità: quei delitti nei quali sono richiesti
eventi tenuti fuori dall'area coperta dalla volontà colpevole; eventi che stanno significare che l'offesa è ormai
divenuta definitiva. Così accade nell'incesto, in cui c.o.d.p. è costituita dal pubblico scandalo, e nella bancarotta
fraudolenta, dove invece essa è costituita dalla sentenza dichiarativa di fallimento.
È qui indubbio che, senza il quid pluris dell'evento, non punò darsi tentativo. Altrimenti è evidente che il sistema si
metterebbe in contraddizione; esso stesso in contrasto con le sue scelte. Questo però non significa che non possa darsi
tentativo anche nei delitti sottoposti a condizione obiettiva di punibilità. Tentativo che si realizzerà pleno iure quando,
agli “atti idonei diretti in modo non equivoco” seguirà il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità.
Ancora, il delitto è configurabile anche nei delitti a condotta plurima: quei delitti nei quali la consumazione è data
dalla realizzazione di un'azione preceduta da na realizzazione di un'altra azione dell'agente. A.e. l'art. 485, nella scrittura
privata, di chi usi una scrittura falsa come mezzo probatorio.
Invece, nell'omicidio preterintenzionale – che è poi l'unico caso di preterintenzione o delitto oltre l'intenzione esistente
– il tentativo è incorporato nello stesso delitto. Qui non c'è via di mezzo: non può esserci tentativo di omicidio
preterintenzionale, ma solo tentato omicidio o omicidio preterintenzionale. È infatti la stessa struttura della
preterintenzione ad escludere l'ipotesi e la configurabilità del tentativo. 12
Desistenza volontaria e recesso attivo
Riportiamo il II ed il III comma dell'art. 56:
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora
questi costituiscano per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo
alla metà.
Il III comma configura l'istituto della desistenza volontaria: l'azione criminosa qui si arresta prima che sia messo in
moto il processo causale, successivamente distinto dalla condotta dell'agente. Qui la manifestazione di volontà cade in
un momento nel quale l'azione criminosa è ancora tutta nel dominio dell'agente.
Il IV comma, invece, quello del recesso attivo: la condotta dell'agente ha qui già messo in moto il processo causale in
grado di sfociare nell'evento; si rende necessaria una contro-azione. Siamo in uno stadio più avanzato rispetto alla
desistenza volontaria: stato che giustifica l'applicazione della pena, anche se fortemente diminuita, al contrario del
primo caso, in cui la punibilità è esclusa.
Se, nella teoria, i confini tra le due figure sembrano lineari e precisi, nella realtà essi danno luogo a rilevanti problemi di
demarcazione. Cominciamo quindi col vedere quali sono gli elementi che danno luogo alle figure della desistenza
volontaria e del recesso attivo.
Il vecchio codice penale prevedeva una formula diversa: quella della “desistenza dallo scopo”. Oggi è invece prevista
la “desistenza volontaria”. Prima, così, non era considerato desistente il ladro che interrompesse l'azione criminosa con
l'intento di tornare l'indomani, pensando di trovare in tal modo più lauto bottino. Non si dava abbandono dallo scopo,
insomma, quando il raggiungimento era solo rinviato; quel che conta oggi con il “nuovo” codice non è il pentimento,
il ravvedimento, qualche inflessione di un accento morale: quello che conta è solo la volontaria desistenza. Neanche
motivi di interesse, paura, tornacont, ecc., hanno una qualche rilevanza. Dove “volontaria” significa che essa deve
essere riconducibile ad una scelta volontaria dell'agente. La prossimità dell'arrivo delle forze dell'ordine, ad esempio,
varrà ad escludere una volontarietà nella desistenza: qui infatti l'elemento volontario viene meno. Insomma, la
desistenza deve essere retta dalla ragionevolezza di opzione.
Ora però un dilemma si pone; due scuole di pensiero si contrappongono sulla interruzione della condotta:
● C'è chi pensa che essa debba tenere conto anche delle azioni altrui, cosicché si rimane nell'ambito della
desistenza volontaria se, con una gomitata, si fa cadere il bicchiere con l'acqua avvelenata che la vittima
designata sta per bere;
● C'è chi propende per una lettura restrittiva, per cui la desistenza si applica nei limiti della condotta
dell'agente, e tutto ciò che segue può essere solo recesso attivo.
Gallo si schiera con la seconda teoria: quella della lettura restrittiva. Il processo causale, secondo lui, ancora non deve
essersi sviluppato: il discrimine è dato dalla circostanza che il processo causale ancora non si sia messo in moto.
Siccome la desistenza volontaria può essere colta anche nel compimento di azioni positive volte ad impedire l'innescarsi
del processo eziologico, qual'è qui il confine con il recesso attivo? Per Gallo, dal momento che la norma in esame, al IV
comma, parla di evento in senso naturalistico, il recesso attivo è concepibile soltanto nei reati ad evento
naturalistico. In questi, due sono le possibilità: o la condotta non è portata a termine (e si avrà desistenza), o si spezza
il flusso causale quando la condotta si è già compiuta (ed allora si avrà recesso attivo).
Nei delitti di omissione impropia, invece, la linea di confine è meno netta. Qui la desistenza volontaria è caratterizzata
dalla ripresa dell'attività dovuta: a.e. la balia “desisterà” riprendendo a nutrire il bambino che le è stato affidato. Ed il
recesso? Qui sarà necessario portare il bambino al pronto soccorso. Ma bene può osservarsi che la balia potrebbe
portare ben prima del necessario – magari perché presa dall'agitazione – il bambino all'ospedale.
Qui il discrimine sarà dato dal fatto che, se a scongiurare l'evento sarebbe stata sufficiente la mera ripresa dell'attività, il
portare il bambino all'ospedale non sarà altro che una sovrabbondanza in precauzione. Se invece portarlo è necessario
affinché si salvi, cioè è necessario altro e diverso comportamento da quello dovuto, allora vi sarà recesso attivo.
È ora il momento di acclarare la natura giuridica tanto del recesso quanto della desistenza, nella fattispecie del delitto
tentato alla quale ineriscono.
Cominciamo con la desistenza. Essa è per Gallo riconducibile alle cause estintive del reato, cioè agli artt. 150 e ss.
Con la desistenza, infatti, vengono meno anche le pene accessorie e le misure di sicurezza. Altra sistemazione non
sarebbe possibile: non può infatti essere annoverata fra le esimenti, art 59 II comma, perché così si verrebbe ad
escludere il dolo per un comportamento successivo a quello che ha sorretto la condotta dell'agente. Unica obiezione che
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può muoversi alla nostra tesi è quella che il legislatore ha rinunciato a definirla quale causa estintiva del reato in
maniera espressa. Ma non è obiezione vincente: molti sono i fatti giuridici innominati che possono essere
tranquillamente ricondotti alla stessa categoria di altri fatti invece dotati di qualifica espressa. Tantopiù che, quando il
legislatore esprime il suo punto di vista scientifico, definendo il nomen iuris di certi fatti spesso finisce nei guai: basti
pensare all'errore fatto, definendo le misure di sicurezza come amministrative.
Il recesso attivo può per Gallo tranquillamente essere annoverato fra le circostanze attenuanti. Niente si oppone a tale
considerazione: è comunque vero che si tratta di una circostanza di tipo particolare, a metà strada fra circostanze ad
effetto comune e quelle ad effetto speciale. È tuttavia indubbio che si tratti di una circostanza speciale, in quanto la
sua rilevanza è limitata al delitto tentato.
Quale circostanza, essa potrà entrare nel giudizio di bilanciamento ex art. 69; qualcuno storcerà il naso, dal momento
che potrebbe darsi che il giudice riconosca rilevanza alle aggravanti di modo da far soccombere un'attenuante quale il
recesso. È vero; ricordiamo tuttavia che il giudice dovrà tenere in giusto conto l'importanza di questa attenuante, e che
dovrà adempiere in modo ancor più scrupoloso all'obbligo di motivazione, qualora decida di farla soccombere rispetto
alle aggravanti.
CAPITOLO III – IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO
Il concorso di persone nel reato è disciplinato negli artt. 110 e seguenti del c.p.
Iniziamo col considerare che quasi tutte le fattispecie di parte speciale sono modellate sullo schema dell'autore
individuale. Sono soltanto poche a prevedere espressamente la partecipazione di più persone (pensiamo al 416,
associazione per delinquere); pochissimi altri prevedono, invece, la partecipazione della vittima (la truffa, a.e., nella
quale la vittima deve compiere un atto di disposizione); la maggior parte delle fattispecie prevede nello schema tipico la
commissione del reato da parte di un solo agente.
Le norme sul concorso hanno proprio la funzione di estendere la disciplina delle fattispecie di parte speciale al
comportamento atipico di chi contribuisce nel reato; oltreché una funzione incriminatrice, in quanto il 110 ricollega a
queste nuove fattispecie una sanzione:
Art. 110. Pena per coloro che concorrono nel reato. — Quando più persone concorrono nel medesimo reato,
ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti.
Ponendoci su un piano di teoria generale, esistono due modelli tramite i quali disciplinare il concorso di persone nel
reato:
● Tipizzazione differenziata: il legislatore descrive precisamente certi contributi al fatto tipico (a.e. quello
dell'istigatore, del complice, ecc.) ed ad essi ricollega una sanzione.
● Modello unitario: qui il legislatore non distingue fra contributi, bensì detta un modello generale di concorso.
L'art. 110 del nostro codice si ispira proprio a quest'ultimo modello. Ciò è dovuto essenzialmente a due ordini di motivi:
in primo luogo, nel vecchio Codice Zanardelli era vigente l'altro modello; modello che si era rivelato scarsamente
applicabile nella pratica. In secondo luogo, per una ragione di ordine dommatico: siccome nella causalità gli autori del
Codice Rocco avevano utilizzato il criterio della condicio sine qua non, nel concorso di persone la scelta del modello
unitario si imponeva come scelta di coerenza.
Quali sono le funzioni dell'art. 110? Le abbiamo individuate poco fa, e sono due:
● Funzione di disciplina;
● Funzione incriminatrice.
La seconda funzione si ricava soprattutto dagli articoli seguenti al 110. Ma come opera la funzione incriminatrice? Essa
avviene tramite una estensione della punibilità. È bene chiarire, ed anche Gallo lo fa, che tale funzione estensiva non
avviene in rapporto alla singola regola incriminatrice, ma rispetto all'intero ordinamento. L'art. 110 si innesta con le
fattispecie di parte speciale, e così si crea una nuova fattispecie. Fattispecie che trasforma un contributo atipico
rispetto alla norma. Per Gallo tale articolo designa direttamente elementi di fattispecie; elementi che però hanno bisogno
dell'apporto proveniente dalle disposizioni incriminatrici di parte speciale. In ciò, precisamente, consiste la c.d.
funzione mista della quale discorrevamo. Le nuove fattispecie così create saranno tante quante le norme penali reali che
si costruiscono mediante integrazione, derivante dalla compenetrazione fra parte speciale e parte generale
incriminatrice di parte speciale in un contributo tipico per la fattispecie concorsuale.
Così, di per sé stessa, la condotta di chi fa il palo non sarebbe una condotta atipica; ma lo diventa con l'innesto del 110
e ss. con la regola sul furto di parte speciale. E qui Gallo sottolinea che la originaria tipicità della fattispecie di parte
speciale resta immutata; la tipicizzazione della condotta atipica avviene attraverso il sorgere di una nuova fattispecie,
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DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Penale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Diritto Penale, Gallo (quarta parte).
Nello specifico gli argomenti trattati sono i seguenti: le circostanze e la loro funzione, tipologia di circostanze, criteri di imputazione delle circostanze, sulla distinzione tra figura autonoma e figura circostanziata del reato.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Sara F di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Roma Tre - Uniroma3 o del prof Trapani Mario.
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