Riassunto esame Diritto Penale, prof. Canestrari, libro consigliato Manuale di Diritto Penale
Anteprima
ESTRATTO DOCUMENTO
I PRINCIPI
Capitolo IV — Introduzione: il diritto penale orientato secondo la Costituzione
La tradizione penalistica del nostro paese si caratterizza per l’orientamento ai principi
costituzionali e questa tendenza culturale trova diverse ragioni: in primo luogo, la coscienza di
trovarsi di fronte a un codice penale che porta con sé i chiari segni dell’epoca in cui è stato creato
ovverosia il fascismo; in secondo luogo il ricorso al diritto penale da parte del legislatore spesso è
dettato da immediate necessità di legittimazione politica.
Con riguardo ai principi giuridici, occorre distinguere due tipologie:
sono sovraordinati all’ordinamento, hanno fonte costituzionale e
PRINCIPI FONDAMENTALI
sono anche detti poiché rendono obbligatorie le garanzie individuali;
principi assiologici
si ricavano per astrazione dall’ordinamento e determinano le regole
PRINCIPI CRITERIOLOGICI
del sistema.
Per evitare di confondersi, è preferibile riservare la denominazione «principio» solo a quelli
fondamentali e utilizzare il termine «regola» per designare quelli criteriologici. Dunque mentre i
principi non sono dotati di fattispecie ed agiscono solo attraverso la mediazione delle regole,
queste ultime al contrario si applicano direttamente al caso concreto. Inoltre i principi sono
bilanciabili tra loro proprio al fine di garantire la massima realizzazione del caso.
Tra i vanno distinti:
PRINCIPI FONDAMENTALI hanno forza di legge e sono giustiziabili
principi assiomatici o dimostrativi:
a. vincolano il legislatore che non può costruire fattispecie di reato in contrasto con
essi;
b. possono essere utilizzati dalla Corte costituzionale per caducare le norme in
contrasto con essi;
c. vincolano l’interprete che non può interpretare le norme secondo un significato
difforme da essi. hanno valenza meramente argomentativa
principi di indirizzo politico o argomentativi:
a. orientano le scelte politico-culturali del legislatore;
b. non vincolano in senso stretto perché la Corte costituzionale non potrebbe
dichiarare illegittima una norma giuridico-penale in contrasto con essi.
• definiscono il contenuto e la struttura della
principi fondanti o principi-quadro:
responsabilità penale.
• indicano i confini dell’intervento penale.
principi delimitativi o principi-cornice:
Caratteri del diritto penale: non si tratta di principi ma di connotati dell’intervento penale
o che derivano dai principi fondamentali della Costituzione
extrema ratio o sussidiarietà
frammentarietà
effettività
laicità Capitolo V — Legalità
PRINCIPIO DI LEGALITÁ «NULLUM CRIMEN, NULLA POENA SINE LEGE»
art. 25,2 Cost. «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso».
L’emersione storica del principio si fa risalire al periodo dell’illuminismo e della rivoluzione
francese infatti, prima di questo periodo, la giustizia criminale veniva spesso amministrata senza
chiarezza nella distinzione tra reato e peccato: l’irrogazione della pena era sinonimo di sofferenza.
Si può quindi affermare che oggigiorno il principio di legalità rappresenti la sintesi più efficace dei
valori e delle idee che, nel corso di una lenta affermazione storica, hanno contribuito a costruire la
fisionomia dell’attuale illecito penale.
Tale principio assume una duplice valenza:
è una vera e propria affermazione ideologica che opera come limite all’arbitrio dei poteri
pubblici e quindi si presenta come una forte istanza politico-criminale;
possiede una forte connotazione tecnico-giuridica e risponde all’esigenza che
l’enunciazione legislativa dei comportamenti costituenti reato sia operata in modo
razionale.
Due istanze che si riassumono in quella di certezza infatti la legalità sottende l’esigenza di un
diritto certo tanto per i cittadini suoi destinatari, quanto per i giudici che lo devono applicare. In
questo senso, la certezza derivante dal principio di legalità rappresenta garanzia di libertà
nonché corollario del principio di uguaglianza: si puniscono tutti coloro che pongono in
individuale
essere un reato, senza distinzioni o privilegi ingiustificati.
Questi caratteri della legalità consentono di definire quello italiano come un sistema a legalità
formale: la Costituzione e il codice penale ancorano il potere di creare fattispecie incriminatrici
all’utilizzazione di un’unica fonte, individuata nella legge.
È molto importante sottolineare il rapporto dialettico tra legalità e giustizia che si coniuga su due
presupposti minimi:
1. che esista una fonte sovraordinata grazie alla quale la legge violi non soltanto un astratto
principio di giustizia ma un principio consacrato in una fonte superiore;
2. che esista un organo legittimato a rilevare tale contrasto.
Il principio di legalità riguarda anche la pena e comporta che sia esclusivamente la legge a
prevedere il trattamento sanzionatorio. Attualmente la quasi totalità delle disposizioni penali non
prevedono una pena fissa ma un minimo e un massimo entro il quale il giudice può graduare la
sanzione (c.d cornice edittale).
art. 25,3 Cost. «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti
dalla legge». Il principio di legalità dei delitti e delle pene ha rilievo costituzionale dal momento
che viene esteso anche alle misure di sicurezza.
Tradizionalmente il principio di legalità si compone di tre sotto-principi: ~
riserva di legge
~ Ciascuno di essi non potrebbe operare in modo compiuto
tassatività irretroattività.
autonomamente ma si integra e si fonde con gli altri, dando corpo al concetto di legalità.
PRINCIPIO DI RISERVA DI LEGGE «NULLUM CRIMEN, NULLA POENA SINE LEGE SCRIPTA»
La Costituzione sancisce questo principio soltanto per l’illecito penale e la ragione va rinvenuta nel
carattere afflittivo delle conseguenze sanzionatorie del reato (detenzione). Il principio
costituzionale della riserva di legge si incardina in quello della da un lato,
separazione dei poteri:
rimettendo le scelte di criminalizzazione unicamente al Parlamento; dall’altro sancendo il
paradigma del giudice tecnico, terzo rispetto alle parti e indipendente dal potere politico.
Un primo problema posto dalla riserva di legge è quello di stabilire a quali atti normativi vada
esattamente riferito il concetto di legge utilizzato nel testo costituzionale.
È chiaro che la riserva di legge sia soddisfatta allorché la fattispecie incriminatrice sia prevista
direttamente dalla Costituzione, da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali,
così come appare logica la soddisfazione della riserva di legge anche nei confronti della legge in
senso formale. Maggiori problemi destano invece quelle fonti a cui la Costituzione attribuisce
valore equiparato alla legge, sia pure solo in senso materiale (decreto legislativo, decreti-legge). Vi
sono comunque dei meccanismi di controllo che rendono possibile ritenere che anche rispetto a
tali fonti la riserva di legge sia correttamente soddisfatta. Non può, invece, dirsi altrettanto per le
leggi delle regioni che per parere unanime della dottrina e del legislatore della legge 3/2001, non
hanno potestà in materia penale.
Un ulteriore aspetto della disciplina della riserva di legge, concerne i diversi possibili modi di
concepire il termine “riserva”. Essa può essere interpretata, a seconda dei punti di vista, come:
riserva assoluta: la legge provvede in modo esclusivo ed esaustivo alla disciplina dei fatti di
reato senza integrazione alcuna;
riserva tendenzialmente assoluta: la legge provvede, per quanto possibile, alla disciplina
dei fatti di reato, salvo l’integrazione per alcuni profili tecnici di fonti subordinate;
riserva relativa: la legge detta i gli elementi essenziali della disciplina e le fonti subordinate
la integrano.
Appare evidente come quasi mai la riserva può essere intesa in senso assoluto, questo perché vi
sono dei limiti pratici evidenziati dalla scienza della legislazione. Pensiamo ad esempio alla materia
delle sostanze stupefacenti: se si dovesse applicare la riserva di legge come assoluta, servirebbe
una nuova norma penale per ogni nuova sostanza immessa sul mercato della droga. In tali ipotesi
non si pone un problema di violazione del principio della riserva di legge, poiché è normale che la
legge utilizzi degli elementi di carattere normativo o culturale, che divengono tipici.
Il problema è più serio nei confronti delle norme penali in bianco, ossia quelle fattispecie
incriminatrici in cui il comportamento illecito viene descritto, in tutto o in parte, da altre fonti.
Ovviamente ritenendo la riserva di legge come assoluta le norme penali in bianco risulterebbero
illegittime, al contrario l’utilizzo di una concezione tendenzialmente assoluta della riserva di legge
renderebbe, anche nei confronti delle norme penali in bianco, la disciplina legittima, in quanto
risulterebbe implementata da profili tecnici che il legislatore non potrebbe fornire in modo
esaustivo.
Un ulteriore problema è quello dell’utilizzo della consuetudine in materia penale. Essa può essere
definita come la costante ripetizione di un comportamento nel tempo con la convinzione che esso
abbia fondamento giuridico. Occorre distinguere tra:
consuetudini o diffusa convinzione che un dato comportamento
abrogatrici desuetudine:
non sia penalmente illecito, non ammesse nel nostro ordinamento;
consuetudini anch’esse non ammesse;
incriminatrici:
consuetudini si ritengono in linea di principio ammissibili a patto che siano
integratrici:
richiamate dalla legge;
consuetudini o situazioni previste dal legislatore penale
scriminanti cause di giustificazione:
che escludono che un certo fatto, pur integrando gli estremi di una fattispecie criminosa,
sia punibile; il problema che si è posto è se, in assenza di scriminanti applicabili ad hoc, sia
possibile ricorrere alla consuetudine per ricavare dagli usi cause di giustificazione ulteriori
rispetto a quelle codificate.
L’art. 25,2 Cost. riferisce la riserva di legge alla sola legge statale. Tuttavia, in base al principio del
primato del diritto europeo, sempre più si contano interventi del legislatore europeo anche in
materia penale, principalmente volti alla armonizzazione tra i sistemi nazionali dei membri
dell’Unione europea. I limiti di una pura armonizzazione sono però, di recente, superati in quanto
l’Unione europea sempre più spesso adopera direttive e addirittura regolamenti in materia
penale.
PRINCIPIO DI TASSATIVITÁ «NULLUM CRIMEN, NULLA POENA SINE LEGE SCRIPTA ET STRICTA»
Il principio di tassatività si compone di due ulteriori principi:
principio di determinatezza rivolto al legislatore, consiste nel vincolo a costruire le
fattispecie penali formulando in modo chiaro e preciso gli elementi che le compongono;
principio del divieto di analogia rivolto al giudice, consiste nel divieto di applicare le
fattispecie penali al di là dei limiti da esse previsti.
PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA
La formula scelta dal legislatore nell’art. 25,2 Cost. non sembra abbracciare il principio di
determinatezza. Tuttavia esso è comunque ritenuto un principio costituzionale in quanto è
rinvenibile in molteplici norme della Costituzione ed in particolare nell’art. 13 ove si detta che la
libertà personale per essere limitata richiede una legge che lo preveda esplicitamente
specificandone modi e casi.
Il principio di tassatività impone dunque al legislatore di descrivere i reati nelle norme che li
contemplano in maniera rispettosa del canone della determinatezza.
normazione descrittiva a livello puramente teorico, si ritiene che il massimo grado di precisione
linguistica di un determinato fatto sia raggiungibile mediante tale strategia. Essa può condurre ad
infinite elencazioni di tipo casistico e si rivela idonea a raggiungere lo scopo solo quando si
riferisce:
a oggetti della realtà sensoriale di agevole identificazione;
o a concetti dotati di verificabilità empirica.
o
redazione sintetica per ovviare a questo inconveniente il legislatore ricorre a questa tecnica
ossia utilizza elementi linguistici la cui area semantica abbraccia una pluralità di concetti e casi
concreti. In quest’ambito si utilizzano frequentemente elementi normativo-giuridici e normativo-
sociali per la cui identificazione occorre rinviare ad altre branche dell’ordinamento o riferirsi al
sentore sociale di una data comunità in un certo momento storico. In questo contesto è altresì
possibile utilizzare che assolvono il compito di dettare regole relative a più classi
clausole generali
di fattispecie incriminatrici. Ad esempio, il legislatore anziché prevedere l’omicidio tentato, il furto
tentato, etc., prevede la clausola generale del “tentativo” da applicarsi in combinato disposto con
le singole norme incriminatrici. Si parla di perché rendono
clausole di incriminazione suppletiva
tipici fatti altrimenti atipici.
combinato disposto tutte le clausole generali presuppongono un collegamento con una
fattispecie di parte speciale, della quale estendono la tipicità (accessorietà delle clausole generali);
ci si domanda se ed entro quali limiti sia possibile la combinazione reciproca tra le clausole stesse:
in assenza di un’indicazione precisa da parte della legge, è l’interprete a dover valutare se il
combinato disposto plurimo sia ammissibile o meno.
Per concludere bisogna aggiungere che il principio di tassatività-determinatezza è un principio
costituzionale giustiziabile perché non soltanto vincola il legislatore ma al contempo costituisce il
fondamento per un’eventuale dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale di
quelle norme penali che siano in contrasto con esso.
PRINCIPIO DEL DIVIETO DI ANALOGIA
L’analogia è un procedimento interpretativo con cui il giudice colma le lacune di discipline presenti
nell’ordinamento giuridico. I presupposti perché l’analogia operi sono due:
1. medesima logica tra la fattispecie disciplinata e quella non disciplinata;
eadem ratio:
2. non si fa analogia rispetto alle leggi speciali.
regolarità del principio:
Sulla base di questi presupposti il giudice al fine di colmare il vuoto normativo può:
a. applicare anche all’ipotesi non disciplinata la regola che la legge già prevede per
un’altra disciplina (analogia legis)
b. ricorrere ai principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia iuris).
è evidente come il principio
divieto di applicazione analogica delle leggi penali:
dell’analogia sia in contrasto con la dimensione tassativa del principio di legalità in quanto
si presenta come il contrario logico della sufficiente determinatezza: non avrebbe infatti
senso richiedere al legislatore di impegnarsi nel creare leggi penali tassative se il giudice
potesse poi allargarne la portata. Tale divieto quindi vincola il giudice alla stretta
osservanza delle norme penali tassativamente stabilite dal legislatore.
tassatività come garanzia del «favor rei» la
divieto di analogia in malam partem
ratio del divieto di analogia risiede nell’esclusione della possibilità di un’estensione delle
incriminazioni al di là dei limiti tassativamente stabiliti; allora si vieta l’analogia di norme
che prevedono incriminazioni o anche di norme che prevedono per il reo un trattamento di
sfavore.
L’analogia pone due ulteriori problemi:
differenza tra interpretazione estensiva e analogia: mentre l’analogia presuppone l’assenza
- di disciplina di un determinato fatto, l’interpretazione estensiva parte dall’opposta
premessa che un certo comportamento sia penalmente tipico proprio in quanto rientrante
nell’area semantica delimitata dalla legge; la difficoltà di distinguere le due tecniche, ha
condotto parte della dottrina a postulare che in materia penale esista un obbligo di stretta
interpretazione per proteggere la purezza della legge.
possibilità o meno dell’analogia nei confronti di leggi di favore (analogia in bonam partem):
- da un lato l’apertura a tale eventualità metterebbe a repentaglio le più elementari esigenze
di uguaglianza e di certezza nell’applicazione della legge penale; dall’altro lato si avrebbe
invece un argomento di ordine logico e infatti dato che non è ammessa l’analogia rispetto a
norme eccezionali, questa di conseguenza non potrebbe essere mai applicata alle
disposizioni penali che contengono cause di giustificazione, le quali per l’appunto fanno
eccezione alla regola della normale punibilità. Comunque anche la dottrina che riconosce
come valido il ricorso all’analogia in bonam partem, sottolinea la necessità che l’interprete
rimanga rigorosamente ancorato al presupposto dell’eadem ratio.
Principio di sussidiarietà o extrema ratio la ratio del principio di tassatività, in senso ampio, va
individuata principalmente nell’esigenza di tutela della libertà della persona: l’intervento penale è
ammissibile solo se necessario e l’utilizzo della pena si giustifica solo se strettamente previsto dalla
legge. Tale principio ha una duplice accezione:
stretta necessità: il ricorso alla pena è giustificato solamente quando tutti gli altri strumenti
giuridici si rivelano inadeguati alla salvaguardia della pacifica convivenza;
idoneità funzionale: l’intervento penale si deve rivelare conforme allo scopo per garantire
le condizioni essenziali della coesistenza sociale.
Il principio di cui si parla viene considerato perlopiù un e quindi non
principio di indirizzo politico
dimostrativo proprio perché la valutazione circa l’adeguatezza dell’intervento penale è rimessa
non già alla Corte costituzionale ma al Parlamento.
Principio di frammentarietà connesso alla sussidiarietà è il carattere della frammentarietà,
secondo cui il diritto penale è un diritto per sua natura lacunoso poiché garantisce solo gli interessi
fondamentali della coscienza sociale ed incrimina solo specifiche modalità di aggressione ad essi.
Insomma la tutela penale è, per definizione, frammentaria, in quanto le fattispecie incriminatrici
sono normalmente strutturate in modo tale che dal loro spazio semantico restino fuori tutte
quelle condotte che non devono assurgere ad illecito penale ma, al limite, integrano una forma di
illiceità diversa (civile o amministrativa).
PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÁ «NULLUM CRIMEN, NULLA POENA SINE LEGE PRAEVIA»
Il principio di irretroattività è sancito sia dall’art. 2,1 c.p. sia dall’art. 25,2 Cost.
La collocazione sistematica della irretroattività all’interno dell’art. 25,2 lascia intendere che esso,
insieme ai principi di riserva di legge e tassatività, costituisce a pieno il principio di legalità.
art. 2,1 «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato». In tale articolo viene disciplinata la successione di leggi penali in
senso ampio ma soprattutto è da notare come la previsione contenuta nel codice penale risulti,
per certi aspetti, più nitida di quanto non lo sia quella costituzionale: essa non solo esprime il
principio di irretroattività ma altresì pone implicitamente un divieto di ultrattività delle norme
penali che, una volta abrogate, non potranno più applicarsi ai fatti commessi dopo la cessazione
della loro vigenza.
art. 2,2 «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali». In questo
comma si disciplina l’ipotesi della c.d. il caso è quello in cui un fatto di reato
abolitio criminis:
venga commesso durante il tempo di vigenza di una norma incriminatrice successivamente
abrogata. Gli effetti sono dunque radicali perché da un lato, l’abrogazione di un reato comporta
assoluzione piena per l’imputato mentre dall’altro, secondo la previsione della seconda parte del
comma, se vi è già stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La ratio di tale
principio risiede nell’esigenza di uguaglianza tra i cittadini dacché se un fatto si ritiene non più
socialmente pericoloso, non v’è ragione per cui esso debba trovare applicazione a soggetti che
hanno posto in essere quel fatto. Occorre mantenere ben distinte l’abolitio legis dall’abolitio
criminis: la prima impone che la norma, dal momento dell’abrogazione, non si applica più ai fatti
futuri; la seconda invece non consiste nell’abrogazione di una legge ma nell’emanazione di una
legge abrogatrice che abolisce l’illiceità di un fatto.
art. 2,3 (introdotto dalla l. 24 febbraio 2006, n.85) « Se vi è stata condanna a pena detentiva e
la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si
converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135». Si
introduce una vera e propria nel caso
iperretroattività della legge penale meramente modificativa
in cui la pena detentiva originariamente prevista per il reato sia stata sostituita con la pena
pecuniaria: in questi casi la pena detentiva inflitta con sentenza di condanna irrevocabile deve
essere convertita all’istante nella corrispondente pena pecuniaria.
art. 2,4 «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile». Questo comma disciplina il fenomeno della successione di leggi penali in senso
stretto nonché il principio di retroattività della legge più favorevole al reo.
SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI IN SENSO STRETTO
Si possono distinguere due ipotesi generali:
• successione di legge temporalmente si ha successione quando il legislatore
posteriore:
anziché limitarsi ad abrogare una norma penale, ne modifichi la disciplina;
• successione di legge temporalmente quando il legislatore pur abrogando la legge
coeva:
penale che punisce un determinato fatto illecito, fa ricadere la punibilità del fatto in
un’altra norma incriminatrice di portata generale.
CRITERI DI DELIMITAZIONE TRA ABOLITIO CRIMINIS E SUCCESSIONE DI LEGGI IN SENSO STRETTO
a) t e o r i a d e l l
a c
o n
t i n
u i t à d e l t i
p o d i i l l e c
i
t o: la legge posteriore va considerata solo
modificativa, quindi si ha successione di leggi in senso stretto quando il reato che essa
prevede ha un nucleo essenziale (dato dall’identità del bene giuridico) identico a quello
previsto dalla legge anteriore;
b) t e o r i a d e l l
a c
o n
t i n
e n
z a: si basa sul dato formale della relazione strutturale tra fattispecie in
successione poiché le norme penali applicabili al caso realizzerebbero un effettivo
fenomeno di successione di leggi, solo quando fra di esse sussista uno specifico rapporto
strutturale, vale a dire:
se le due fattispecie a confronto stanno in relazione di omogeneità, si avrà
- successione di leggi;
se stanno in relazione di disomogeneità, si dovrà assumere l’abolitio criminis.
-
c
r i t e r i o d i s
p e c
i a l i
t à: deve realizzarsi un rapporto di continenza, per il quale la norma
successiva, in quanto speciale rispetto alla legge che originariamente disciplinava il fatto,
risulti perfettamente contenuta in quest’ultima (c.d. piena continenza).
La dottrina estende il concetto di continenza anche ai casi in cui speciale sia la legge
anteriore e generale quella successiva: nell’ipotesi in cui una legge sostituisca una
fattispecie di reato con un’altra diversa, speciale rispetto a quella previa.
c) t e o r i a d
e l f a t
t o c
o n c
r e
t
o: non si deve operare un raffronto tra fattispecie astratte ma
piuttosto occorre verificare se il fatto storico assuma o meno rilievo penale tanto per la
legge antecedente, quanto per la legge successiva;
t e o r i a f
o r m a l e o r a d i c
a l
e: in ogni caso di successione di una legge più speciale rispetto a
d) una generale si ha sempre abolitio criminis totale rispetto ai fatti pregressi.
Si ha dunque abrogazione totale per il limite imposto dal principio di irretroattività.
Per concludere si può affermare che:
si avrà rispetto a quei fatti che, per via della previsione degli elementi
abolitio criminis
o specializzanti, non sono più punibili (discontinuità nell’illecito);
si avrà invece con riguardo a quei fatti che restano
successione di leggi in senso stretto
o punibili in quanto rispetto a essi anche nella nuova disciplina il legislatore conferma il
giudizio di disvalore penale (continuità nell’illecito).
È da notare che l’unico limite a questo comma è il passaggio in giudicato che impedisce la
riapertura del processo.
PRINCIPIO DI RETROATTIVITÀ DELLA LEGGE PIÙ FAVOREVOLE AL REO
Per legge più favorevole al reo, si intende in primo luogo il concetto di legge mite ma allo stesso
modo vi rientrano tutti quegli elementi che sono in grado di incidere sulla posizione processuale
dell’imputato (es: le condizioni di procedibilità, le circostanze, etc..).
L’individuazione pratica della legge più favorevole al reo può comportare alcune difficoltà. Due
sono i criteri che si contengono il campo infatti alcuni ritengono che la comparazione tra i
contenuti delle leggi debba avvenire in astratto, altri ritengono che debba invece avvenire in
concreto. La teoria giusta si rivela essere quest’ultima in quanto l’individuazione della legge più
favorevole al reo deve avvenire tenendo conto di tutti gli elementi del caso.
Il legislatore penale fa spesso ricorso, nella costruzione delle fattispecie incriminatrici, alla tecnica
del rinvio ad altre fonti, sia di rango legislativo sia di livello subordinato: inserendo nelle fattispecie
stesse degli elementi normativi oppure edificando delle norme penali in bianco; in tali casi si
realizza la c.d. Si ponga l’esempio del delitto
modificazione mediata della fattispecie incriminatrice.
di calunnia: se il fatto venisse qualificato dalla legge come reato solo dopo la sua ingiusta
attribuzione ad una persona innocente, non v’è dubbio che l’autore del fatto, sulla base del
principio di irretroattività, non potrebbe essere punito. Pertanto le modifiche mediate appaiono
meritevoli di sottostare alle regole sancite dall’art. 2 sulla irretroattività e sulla successione.
art. 2,5 «Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei
capoversi precedenti». Non si applicano dunque le disposizioni relative all’abolitio criminis e alla
successione di leggi penali.
• emanate per far fronte ad eventi straordinari e pertanto vigenti
leggi eccezionali:
solamente per il tempo in cui perdura la particolare situazione che ne ha motivato
l’emanazione;
• sono definite tali proprio perché lo stesso legislatore determina
leggi temporanee:
espressamente la durata della loro vigenza.
Appare evidente che se si applicassero i dettati dei commi precedenti a queste ipotesi risulterebbe
assai facile infrangere la legge e rimanere impuniti allorché, cessati gli effetti, si applicasse la
disciplina dell’abolitio criminis o delle successioni delle leggi penali. Ciò nonostante la disciplina
sembra lacunosa in quanto non è sicuro se l’eccezione riguardi anche il caso in cui la legge
eccezionale o temporanea introduca una disposizione più favorevole.
art. 2,6 «Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata
ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti».
Tale disciplina è stata oggetto di parziale incostituzionalità da parte della Corte costituzionale
tant’è vero che ai sensi dell’art. 77 Cost. il decreto-legge se non convertito in legge entro sessanta
giorni decade con effetti ex tunc, ossia dall’inizio producendo nondimeno effetti giuridici rilevanti
prima di perdere efficacia.
Chi avesse posto in essere un fatto di reato nel breve tempo di vigenza del decreto, si troverebbe a
fare i conti con l’applicazione retroattiva della legge penale. Da qui la necessità di distinguere tra
fatti pregressi e fatti concomitanti al decreto:
fatti pregressi: sono quelli commessi prima della sua emanazione e a questi non potrà
o riferirsi l’abrogazione o la modificazione in senso più favorevole apportata dal decreto non
convertito (es: se Tizio commette un fatto previsto come reato che però viene
depenalizzato con l’intervento di un decreto legge, qualora questo non venga convertito,
Tizio risponderà del fatto di reato secondo quanto previsto dalla precedente disciplina);
fatti concomitanti: sono quelli commessi nel breve tempo di vigenza del decreto legge.
o Sembra, anche in questo caso, che comunque si debba dare prevalenza all’irrinunciabile
principio di irretroattività.
decreto-legge convertito con emendamenti: se la legge di conversione con emendamenti
prevede un trattamento penale più severo per il reo, a questi, per il principio del favor rei,
dovrà essere applicata la disciplina più benevola prevista dal decreto-legge nella versione
originaria.
Dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale «Le norme dichiarate incostituzionali
non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».
In questo caso la legge penale perde efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. Bisogna però vedere se la perdita di efficacia è ex nunc oppure ex tunc.
ci si troverebbe in presenza di una successione di leggi e potrebbe trovare dunque
ex nunc:
applicazione l’art. 2,4;
la legge dichiarata incostituzionale dovrebbe essere considerata come mai
ex tunc:
introdotta nell’ordinamento giuridico. Questa soluzione è la maggiormente avvalorata.
Tempus commisi delicti solo una volta che al reato sia data un’esatta collocazione cronologica
sarà possibile stabilire qual è la legge che ad esso risulta applicabile. Questa questione può
presentarsi decisamente problematica: si pensi all’ipotesi in cui l’evento delittuoso si realizzi dopo
lungo tempo dal momento della condotta e, frattanto, si siano operate delle modifiche nella
disciplina del fatto di reato. Il quesito è risolvibile prendendo in considerazione o il momento della
condotta o quello dell’evento a seconda dei punti di vista; in proposito ci sono delle teorie:
è al momento della condotta che il fatto materialmente realizzato
teoria della condotta:
risulta psicologicamente attribuibile al soggetto;
ipotesi di reato permanente: la condotta antigiuridica e lesiva perdura nel tempo
per volontà dell’agente e in tal caso la giurisprudenza è propensa a ritenere che
debba comunque applicarsi la fattispecie incriminatrice entrata in vigore dopo (art.
630 = sequestro di persona a scopo di estorsione)
ipotesi di reato continuato: in mancanza di un’espressa disciplina legislativa, va
considerato come reato unico dunque dovrà effettuarsi un’autonoma valutazione
del tempo di commissione del reato
comporta l’individuazione della legge applicabile in un tempo successivo
teoria dell’evento:
a quello della condotta conducendo però ad una sostanziale violazione del principio di
irretroattività;
Per concludere diciamo che il principio di irretroattività è un principio dimostrativo assiomatico
o
nonché, a livello teleologico, ha la funzione di stabilire i limiti dell’intervento
principio cornice:
penale. Esso è anche un perché ha un valore fisso, stabilizzato dall’assunzione a
principio definito
regola di rango costituzionale. Capitolo VI — Personalità
art. 27,1 Cost. «La responsabilità penale è personale».
Questo articolo sancisce il principio di personalità secondo cui la responsabilità penale deve
essere necessariamente personale.
Il principio ha un duplice accezione:
significato minimo: il termine “personale” è da intendersi come sinonimo di “individuale”;
l’articolo definisce il o
principio di responsabilità per fatto proprio divieto di responsabilità
quindi la responsabilità penale non può riguardare soggetti diversi
per fatto altrui
dall’autore del fatto;
significato evolutivo: il termine “personale” è equivalente di “colpevole”; l’articolo
stabilisce il o
principio di colpevolezza divieto di responsabilità oggettiva.
PRINCIPIO DI RESPONSABILITÁ PER FATTO PROPRIO «NULLUM CRIMEN SINE PECULIARI OFFICIO»
Il principio di responsabilità individuale in negativo proibisce:
a. di incriminare Tizio per il fatto commesso da Caio (responsabilità per fatto altrui);
b. di punire il gruppo, la famiglia, il ceto, il partito politico, la razza per il fatto commesso da
suo appartenente o simpatizzante (responsabilità collettiva);
c. di chiamare a rispondere penalmente un soggetto per la sola ragione di assumere un certo
ruolo e non per ciò che ha compiuto: ad esempio per il fatto di essere posto al vertice di
un’azienda ecc. (responsabilità di posizione);
d. di far rispondere un soggetto comunque per accadimenti a lui del tutto estranei
(responsabilità per il caso).
La questione insita in tale principio è stabilire chi debba rispondere di quel certo fatto di reato
ossia si tratta di definire la la risposta in molti casi non è chiara e
relazione tra autore e fatto;
dunque la selezione dei soggetti responsabili di fronte a fenomeni del genere può essere
complessa. La è l’elemento che concretizza il carattere
relazione personale tra fatto e reo
individuale della responsabilità: perché del fatto oggetto di reato risponda un certo soggetto, è
necessario che sia a lui ascrivibile. Al centro della problematica della responsabilità personale sta
dunque l’imputazione ossia l’insieme dei criteri che permettono di ascrivere correttamente il fatto
all’agente. Il dettato costituzionale non offre alcuna indicazione sui criteri di imputazione del fatto
al soggetto, tuttavia sono state suggerite diverse soluzioni:
assimilazione del principio con la necessità del nesso causale tra condotta ed evento: in
sostanza tutti gli accadimenti riconducibili alla condotta posta in essere da un soggetto
sulla scorta di un nesso causale sono a lui ascrivibili. Tale impostazione, pur maggioritaria
non può dirsi esente da critiche, ed in particolare per il fatto che essa tenderebbe ad
includere soggetti che sono del tutto estranei al fatto;
dominabilità: secondo cui il principio richiederebbe il dominio personale da parte
dell’agente sul fatto, perché questo sia ad esso attribuibile. Tuttavia il dominio non basta,
infatti è necessario che il soggetto agente abbia anche il dovere giuridico di impedire
l’evento;
responsabilità per i rischi prodotti: teoria che ritiene che un soggetto sia responsabile per
l’aver messo a rischio un bene giuridicamente tutelato. Occorre infatti che il soggetto abbia
un dovere giuridico di impedire l’evento.
Al fine di comprendere meglio questi criteri di imputazione, bisogna chiedersi che portata abbia
l’art. 27,1 Cost. rispetto alla responsabilità penale. In base alla disposizione dell’articolo, si
riconosce al principio di responsabilità personale la valenza di fondamento della responsabilità
penale, suo presupposto imprescindibile: la responsabilità penale può essere soltanto personale
(principio a valenza positiva). Se invece si concepisse il suddetto principio come meramente
delimitativo (vd. principio di legalità) si implicherebbe l’idea dell’intervento penale come una
prerogativa esclusiva del sovrano, rimessa al suo arbitrio, rispetto alla quale il principio
costituzionale fissa dei limiti invalicabili che circoscrivono l’intervento stesso (principio a valenza
negativa). Sulla scia del principio a valenza positiva, la struttura della responsabilità penale è la
Il principio di personalità è:
personalità.
a) o vincola il legislatore e l’interprete e costituisce
principio dimostrativo assiomatico:
presupposto di declaratoria di illegittimità da parte della Corte costituzionale;
b) o non circoscrive solamente l’intervento penale ma
principio fondante strutturante:
sancisce quale modello di responsabilità penale è ammesso dalla Costituzione;
c) le regole, anche non positive,
principio che può essere realizzato da diversi criteri:
richiamabili a sua implementazione devono assicurarne la vigenza al massimo livello
possibile.
Se la responsabilità penale deve essere personale, allora la norma giuridica su cui si edifica la
responsabilità deve radicarsi sulla persona del reo, deve essere intesa quindi come norma
personale poiché considerare responsabile un soggetto significa in primis riconoscerlo nella sua
sfera di diritto come persona.
Norma costitutiva dello “status” di soggetto di diritto la norma riconosce in capo a ciascun
soggetto un prisma di posizioni – libertà, diritti, facoltà, potestà, oneri, doveri – che
complessivamente compongono lo status; tale tipo di norma va identificata con quel particolare
tipo di regole dirette a stabilire le forme sotto cui un comportamento assume senso.
Si può asserire che il fondamento della responsabilità sia il riconoscimento del soggetto come
portatore di uno status: la norma li riconosce come parti dell’assetto statale, quasi fossero
un’istituzione decentrata. La responsabilità è proprio l’effetto di tale riconoscimento quindi i
consociati rispondono delle loro azioni per essere considerati dall’ordinamento alla stregua di sue
istituzioni: il reo, in qualità di istituzione responsabile, è chiamato a rispondere della gestione della
propria sfera di libertà. La connotazione pubblica della responsabilità penale risiede proprio nella
dimensione pubblica dello status riconosciuto al soggetto.
Di tutte le posizioni che formano lo status, ai fini della responsabilità penale rilevano in special
modo i di corretta gestione della propria sfera di libertà nel senso che il soggetto di
doveri giuridici
diritto può essere chiamato a rispondere soltanto per quelle lesioni che derivano dalla violazione
di un suo dovere giuridico attinente al proprio status. Inoltre la competenza individua il limite
entro il quale ciascun soggetto di diritto può essere chiamato a rispondere.
Accanto allo status generale di cittadino, l’ordinamento prevede alcuni status speciali che
assegnano al titolare specifiche competenze istituzionali (status speciale è quello che hanno i
genitori nei confronti dei figli). Chi è titolare di tali competenze è gravato di doveri giuridici positivi,
i quali sono obblighi di prestazione positiva di salvaguardia della sfera altrui. Inoltre caratteristica
degli obblighi giuridici derivanti da status speciali è quella di essere rigidi, personali ed
intrasferibili.
In questi termini la responsabilità è personale, se e in quanto ciascuno risponda solamente delle
violazioni di quei doveri giuridici che attengono allo status (generale o speciale) a lui riconosciuto
dalla Costituzione: i doveri giuridici sono fondamento della responsabilità.
Si è suggerito di qualificare il dovere giuridico, tanto generale quanto speciale, con il termine
officium iuris, dunque possiamo concludere enunciando la formula « NULLUM CRIMEN SINE PECULARI
» (nessuna responsabilità senza un dovere giuridico proprio).
OFFICIO
PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA «NULLUM CRIMEN SINE CULPA»
Nel suo significato evolutivo il principio di personalità della responsabilità penale va inteso come
principio di colpevolezza e dunque come divieto di responsabilità oggettiva.
La tesi del rilievo costituzionale di questo principio si è affermata solo in tempi relativamente
recenti in seguito a due sentenze della Corte costituzionale. Sussiste un collegamento sistematico
tra il primo e il terzo comma dell’art. 27 Cost. ossia sul nesso inscindibile tra colpevolezza e
teleologismo rieducativo: il fatto deve essere addebitabile all’agente almeno per colpa, altrimenti
non potrebbe essere mosso alcun rimprovero, né avrebbe senso l’obiettivo di rieducare un
soggetto non colpevole. Secondo la Corte la responsabilità penale richiede il dolo o almeno la
colpa rispetto agli elementi più significativi del fatto illecito.
Il principio di colpevolezza, quale principio assiomatico e strutturante, assume una duplice
dimensione: la punibilità è legittima solo nei limiti di ciò che è almeno
dimensione delimitativa:
- prevedibile ed evitabile da parte del soggetto;
la responsabilità penale è soltanto colpevole, mentre qualsiasi forma
dimensione fondativa:
- di responsabilità estranea al modello della colpevolezza, deve ritenersi incompatibile con
quella penale.
Infine, distinguendo i due livelli del principio di personalità:
in quanto soggetto di diritto, ciascuno può essere
RESPONSABILITÀ PER FATTO PROPRIO
chiamato a rispondere soltanto di quei fatti rispetto ai quali aveva un dovere giuridico,
ossia derivanti dalla scorretta gestione della sua sfera di competenza;
il soggetto di diritto è chiamato a rispondere soltanto di quei
RESPONSABILITÀ COLPEVOLE
fatti rispetto ai quali aveva un potere di controllo, essendo da lui prevedibili ed evitabili.
In quanto competente e colpevole, il soggetto è ritenuto dall’ordinamento meritevole di pena.
Capitolo VII — Offensività
Il principio di offensività sancisce che il fatto proprio e colpevole previsto dalla legge, per integrare
gli estremi del reato, deve essere inoltre un fatto offensivo di beni giuridici essenziali per la
convivenza civile.
Per ragioni metodologiche il principio di offensività si distingue in: principio di materialità ~
neminem laedere rivisitato come principio di offesa ai terzi ~ principio di necessaria lesività.
PRINCIPIO DI MATERIALITÁ «COGITATIONIS POENAM NEMO PATITUR»
Il principio di materialità esprime il divieto di incriminazione di meri atteggiamenti interiori, in
quanto al diritto penale interessano fatti delittuosi e non atteggiamenti interiori della volontà, di
idee o stati d’animo.
Si tratta di un principio di rango costituzionale sancito per l’appunto dall’art. 25,2 Cost. nella parte
in cui afferma che nessuno può essere punito se non per un fatto commesso quindi per il diritto
penale rilevano solo fatti materiali esteriorizzati.
Esso costituisce una delle fondamentali coniugazioni del generale principio liberale di intangibilità
che impone la non ammissibilità di reati di mera opinione.
della sfera privata
PRINCIPIO DI OFFESA «NEMINEM LAEDERE»
Il classico canone del “neminem laedere” rivisitato come principio di offesa ai terzi, impone che
sono punibili solo fatti offensivi che producono un’offesa ad altri individui e non semplicemente a
propri beni.
Il principio è espressione del rifiuto liberale di una concezione paternalistica dello Stato e
dell’assegnazione a esso di compiti tutori nei riguardi dei cittadini: l’intervento penale deve essere
limitato alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini contro le più gravi violazioni degli stessi.
PRINCIPIO DI OFFENSIVITÁ O NECESSARIA LESIVITÁ
«NULLUM CRIMEN, NULLA POENA SINE INIURIA»
Il principio di offensività o necessaria lesività è connesso a quello del neminem laedere – nella
misura in cui entrambi suppongono un’offesa a un interesse esterno al soggetto autore della
condotta lesiva - ma la sua portata è più dirompente e definita.
L’idea è che per concretizzare un reato, il fatto illecito tipico deve incanalarsi in un’offesa ad un
bene giuridico, non essendo punibili fatti inoffensivi.
B E N
E G I U R I D I C
O
Il bene giuridico è l’oggetto dell’offesa e quindi della tutela penale quindi per bene giuridico si
intende tutti quei beni che sono passibili di tutela penale in quanto essenziali per la convivenza e
su cui vi è un diffuso consenso sociale di necessità. Inoltre il bene, previsto dalla Costituzione, deve
consistere in un cioè in una situazione passibile di offesa da parte della condotta
bene offendibile
umana.
In base al principio di legalità il giudizio sulla sussistenza del reato dovrebbe limitarsi alla verifica
della perfetta corrispondenza tra fatto concreto e previsione astratta. Tuttavia ci si è chiesti se
questo procedimento di mera sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta sia davvero
sufficiente oppure no. Da simili preoccupazioni si mosse la dottrina che elaborò la concezione
materiale o realistica del reato, secondo cui l’illecito penale va inteso sotto due diversi profili:
conformità al modello legale (tipicità);
lesione dell’interesse tutelato (offensività).
Questa teoria si fissa su alcune tipologie di reati:
reati di pericolo presunto, di attentato, di istigazione non accolta;
- reati a dolo specifico con condotta di base neutra;
- reati ostativi e di sospetto.
-
L’obiezione che fu adottata contro la concezione realistica del reato fu quella della circolarità
dell’argomentazione secondo cui si richiede che il fatto, oltre che conforme alla fattispecie tipica,
sia anche lesivo di un bene giuridico. Tale contestazione si supera soltanto se il bene giuridico è un
dato preesistente rispetto alla norma di fattispecie che tipizza il fatto (prepositività del bene
giuridico).
Il principio di offensività ha una fondazione costituzionale infatti la concezione realistica del reato
teorizzata da Bricola assegna direttamente alla Costituzione il ruolo di fondamento per
l’individuazione dei beni giuridici oggetto di tutela e per la scelta delle tecniche di attuazione.
Secondo Bricola, il principio di offensività costituisce fondamento e non mero limite del diritto
penale. Analizziamo i due profili che si desumono dal testo costituzionale:
beni giuridici penalmente rilevanti: sono da considerare costituzionalmente illegittime le
norme incriminatrici che tutelano un interesse non previsto dalla Costituzione dunque
possono essere oggetto di tutela penale solo beni di rilevanza costituzionale garantiti dal
Costituzione stessa; sono passibili di tutela penale anche i appunto
beni c.d. presupposti,
beni che costituiscono presupposto necessario per la tutela di altri beni di rilevanza
costituzionale. La principale obiezione addotta dai critici alla teoria bricoliana è che la
stessa peccherebbe di eccessiva staticità: un sistema chiuso e gerarchizzato di beni giuridici
è destinato a diventare in breve tempo inadatto alle mutevoli esigenze della società. In
realtà però la concezione di Bricola sembra tutt’altro che rigida in quanto oltre ai beni
espliciti ed impliciti si fanno rientrare anche quelli presupposti. Rimane comunque il
problema della divisione dei poteri ed in particolare il fatto che le prerogative del
Parlamento, organo sovrano, risulterebbero pregiudicate dalla fissità dei possibili oggetti e
tecniche di tutela.
tecniche di tutela ammissibili: la scelta della tecnica di tutela più adatta spetta al
Parlamento al quale la Costituzione offre direttrici vincolanti anche rispetto alla quantità e
alla qualità della tutela penale.
Il principio di offensività pur essendo un principio giustiziabile non è mai stato utilizzato dalla Corte
come parametro autonomo per dichiarare l’illegittimità di una norma penale, ma solo come
riflesso del principio di ragionevolezza e proporzione. Occorre che la scelta legislativa rispetto al
bene sia razionalmente controllabile e argomentabile.
Al modello classico del diritto penale orientato sulla tutela dei bei giuridici si contrappone quello
funzionale edificato sulla tutela di norme. Per norma si intende non un comando bensì
un’aspettativa di comportamento che una volta violata (commettendo un reato), apre un processo
di comunicazione che consiste in un’affermazione contraria all’aspettativa normativa che solo con
la pena può venire riaffermata; la pena conferma la fiducia nella vigenza della norma. Al di fuori
del sistema comunicativo e dunque del diritto penale del cittadino, emerge il diritto penale del
quel particolare diritto volto alla radicale esclusione della qualità di soggetto in capo al reo
nemico,
rappresentato come un cancro da estirpare, estraneo alla comunicazione.
Capitolo VIII — Laicità
La parola laicità denota la rivendicazione, da parte di un individuo o di una entità collettiva,
dell'autonomia decisionale rispetto a ogni condizionamento ideologico, morale o religioso altrui.
Per laicità all’interno del diritto penale si intende da un lato, laicità come autonomia da valori
morali e religiosi, e dall’altro, laicità come mondanità, in quanto il diritto penale è orientato a
finalità concrete di prevenzione e non al perseguimento di ideali di giustizia assoluta.
Contrapposta all’idea della laicità è quella del che invece di tutelare il cittadino nella
paternalismo
sua sfera di libertà, lo favorisce come un amico, fa scelte in sua vece come avviene per un
incapace. La laicità è un carattere desumibile dai principi della Costituzione, in particolare dal
principio di uguaglianza e dai principi di libertà tra cui si richiamano in primis quello della libertà
religiosa (art. 19) e della manifestazione del pensiero (art. 21). Ma la laicità è desumibile anche da
altri principi del diritto penale come quello della funzione rieducativa, quello di materialità, quello
di offensività, il principio di legalità, etc.
Tra i vari settori in cui l’idea di laicità è più pregnante, ne prendiamo in considerazione quattro:
offesa del sentimento religioso altrui: premesso che vige l’obbligo civico di rispettare
l’altrui senso del sacro tuttavia si pone il problema di garantire la libertà di manifestazione
del pensiero e pertanto si ritiene in linea di principio che è ammesso un dissenso;
conflitto tra libertà religiosa e diritti individuali: qualora l’esercizio della libertà religiosa
pregiudichi terze persone il conflitto viene risolto con la limitazione della libertà stessa;
ambiti giuridici a caratterizzazione etica: il diritto in quanto laico non può pronunciarsi in
modo assoluto su valori etici come quello della sessualità o della procreazione dunque non
verrà mai abolito in assoluto, ad esempio, l’aborto ma vi si pongono dei limiti in via
legislativa;
riflessi della laicità sulla struttura del rimprovero penale: lo stesso principio di materialità
detta che il rimprovero penale non si esplica nei confronti di meri atteggiamenti interiori,
in quanto questi ultimi non interessano all’ordinamento giuridico.
lesività sociale il reato, a differenza del peccato, è una condotta che danneggia qualcun altro e
inoltre il diritto penale si occupa di fatti tipici e concreti, non bada ad atteggiamenti interiori per
cui reato come fatto e non come volontà malvagia.
Il concetto di laicità conforme al dettato costituzionale è dunque un concetto di garanzia e
implementazione del maggior numero possibile di interessi. Di fronte all’esigenza di assumere
delle decisioni, laica è la tutela solidaristica dei più deboli: garantire cioè il massimo di salvaguardia
a quei soggetti che per ragioni di debolezza, fragilità, non sono capaci di autotutelarsi.
l’idea della laicità è data anche dalla vocazione antipaternalistica
Visione antipaternalistica
legata intimamente al principio del riconoscimento dei consociati come liberi. La dialettica
democratica riconosce in capo a ciascun cittadino la libertà di porsi in contrapposizione con i valori
dominanti.
Oggi una particolare sfaccettatura del moderno Stato di diritto dovrebbe essere quella della
salvaguardia degli individui e della società dall’invadenza dello ossia dalle
strapotere tecnocratico
pretese della scienza, del mercato etc. Si ritiene che sia compito di un diritto laico proteggere i
cittadini dai nuovi rischi emergenti dal dispotismo delle tecniche.
Infine sembra corretto parlare della laicità come carattere del diritto penale e non come di un
principio autonomo. IL REATO
Capitolo IX — Nozioni generali
Una definizione formale incentrata sulla figura della pena definisce il reato, in primo luogo, come
un fatto umano a cui la legge ricollega una sanzione penale. Tuttavia solo una definizione
sostanziale di reato è in grado di mettere in luce i requisiti fondanti dell’illiceità di un fatto.
Diverse sono state nel tempo le definizioni sostanziali elaborate dalla dottrina allo scopo di
individuare l’elemento comune a tutti gli illeciti penali: dalle più antiche di matrice
giusnaturalistica alle più recenti di stampo funzionali stico basate sulla dannosità sociale.
Oggi si è affermata una definizione sostanziale costituzionalmente orientata secondo cui è reato
ogni fatto umano che lede o mette in pericolo un bene giuridico di rilevanza costituzionale.
In questa prospettiva i principi di legalità, tassatività, offensività e personalità segnano i confini
entro i quali selezionare i fatti penalmente rilevanti.
C’è da dire che la concezione formale, offre comunque la possibilità di distinguere il reato dalle
altre forme di illecito, in quanto delinea l’afflittività come criterio principale della sanzione. Ci sono
due tipologie di illecito diverse da quello penale:
illecito civile: si caratterizza per la previsione di una sanzione di tipo risarcitorio, inoltre non
sono contemplati i principi di riserva di legge, irretroattività e tassatività;
illecito amministrativo: previsione di sola sanzione pecuniaria, carattere amministrativo del
procedimento, specifico organo competente a giudicare e infliggere la sanzione, tutela
interessi di tipo pubblicistico, non prevede una piena applicazione dei principi di legalità e
colpevolezza.
Il reato si divide in due categorie: delitti e contravvenzioni. Ai sensi dell’art. 17, sono conseguenze
sanzionatorie per i delitti l’ergastolo, la reclusione e la multa mentre invece sono conseguenze
sanzionatorie per le contravvenzioni l’arresto e l’ammenda.
La distinzione tra delitti e contravvenzioni rileva anche ai fini del diverso regime di applicazione di
alcuni istituti, in particolare dell’elemento (nelle contravvenzioni si risponde
soggettivo
indifferentemente a titolo di dolo o colpa) e del tentativo (nelle contravvenzioni non è applicato).
Il reato si distingue in diverse tipologie:
e sono detti comuni i reati che sono realizzabili da chiunque
reati comuni reati propri:
(omicidio); sono detti propri i reati che sono realizzabili solo da determinati soggetti in base
a determinate qualifiche o posizioni che riveste (l’aborto richiede lo stato di gravidanza
della donna). e nel caso dei reati di evento la fattispecie
reati di evento reati di mera condotta:
incriminatrice prevede la realizzazione di un evento esteriore conseguenza causale della
condotta del soggetto e possono essere reati di evento a forma libera oppure a forma
vincolata (in questi ultimi il legislatore specifica le modalità di produzione dell’evento); i
reati di mera condotta invece si caratterizzano per l’assenza di un evento lesivo
riconducibile alla condotta (attiva o omissiva).
e qualora la condotta posta in essere dall’autore del reato
reati commissivi reati omissivi:
consiste in una condotta attiva si parla di reati commissivi; qualora invece consista in una
omissione si parla di reati omissivi che si distinguono in: reati omissivi propri (quando il
comportamento omesso è imposto da una norma) e reati omissivi impropri (quando
l’azione omessa era doverosa al fine di impedire un evento).
e sono istantanei i reati nei quali la realizzazione del fatto
reati istantanei reati permanenti:
tipico concretizza allo stesso tempo il reato e l’offesa (omicidio); sono permanenti i reati in
cui l’effetto lesivo del bene giuridico permane nel tempo (sequestro di persona).
sono abituali quei reati che si caratterizzano per la reiterazione nel tempo di
reati abituali:
più condotte omogenee (sfruttamento della prostituzione).
Per quanto concerne il grado di anticipazione dell’offesa al bene giuridico, si distinguono due
categorie di reati:
• reati di danno nei quali la lesione effettiva del bene giuridico comporta la distruzione, la
perdita o la compressione di esso;
• reati di pericolo nei quali invece è sufficiente la messa in pericolo del bene giuridico
protetto. Tra i reati di pericolo si distinguono quelli di:
pericolo concreto in cui il legislatore ha cura di menzionare, tra i requisiti del fatto di
o reato, il verificarsi di un pericolo concretamente accertato;
pericolo astratto quando l’oggetto della tutela è rappresentato da un interessa la
o cui concreta messa in pericolo viene presunta nel realizzarsi della condotta
descritta.
In dottrina il discorso è stato parecchio dibattuto dal momento che in un primo momento la
configurazione dei reati di pericolo astratto portava a punire l’autore non già per il
comportamento ma per la semplice disobbedienza. L’opzione del legislatore per la tecnica del
pericolo concreto può essere dovuta all’esigenza di evitare di ricondurre alla fattispecie di pericolo
astratto accadimenti concreti assolutamente non pericolosi.
Occorre aggiungere che mentre nelle fattispecie di pericolo astratto il nesso con il relativo bene
giuridico è sempre diretto, nei reati di pericolo concreto la situazione è più articolata perché il
pericolo può riferirsi sia alla lesione del bene giuridico tutelato (pericolo concreto diretto) sia ad
un evento intermedio collegato a sua volta con il bene giuridico.
Il vero problema si pone nel momento in cui bisogna selezionare e descrivere le situazioni elevate
a fattispecie di pericolo astratto. L’astrazione legislativa deve incentrarsi su contesti fattuali nei
quali per esperienza risiedono fonti tipiche di danno. In assenza di un richiamo di una situazione di
rischio fondata su una ragionevole base scientifica la norma incriminatrice contrasta col principio
costituzionale di uguaglianza-ragionevolezza; per questi reati si dimostra appropriata la definizione
di proprio facendo leva sul rilievo che il fatto punibile può risultare inoffensivo.
pericolo presunto, Capitolo X — Analisi e sistematica del reato
L’analisi del reato in senso moderno nasce a partire dal XIX secolo con l’elaborazione sistematica di
Franz Von Liszt. L’analisi del reato conosce due metodologie che di solito vanno di pari passo:
metodo deduttivo o analitico: intende risolvere i casi particolari attraverso l’utilizzo diretto
- della premessa generale, ossia la norma; inoltre presuppone che l’ordinamento giuridico
sia un sistema completo, capace di prevedere e disciplinare tutto;
metodo topico o ermeneutico: ricerca le soluzioni dei casi a partire dal particolare, a
- contatto con i casi concreti oggetto della prassi applicativa; si prende atto delle lacune
insite al sistema giuridico che rendono necessaria un’interpretazione non solo formale del
dato normativo.
Lo studio dei fenomeni giuridico-penali segue uno schema di analisi-sintesi:
• analisi: consiste nell’esame dei presupposti di diritto sostanziale della punibilità, tratti dalle
singole fattispecie criminose;
• sintesi: corrisponde alla costruzione di categorie generali, comuni in tutto o in parte ai
reati, a partire dall’esame dei loro caratteri analoghi e delle loro differenze.
esigenza di garantire equità ed omogeneità nell’applicazione del diritto penale sulla base
Ratio
del principio di uguaglianza; riconvertire le obiezioni in segno positivo, come incremento
ermeneutico del principio; controllo della razionalità non solo rispetto al sistema ma, prima
ancora, rispetto ai principi costituzionali.
La tradizione di matrice tedesca è quella che forse ha più fortemente espresso le istanze di
razionalità e scientificità sottese alla sistematica del reato; nello sviluppo della dogmatica
penalistica si sono succedute varie linee di pensiero che hanno contribuito alla ricostruzione del
sistema penale nelle sue componenti:
a) – von Listz, Beling, Radbruch il reato, in senso naturalistico viene
TEORIA CLASSICA
concepito come azione tipica, antigiuridica e colpevole. Si radicava in due grandi motivi
ispiratori:
istanze liberali dello Stato di diritto: idea di adottare come elementi del reato
soltanto oggetti empiricamente verificabili ed accertabili in giudizio;
positivismo scientifico: pretesa di adottare questo modello come metodologia di
analisi anche delle scienze giuridiche, assumendo solo i fatti descrivibili in termini
propri delle scienze naturali.
I gradini della piramide sistematica sono:
movimento corporeo guidato dalla volontà;
azione: stabilisce una corrispondenza tra l’oggetto di giudizio e un fatto previsto e
tipicità:
descritto nei suoi connotati da una norma incriminatrice;
discende da un giudizio di illiceità, è indiziata alla tipicità dell’azione
antigiuridicità:
e tale indizio di fatto può essere smentito solo dalla presenza di una clausola di
giustificazione quindi antigiuridicità come giudizio puramente formale di
contraddizione della legge
relazione psicologica tra il fatto e l’agente.
colpevolezza:
b) – Mezger l’azione, in senso valorativo, rimane sempre al centro del
TEORIA NEOCLASSICA
sistema e viene intesa come agire umano; l’antigiuridicità viene ancorata alla lesione dei
beni giuridici; la è vista in senso normativo come giudizio di rimproverabilità
colpevolezza
per l’azione che non doveva essere tenuta.
c) – Welzel si concepisce l’agire umano come rispondente a
TEORIA DEL FINALISMO
determinate strutture radicate nella natura delle cose. L’azione è orientata a determinate
finalità infatti è proprio quest’ultima che costituisce l’illecito. In questa teoria non c’è solo
una rilettura in chiave valorativa della teoria del reato ma anche un tentativo di
rifondazione in chiave personalistica del diritto penale.
d) – Jakobs alla base del sistema vi sono le stesse intese
norme
TEORIA FUNZIONALE NORMATIVA
come aspettative che caratterizzano l’identità di una società: il reato è espressione di senso
contraria a tali aspettative, lesione simbolica della vigenza della norma; la competenza
dipende dal assunto dal soggetto nel contesto sociale: questo genera attese
ruolo
comportamentali negli altri consociati e correlativamente l’infrazione del ruolo comporta
responsabilità. Il sistema della responsabilità è modellato su due tipi fondamentali di ruoli:
ruolo comune di cittadino: obbligo di comportarsi come persona inserita in
un’organizzazione regolata dal diritto e quindi di organizzare la propria vita in modo
da non mettere a repentaglio quella degli altri consociati;
ruolo speciale: espressione di determinate istituzioni (famiglia, matrimonio etc.),
comporta l’obbligo di gestire e implementare un ambito parziale della società.
Nel nostro paese si sono alternati due modelli teorici di scomposizione analitica del reato: la
bipartizione e la tripartizione.
Secondo la teoria bipartita distingue tra:
elemento oggettivo: comprende tutto ciò che di oggettivo si trova nella descrizione legale;
elemento soggettivo: comprende il collegamento psichico tra fatto e autore.
La concezione tripartita, invece, distingue:
tipicità: complesso degli elementi oggettivi descritti dalle singole norme incriminatrici;
- antigiuridicità: contrarietà del fatto all’intero ordinamento giuridico;
- colpevolezza: insieme dei contrassegni di carattere psicologico che rendono possibile il
- rimprovero penale.
In tempi recenti, è stata aggiunta una sistematica quadripartita del reato in cui agli elementi
tradizionali della tripartizione si inserisce quello della punibilità.
Oggettivismo la bipartizione è un modello che ha sicuramente il pregio della immediata
comprensibilità infatti il reato si può descrivere come la causazione di una lesione a un bene
giuridico su cui si innesta la colpevolezza; inoltre questo sistema offre l’accertamento per gradi:
occorre fornire prima la prova dell’elemento oggettivo. Tuttavia il dogma bidimensionale nel
tempo si è prestato a varie critiche. Ci si è resi conto che il modello della tradizione classica
peccava proprio nel suo presupposto fondamentale: causazione di una lesione a un bene giuridico.
Il problema di base è la polisemia: tanto il termine “oggettivo” quanto quello “soggettivo”
assumono significati molteplici e variabili in funzione del contesto in cui vengono utilizzati.
Oggi la cultura penalistica italiana si è principalmente caratterizzata per una concezione
vale a dire che l’illecito penale va concepito come offesa di un bene
oggettivistica del reato,
giuridico, non come manifestazione di volontà interiore. Infine per comprendere a pieno il lascito
dell’oggettivismo nella teoria del reato è necessario affermare che la pena va intesa come
reazione proporzionata a fatti materiali offensivi di beni giuridici.
Capitolo XI — Attori del conflitto: autore e vittima del reato
Il reato è un fatto umano che può segnare profondamente i percorsi esistenziali dei soggetti
coinvolti, siano essi autori o vittime.
S
O
G G E T T O A T T I V O O A U T O
R E D E L R E A T O
Soggetto attivo o autore del reato è chi pone in essere il fatto tipico. Pressoché tutte le
disposizioni del codice sono ritagliate sul modello dell’autore individuale sulla scorta di una visione
antropocentrica del diritto penale.
Nella maggioranza dei casi, perché sia configurato il reato, la legge non richiede al soggetto attivo
alcun requisito o qualità particolare: è pertanto autore potenziale del fatto di reato (reati
chiunque
comuni). In altri casi invece la norma incriminatrice richiede particolari requisiti o particolari
qualità in capo ad un soggetto perché possa configurarsi un reato (reati propri).
Il più delle volte, per capire se ci si trova dinanzi ad un reato comune o un reato proprio, sarà
sufficiente una fugace lettura della norma incriminatrice però non è sempre così facile. In alcuni
casi benché la norma appaia riferibile a chiunque, in realtà si rivolge a soggetti che sono titolari di
qualifiche particolari implicite all’interno della norma (es: nel reato di bigamia vige a qualifica
implicita della presenza di un primo matrimonio avente effetti civili).
S
O
G G E T T O P A S
S
I V O O V I T T I M A D E L R E A
T O
Soggetto passivo o vittima del reato è il titolare del bene giuridico tutelato. Nell’omicidio, il
soggetto passivo è l’uomo del quale si cagiona la morte. Il codice per designare questo soggetto
usa il termine di da cui si distingue la figura del danneggiato che è colui che subisce
persona offesa,
il danno e che eventualmente si costituisce parte civile nel processo penale. Talvolta la persona
offesa e il danneggiato possono coincidere come ad esempio nel reato di lesioni personali, altre
volte no come avviene ad esempio nel reato di omicidio dove la parte offesa è l’uomo che perde la
vita e i soggetti danneggiati sono i suoi familiari.
È importante discernere i:
• reati a soggetto passivo indeterminato: il soggetto passivo del reato è una pluralità
indifferenziata di persone;
• reati plurioffensivi: soggetto passivo è una pluralità determinata di soggetti;
• reati ostativi: reati senza vittima la cui incriminazione è volta a prevenire la commissione di
un futuro comportamento offensivo (es: detenzione illegale di armi da fuoco).
Oggetto materiale dal soggetto passivo del reato si distingue l’oggetto materiale che è il
referente immediato della condotta tipica; può trattarsi di una qualunque cosa – mobile, come nel
furto e nell’appropriazione indebita, oppure anche immobile, come nel danneggiamento – o di una
cosa determinata, ad esempio un documento nei reati di falso – o ancora di una persona umana,
come nell’omicidio, dove oggetto materiale e soggetto passivo coincidono.
PERSONE GIURIDICHE E DIRITTO PENALE
La figura, il contesto e il comportamento del soggetto passivo può talvolta incidere sulle
conseguenze sanzionatorie del reato. Secondo una concezione che per più di due secoli ha regnato
nella cultura penale europea, solo l’uomo può delinquere poiché, in base al brocardo “societas
le persone giuridiche sarebbero sprovviste della capacità di commettere
delinquere non potest”,
reati.
Tuttavia sul versante della politica criminale si è avvertito, da diversi decenni, come questo
principio sia oltre che ingiusto anche inefficace. Nell’attuale realtà socio-economica, molti fatti
penalmente rilevanti, appaiono riconducibili a scelte di politica d’impresa compiute nell’interesse
esclusivo della società.
Le ragioni che per lungo tempo hanno portato all’esclusione della responsabilità degli enti, si
rinvengono nel fatto che essi sono incapaci di azione ed incapaci di colpevolezza. Queste obiezioni
sono comunque superabili. Per quanto concerne l’incapacità di azione si replica considerando che
la persona giuridica agisce per il tramite delle condotte dei propri organi. Più consistente appare il
problema della incapacità di colpevolezza. Le vie perseguite allo scopo di superare l’ostacolo sono
due: la prima è stata quella di fare ricorso nei confronti delle persone giuridiche all’applicazione
delle misure di sicurezza che si fondano sulla pericolosità oggettiva della societas riconducibile alla
sua organizzazione. La seconda via è quella di affrontare il problema sul piano del diritto
sanzionatorio amministrativo. È per questa via che si è arrivato a teorizzare un’inedita
responsabilità di organizzazione.
d.lgs. n.231/2001 ha sancito la definitiva messa al bando del principio “societas delinquere
non potest”. Gli enti sono ora chiamati a rispondere, dinanzi al giudice penale, dei reati commessi
nel loro interesse o a loro vantaggio. Si tratta di una responsabilità diretta e autonoma e quindi
solo eventualmente concorrente con quella dell’autore materiale del reato presupposto.
I meccanismi sanzionatori applicabili agli enti sono:
sanzioni pecuniarie;
sanzioni interdittive, sospensive o di divieto;
pubblicazione della sentenza di condanna.
art. 2: «l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua
responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono
espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto».
La legge delimita la sfera dei possibili autori individuali dei reati per i quali è prevista la
responsabilità degli enti (c.d. reati presupposto): persone che rivestono funzioni di
rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente. Il reato dovrà inoltre essere realizzato
nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso; l’unico criterio rilevante è quello dell’interesse, inteso
come finalizzazione oggettiva della condotta, mentre il vantaggio costituisce una sorta di variabile
casuale.
Nell’ipotesi di reato commesso da soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, la
responsabilità dell’ente è invece subordinata alla condizione che il reato sia stato reso possibile
dall’inosservanza degli obblighi di direzione o di vigilanza.
Ciò che fonda e giustifica la responsabilità della persona giuridica è una colpevolezza di
organizzazione e cioè la rimproverabilità per non aver adottato misure organizzative adeguate,
volte alla neutralizzazione del rischio di reato.
TIPICITÁ DEL REATO
Capitolo XII — Dimensione oggettiva della tipicità
Il fatto tipico è costituito dall’insieme degli elementi che devono necessariamente sussistere
perché si dia illecito penale.
Gli elementi che compongono il fatto tipico si caratterizzano sotto tre profili:
sono previsti in via legislativa, conformemente al principio di tassatività-determinatezza;
sono oggetto di accertamento giudiziale;
rientrano nell’oggetto del dolo.
Il complesso di tali elementi compone la fattispecie.
Si distingue una componente oggettiva ed una soggettiva della tipicità:
riguarda i contrassegni descrittivi del fatto, ossia la realizzazione
componente oggettiva:
materiale di esso, vale a dire quegli elementi che sono empiricamente verificabili;
prende in considerazione le componenti soggettive che
componente soggettiva:
caratterizzano il fatto ossia l’elemento psicologico.
In realtà, la tipicità è disegnata dalle norme che danno un significato illecito a un determinato
fenomeno; tali norme non si limitano a prevedere qualcosa in senso descrittivo ma sanciscono
un’aspettativa dell’ordinamento. Secondo questa prospettiva, la tipicità è l’insieme degli elementi
penalmente rilevanti di tale complessa aspettativa. Essa si può dividere in due dimensioni:
dimensione generale: indica che l’ordinamento stabilisce uno standard generale di
o comportamento cui il cittadino deve attenersi;
dimensione individuale: lo standard generale nel giudizio di responsabilità potrà essere
o adeguato a certe caratteristiche e prerogative individuali del singolo cittadino imputato.
Coscienza e volontà della condotta in via generale, per la punibilità, il codice penale richiede
che l’azione o l’omissione prevista dalla legge come reato sia stata commessa con coscienza e
volontà (art. 42 ). La categoria della condotta, in tempi passati considerata fulcro
dell’incriminazione, viene oggi tendenzialmente svalutata dall’interpretazione dominante. Il
motivo risiede nel fatto che il diritto penale non si preoccupa delle condotte umane, ma di chi
debba rispondere e di che cosa.
L’art. 42 richiede, dunque, come presupposto imprescindibile per l’incriminazione di un qualsiasi
fatto illecito la coscienza e volontà (o per i fatti di reato tanto dolosi quanto colposi.
suitas)
Una condotta si dice priva della suitas quando consiste in un mero movimento corporeo o in
un’inerzia non dominati dall’agente. Il codice prevede in particolare due figure di esclusione della
coscienza e volontà: forza maggiore (art. 45) e costringimento fisico (art. 46).
Si distinguono i reati di evento da quelli di mera condotta. Nei primi, la fattispecie astratta
specifica un determinato risultato della condotta che viene posto dalla legge in relazione causale
con la condotta. Nei secondi, invece, manca tale elemento e quindi manca l’indicazione di un
qualsivoglia nesso causale.
L’evento sta dunque a contrassegnare un accadimento della realtà esterna riconducibile
causalmente alla condotta di un soggetto (evento in senso naturalistico), che può consistere in un
evento di danno o in un evento di pericolo. Dunque, l’esistenza di un nesso causale tra
comportamento e risultato è un presupposto richiesto dall’ordinamento.
Accanto alla nozione di evento in senso naturalistico, si accosta quella dell’evento in senso
giuridico dove l’evento consisterebbe nella effettiva lesione o semplice esposizione al pericolo del
bene o interesse protetto.
Nel fatto tipico si sottolinea anche la presenza di presupposti necessari implicitamente previsti dal
legislatore, come lo stato di gravidanza nel reato di aborto o la vita nel reato di omicidio.
Come si è detto, l’oggetto materiale del reato è l’elemento – persona o cosa – su cui viene
compiuto l’illecito. Anche l’oggetto materiale concorre a specificare il fatto tipico quale suo
elemento. Occorre mantenere pertanto distinti concettualmente:
del reato;
oggetto materiale
- vale a dire l’interesse oggetto di tutela da parte dell’ordinamento;
oggetto giuridico,
- soggetto passivo.
- Capitolo XIII — Causalità
Concetto di causalità.
L’art. 27,1 Cost. sancisce il principio di personalità che nel suo significato minimo di responsabilità
per fatto proprio può essere effettivamente esperito soltanto quando venga correttamente
individuato il soggetto responsabile dell’illecito.
Si tratta di stabilire chi debba considerarsi “causa” del reato.
Un fatto di reato ad evento naturalistico può essere imputato a un soggetto quando l’evento
stesso sia collegato da nesso causale alla condotta da lui posta. In realtà, però, due considerazioni
sembrano smentire tale assunto:
in primo luogo ciascuno di noi, con i più svariati comportamenti quotidiani, contribuisce in
qualche modo alla realizzazione di accadimenti che possono essere illeciti;
inoltre non sempre è richiesto un rapporto causale per l’incriminazione di un
comportamento.
Nonostante ciò, il codice penale sancisce comunque l’esigenza di accertare un nesso causale
rispetto a tutti i reati materiali.
art. 40 «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento
dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione». Si richiede espressamente la sussistenza di un rapporto di causalità tra evento lesivo e
condotta per la punibilità del reato. La causalità ha dunque una duplice funzione:
i. definizione della tipicità, specialmente nei reati a forma
criterio di descrizione del fatto:
libera o causali in cui la causalità è l’elemento costitutivo della fattispecie di reato;
ii. garanzia dell’effettivo rispetto del principio di
criterio di ascrizione dell’evento all’autore:
responsabilità per fatto proprio, stabilisce se l’evento lesivo possa essere considerato
opera dell’uomo.
’ – von Buri modello di spiegazione causale che si afferma alla metà del
TEORIA DELL EQUIVALENZA
XIX secolo, secondo cui è causa l’insieme di tutte le condotte, positive o negative, naturali o
umane, senza eccezione alcuna. Tale concezione è stata largamente diffusa finanche ad essere
codificata nel nostro sistema giuridico (art. 41,1). Ben presto però, si rilevarono le conseguenze
inique di tale teoria: in particolare quella di dover considerare come cause ai fini della
responsabilità penale anche le più remote.
“ ” il primo correttivo fu quello della condicio sine qua non e
TEORIA DELLA CONDICIO SINE QUA NON
del procedimento dell’eliminazione mentale: si immagina non esistente la condotta di cui si deve
provare la causalità e ci si domanda se senza l’azione l’evento si sarebbe verificato (negazione del
oppure non si sarebbe verificato (affermazione Si tratta di un
nesso causale), del nesso causale).
giudizio controfattuale infatti si ipotizza ciò che nella realtà non è stato per trarne conseguenze
sulla realtà stessa (1° caso – se non ci fosse stato A, che in realtà è stato, non ci sarebbe stata la
conseguenza B…conclusione: A è stata condicio sine qua non di B; 2° caso – la conseguenza B ci
sarebbe stata ugualmente…conclusione: A non è stata condicio sine qua non di B).
La specificità di questo modello è di operare un isolamento dell’azione umana dalle altre
condizioni necessarie dell’evento: viene assunta la condotta dell’imputato e contestualmente la si
elimina dal decorso dei fatti.
Tale procedimento ha fatto parlare di sé come di una metodologia di accertamento del nesso
causale la quale non è certo esente da critiche.
In particolare si obietta il fatto che dal procedimento di eliminazione mentale non si ricava nulla,
se non si sa già prima se l’azione è causale o no. Si può dire, operando tale tecnica, che il risultato
si sarebbe prodotto solamente quando si sappia già da prima che una determinata condotta
comporta un determinato evento. Da qui l’esigenza di fare ricorso alle leggi scientifiche.
Sussunzione sotto leggi scientifiche.
L’accertamento del nesso causale presuppone dunque una spiegazione di tipo nomologico.
Ma a tale scopo, è necessaria una ridescrizione dell’evento stesso, allo scopo di individuare la
legge che ne giustifichi la riconduzione alla condotta dell’agente. Tale ridescrizione deve consistere
in una selezione dei singoli accadimenti realmente intervenuti e delle modalità concrete,
astraendo dalle caratteristiche uniche e irripetibili per assumere solo quelle che inducano ad
asserire che senza di esse l’evento non si sarebbe verificato. L’evento prodotto deve essere
sussunto sotto leggi scientifiche di copertura. Rientrano in questa categoria:
• permettono di stabilire nella successione tra determinati accadimenti delle
leggi universali:
regolarità invariabili e senza eccezioni;
• o stabiliscono regolarità limitate a una certa percentuale di
leggi statistiche di frequenza:
casi e con una frequenza relativa.
Ragionamento “ceteris paribus” Non è sempre possibile per il giudice, una volta aver fatto
ricorso a leggi scientifiche, verificare l’intero meccanismo eziologico che ha condotto al realizzarsi
dell’evento; allora deve necessariamente ricorrere ad alcune assunzioni tacite e presupporre come
preesistenti determinate condizioni iniziali e di contorno non conosciute, sulla base delle quali,
l’utilizzo delle leggi di copertura può ritenersi corretto: si tratta di condizioni
ceteris paribus,
spazialmente contigue e temporalmente continue che rendono induttivo l’accertamento in
giudizio, fondato su un alto grado di credibilità razionale o su una probabilità prossima alla
certezza.
Se la malattia X si presenta dopo un periodo di latenza dall’esposizione al fattore di contagio
contemplato dalla legge scientifica di copertura, si deve ritenere sussistente il nesso causale anche
se non si conoscono tutti i fattori che possono essere intervenuti.
Dunque il ragionamento consiste nell’individuare tutti i possibili meccanismi causali
ceteris paribus
e accertarne che sia ragionevolmente da escludere l’interno di un diverso decorso causale.
Va sottolineata la differenza tra le leggi statistiche o di frequenza (che hanno un livello più o meno
alto di probabilità) e il ragionamento ceteris paribus. Infatti, un conto è il livello di conferma del
parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione; un altro conto è il livello di
credibilità della spiegazione dei decorsi degli accadimenti rispetto all’evidenza disponibile e alle
circostanze del caso concreto.
Il complesso meccanismo della sussunzione sotto leggi scientifiche si compone dunque di due
momenti:
procedimento deduttivo di sussunzione degli accadimenti sotto leggi di copertura;
procedimento induttivo di verifica probatoria, che deve andare oltre ogni ragionevole
dubbio. in base all’evidenza disponibile, secondo la formula “in dubio pro
Ragionevole dubbio
libertate”, rappresenta un limite garantistico alla possibilità di rimprovero penale.
Concorso di cause.
art. 41,1 «Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od
omissione e l’evento». La disposizione sancisce il ossia
principio dell’equivalenza delle condizioni
quando interagiscono processi dinamici causali autonomi, l’uno non esclude il rapporto causale tra
l’evento e ciascuno di essi. Talora può accadere che tra condotta ed evento non vi sia un
collegamento immediato e diretto ma mediato da ulteriori fattori che intervengono a determinare
il verificarsi dell’evento stesso (fattori concausali). Ciò che interessa è che, in base all’art. 41,
questi fattori concausali di per sé non interrompano il collegamento causale.
art. 41,2 «Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole
sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente
commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita». L’articolo prevede
che solo i fattori sopravvenuti siano idonei ad escludere il rapporto causale mentre le cause
concomitanti e antecedenti, anche qualora fossero da sole sufficienti a determinare l’evento,
comunque sarebbero irrilevanti. Esempio: A somministra una bevanda avvelenata a B; prima che il
veleno faccia effetto, B viene colpito da un vaso lanciato da C ma muore esclusivamente per
l’ingestione del veleno. La causa da sola sufficiente qui è costituita dall’assunzione del veleno ma
questa, avvenendo prima del colpo, non potrebbe escludere il nesso causale rispetto al secondo
fattore. Andiamo a trattare le varie interpretazioni che sono state date all’espressione “cause da
sole sufficienti”:
serie causali assolutamente autonome: con l’espressione “cause da sole sufficienti”, si fa
a. riferimento alle serie causali assolutamente autonome sopravvenute che sono capaci di
produrre per conto proprio l’evento. Esempio: A offre un veleno a B; prima che questo
faccia effetto, C spara a B uccidendolo. In questa prospettiva, si potrebbe dire che il comma
2 dell’art. 41 è in linea di coerenza con quanto consacrato all’art. 40. In contrario, si è
osservato come una simile impostazione porterebbe alla considerazione dell’art. 41,2 come
una semplice formulazione in negativo di quanto già sancito nell’art. 40;
b. cause eccezionali: una concezione che ha ottenuto particolare successo, è quella che
identifica la causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, con l’intervento
di un accadimento eccezionale e imprevedibile. Esempio: A investe B che muore durante il
trasporto in ambulanza per un incidente. Cause eccezionali, ma vere e proprie concause,
che non escludono la preesistenza di un nesso causale tra la prima condotta e l’evento. Il
concetto di “eccezionalità” presenta un carattere polivalente e in questo caso è inteso
come “eccezione a una regolarità”; fattore eccezionale nel significato quindi di anomalia
che si colloca al di fuori del paradigma nomologico della legge scientifica che descrive
appunto tale regolarità;
c. concause occasionali: ravvisa nelle cause da sole sufficienti a determinare l’evento i fattori
che operano non indipendentemente, ma congiuntamente alla condotta, quindi le serie
causali meramente occasionale che rientrano tra le concause propriamente dette.
Il modello dettato dall’art. 41,2 è inadeguato per il fatto di pretendere di risolvere sul piano della
causalità naturalistica questioni che con essa non hanno nulla a che vedere.
Abberatio: qualora una condotta attiva un certo decorso ed un secondo fatto interviene a deviare
questo decorso causale, si produce un fenomeno di aberratio. Esempio: A cagiona a B (un anziano)
una frattura alla gamba, dopo l’intervento perfettamente riuscito, il medico C omette di
prescrivere, come dovuto, di mantenere l’arto in movimento, B rimane a letto senza muoversi e
muore per un’embolia. È del tutto evidente come la condotta di A sia causale rispetto alla morte di
B, ma la dinamica è viziata dalla produzione di ulteriori fattori.
Imputazione oggettiva.
Già da tempo la migliore dottrina ha suggerito il ricorso a ulteriori criteri normativi come quelli
derivanti dalla dottrina dell’imputazione oggettiva dell’evento: essa richiede, ai fini della
responsabilità, che sussista un peculiare rapporto di rischio tra condotta e risultato.
In particolare, secondo tale modello, un soggetto è responsabile di un evento quando ha prodotto
o incrementato un rischio illecito per il bene protetto, e l’evento che si realizza, altro non è che la
concretizzazione di quel rischio. Questo schema comporta il passaggio dal piano causale-
naturalistico a quello del rischio che la condotta dell’agente porta con sé: quest’ultima non viene
più considerata sotto l’aspetto di condicio sine qua non dell’evento ma quale fonte di rischi per i
beni giuridici tutelati.
Si distinguono due prospettive di giudizio: ed
ex ante ex post.
stabilisce se la condotta di un soggetto sia tale da produrre un rischio per il bene
EX ANTE
giuridico o ad aumentare un rischio già esistente. Il giudice si pone idealmente nella
posizione dell’agente al momento della condotta. In primo luogo, occorre che il soggetto
abbia creato o aumentato un rischio illecito, precisando che, ai fini della valutazione
dell’illiceità del rischio non assume rilievo decisivo il fatto che la condotta da cui origina il
pericolo sia lecita o illecita (es: invio a svolgere una commissione il mio dipendente, che
muore investito da un auto – l’imputazione a mio carico dell’evento dannoso è comunque
esclusa) ma se il soggetto genera un rischio ordinario (o ubiquitario - è il rischio che
l’ordinamento accetta in quanto non fuoriesce dalla sfera di liceità ), non risponderà delle
conseguenze che da esso derivano. È esclusa l’imputazione delle conseguenze di rischi che
fuoriescano dal limite segnato dalla propria sfera di competenza: queste andranno
imputate ad altri soggetti oppure al caso;
ha la funzione di individuare la causa o la concausa necessaria dell’evento. Si
EX POST
tratta di una valutazione di ciò che è già accaduto. Occorre considerare l’eventualità che
diversi rischi sopravvenuti si inseriscano sul decorso attivato dal primo rischio,
soppiantandolo nella produzione del risultato lesivo. In definitiva, nell’eventualità che
l’intervento di altre condotte nello svolgimento degli accadimenti abbia innescato ulteriori
rischi estranei alla competenza del primo soggetto, e che siano proprio questi ultimi a
trovare realizzazione nell’evento, allora l’evento stesso non può essere imputato alla
condotta del primo soggetto. Ovviamente, l’essenziale è che si tratti di fattori produttivi di
rischi per i quali sia competente un soggetto diverso dal primo.
Imputatio: per differenziare l’imputazione oggettiva dalle altre questioni, si suggerisce di utilizzare
il termine “imputatio” a indicare che si imputa al soggetto solo quel fatto che può dirsi proprio ai
sensi del principio di cui all’art. 27 Cost.
Causa ad excludendum: situazione in cui l’imputazione del fatto in capo ad un soggetto è
radicalmente esclusa perché egli non è competente; è esclusa l’imputatio poiché il fatto non può
dirsi proprio e inoltre non sono ammessi ulteriori accertamenti in merito alla condotta dell’agente.
Causalità addizionale, causalità cumulativa, effetti sinergici.
Schematicamente, in presenza di concause, si possono dare, alternativamente le seguenti
costellazioni: o l’effetto è l’imputazione
interposizione mediatrice di più cause concorrenza di cause:
- congiunta dell’evento a tutte le cause quindi le relazioni tra singole dinamiche si
manifestano come reciproche deviazioni del decorso causale (es: A ferisce gravemente B;
B, in pericolo di vita dev’essere operato d’urgenza; durante l’intervento chirurgico muore
per un errore del medico C: rispondono di omicidio tanto A quanto C.);
o l’effetto è che l’imputazione è
interposizione interruttiva causa ad excludendum:
- esclusiva in capo ad una sola delle cause (es: A investe B e lo ferisce gravemente; B,
costretto a letto, muore per lo scoppio di una bombola a gas; A, pur avendo posto in essere
una condizione necessaria all’evento, risponde soltanto di lesioni gravi.).
Il concorso di cause indipendenti può dar vita ad alcuni fenomeni:
• causalità addizionale: è quella in cui diversi fattori convergono su un terzo oggetto, tanto
che l’evento risulta ascrivibile a più cause, ognuna di per sé da sola sufficiente a produrre
l’evento; tra le varie concause ci deve essere una perfetta coincidenza temporale dal punto
di vista dell’efficacia altrimenti potrebbe verificarsi il fenomeno della c.d. anticipazione
causale: se una delle due condotte avesse operato prima, solo essa risulterebbe condicio
sine qua non mentre le altre sarebbero considerate mere cause ipotetiche (es: A causa un
incendio che si congiunge con quello causato da B; l’incendio complessivo raggiunge la casa
di C distruggendola). si ha quando un soggetto produce un reato ma in modo diverso
aberratio causae:
da come si era rappresentato il decorso degli accadimenti (es: spingo la vittima nel
burrone perché si sfracelli al suono ma cadendo incontra un ramo sporgente che la
trafigge prima dell’impatto; tutto ciò incide logicamente solo sul modus causandi e
non sul causatum dal momento che il soggetto risponderà di comunque di omicidio
doloso consumato);
• causalità cumulativa: è quella in cui diversi fattori convergono nella produzione di un
evento che non si sarebbe verificato se avessero operato uno solo di essi: ciascuna
concausa è dunque inidonea singolarmente alla produzione dell’evento (es: l’impresa A ha
l’obbligo di compiere alcuni controlli di sicurezza sui prodotti che produce ma per ragioni
economiche, si rifiuta di effettuarli; il ciclo di produzione prevede comunque che vi sia un
secondo controllo da parte dell’impresa B che però, facendo affidamento sul controllo
dell’impresa A, lo omette).
• effetti sinergici: il fenomeno dello scarto tra concausa ed esito è ancora più rimarchevole in
quelle ipotesi in cui l’evento venuto a esistenza è sproporzionato non solo rispetto a
ciascuna condotta, ma anche rispetto alla stessa concatenazione di tutte le condotte; il
tratto peculiare è dato dalle dimensione macroscopiche dell’evento. Inoltre si distinguono:
effetti meramente sommativi: ad esempio, utilizzo di massa di prodotti
o nocivi per l’aria;
effetti additivi: ad esempio, la somma di tante quantità di sostanze può
o restare ampiamente al di sotto della soglia di nocività, ma può bastare
l’interazione con una sola dose di una particolare sostanza per produrre una
reazione estremamente dannosa;
effetti in senso stretto: l’effetto finale complessivo è di portata
o estremamente più elevata rispetto alla mera somma dei fattori individuali.
Capitolo XIV — Reato omissivo
All’azione, si contrappone l’omissione. Omettere significa non fare qualcosa che si doveva e si
poteva fare. L’omissione non può essere pensata se non in relazione a una determinata
aspettativa di comportamento. Può trattarsi di una mera aspettativa sociale o di una aspettativa
giuridica di rilevanza non penale oppure proprio di un’aspettativa penale. In quest’ultima ipotesi in
caso di omissione si configura il reato omissivo.
Sotto il profilo storico, si può dire che il pensiero penalistico ottocentesco guardava con diffidenza
ai reati omissivi, ai quali veniva assegnato un ruolo marginale: erano un’eccezione rispetto ai reati
commissivi. Le cose cambiano con il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, ispirato a
ideali e a valori solidaristici, in cui si assiste ad un progressivo incremento delle fattispecie
omissive.
Numerose sono le fattispecie di reato omissivo richiamate sia nella parte speciale del codice sia in
diversi ambiti di legislazione complementare: omissione di soccorso, omissione di atti d’ufficio etc.
Non esistono però soltanto reati omissivi o commissivi:
possono essere realizzati mediante una commissione o
reati a condotta alternativa:
- un’omissione (es: violazione di domicilio);
si realizzano mediante due condotte, attiva una ed omissiva l’altra
reati a condotta mista:
- (es: insolvenza fraudolenta).
La categoria dei reati omissivi si distingue in due diverse tipologie:
• reati omissivi propri: sono reati di mera condotta che consistono nel mancato compimento
di un’azione prescritta da legge (es: omissione di soccorso); queste omissioni assumono
rilevanza di per sé stesse, a prescindere dal verificarsi di un evento naturalistico, il quale
potrebbe assumere rilevanza tutt’al più come circostanza aggravante; si noti che tutti i
reati omissivi propri, tranne l’omissione di soccorso, sono al contempo reati propri.
• reati omissivi impropri: sono reati di evento e consistono nel mancato attivarsi del
soggetto per impedire che si verifichi l’illecito; con tali reati, dunque, si viola l’obbligo
giuridico di impedire il verificarsi di un evento lesivo (es: in occasione di un incidente i
genitori rimasti miracolosamente illesi, omettono di prestare soccorso al figlio che è invece
gravemente ferito). particolari ipotesi di reati omissivi impropri già
reati omissivi impropri nominati:
o codificati nelle singole norme incriminatrici (es: naufragio, sommersione,
bancarotta semplice, falsità in scrittura privata).
In dottrina il criterio di distinzione tra reati omissivi propri e impropri, fondato sulla presenza o
meno di un evento naturalistico nella struttura della fattispecie tipica, è quello tuttora
maggiormente seguito in dottrina ma non è l’unico. Qualcuno ha proposto di fare ricorso a un
criterio di tipo formale, fondato sulle diverse modalità di tipizzazione delle fattispecie
incriminatrici; stando a quest’opinione si dovrà presumere che:
reati omissivi propri: tutti i reati espressamente previsti dalle singole norme incriminatrici,
siano essi o meno reati di evento;
reati omissivi impropri: solo quei reati omissivi che, non essendo riconducibili ad
un’esplicita previsione normativa, nascerebbero dalla combinazione di determinate
fattispecie commissive con la clausola di equivalenza ex art. 40.
La fattispecie omissiva si compone di tre requisiti:
1. situazione tipica: complesso dei presupposti in presenza dei quali il soggetto obbligato
è tenuto a compiere l’azione prescritta; solo in sua presenza l’obbligo di agire
penalmente sanzionato diviene attuale
a. reati omissivi propri: essa è, almeno in parte, descritta dalla stessa norma
incriminatrice
b. reati omissivi impropri: essa si identifica con il pericolo che si verifichi l’evento
tipico che il garante comunque è tenuto ad impedire
2. mancato compimento dell’azione doverosa:
a. reati omissivi propri: talvolta l’azione da compiere è già descritta nella norma
incriminatrice e pertanto il soggetto obbligato avrà un margine di scelta
alquanto ridotto
b. reati omissivi impropri: le azioni da compiere non sono descritte dalla legge ma
il contenuto dell’azione doverosa si ricava da ciò che è necessario ai fini
dell’impedimento dell’evento
possibilità materiale di compiere l’azione: presupposto logico dell’omissione è la
3. possibilità materiale di compiere l’azione prescritta; può darsi che l’impossibilità di
agire dipenda da una situazione oggettiva preesistente oppure che sia dovuta a
menomazione o ancora che sia determinata dall’indisponibilità di strumenti ausiliari.
Causalità e omissione.
Sembrano a prima vista due fenomeni antitetici perché colui che resta inerte non incide in alcun
modo sul decorso causale che conduce al verificarsi dell’evento ma lascia piuttosto che le cose
procedano da sé, limitandosi a non intervenire.
Il codice penale nell’art. 40,1 sembra ammettere la possibilità di una relazione causale tra
l’omissione e l’evento; come vada intesa questa relazione, ce lo spiega al comma successivo: il
“cagionare” omissivo è il non impedire l’evento. La norma dunque pone in risalto proprio l’essenza
normativa della causalità nell’omissione. Sarà necessaria una duplice verifica:
si dovrà accertare la per appurare che la causa effettiva dell’evento sia
causalità reale,
- proprio quella che il soggetto avrebbe dovuto neutralizzare con il compimento dell’azione
doverosa, escludendo quindi l’intervento di fattori causali alternativi;
si dovrà verificare l’efficacia impeditiva dell’azione omessa procedendo ad una valutazione
- in termini contro fattuali; bisognerà chiedersi se l’evento si sarebbe verificato ugualmente.
Stella la ragione dell’impossibilità della prova va ricercata proprio nelle caratteristiche tipiche
della causalità omissiva: il giudice non deve ricercare informazioni su ciò che è realmente
accaduto ma informazioni su ciò che sarebbe accaduto se fosse stato realizzato il comportamento
omesso. Proprio per la natura prognostica della spiegazione causale, sarà sempre necessario fare
riferimento a leggi scientifiche universali altrimenti vi è il rischio che siano condannati degli
innocenti.
Causalità dell’omissione e obbligo giuridico di impedire l’evento sono due presupposti, diversi e
non coincidenti, della responsabilità omissiva. L’obbligo giuridico non può sostituire o assorbire in
sé un rapporto di causalità inesistente in natura; esso fonda la tipicità dell’omissione causale.
Ci si chiede, quando e nei confronti di chi vi sia l’obbligo giuridico di impedire l’evento e quali ne
siano i contenuti. In un primo tempo, la dottrina è andata alla ricerca delle possibili fonti formali
dell’obbligo e ne ha individuate tre: (obbligo dei genitori nei confronti dei figli) –
legge contratto
(baby sitter che accetta di prendersi cura di un bambino in assenza dei suoi genitori) – precedente
(si tratta piuttosto di una situazione fattuale piuttosto che una fonte formale).
attività pericolosa
T sul finire degli anni 50, si profilò una teoria nuova, tendente a privilegiare un
EORIA FUNZIONALE
approccio di tipo contenutistico-funzionale, secondo cui all’origine di quest’obbligo ci sarebbe
sempre una particolare attribuita a certi soggetti e preesistente all’insorgere
posizione di garanzia,
di una concreta situazione di pericolo per il bene protetto. Può trattarsi di:
posizione di protezione: il garante è chiamato a un compito di tutela di certi beni giuridici,
o nei confronti di tutti i pericoli ai quali sono esposti, stante l’incapacità dei rispettivi titolari
di proteggerli da sé stessi; si fondano su uno stato di minorata difesa del bene per
l’incapacità del suo titolare di proteggerlo da sé adeguatamente (vigente sui genitori nei
confronti dei figli minori, può essere temporaneamente trasferita mediante contratto -
posizione di protezione derivata - e cessa solo nel momento in cui i figli fuoriescono
definitivamente dalla sfera di protezione); va altresì considerato che vi può essere un
obbligo di assunzione volontaria di una posizione di protezione. Non è escluso, peraltro,
che la posizione di protezione possa assumersi anche unilateralmente in modo illecito:
pensiamo al sequestro di persona di un bambino cardiopatico che giornalmente deve
assumere farmaci, non vi è dubbio che i sequestratori divengono garanti della salute e della
vita del piccolo sequestrato.
posizione di controllo: egli è chiamato a un compito di controllo di determinate fonti di
o pericolo, che possono minacciare una pluralità di beni e di soggetti diversi; vanno poste in
relazione con determinate fonti di pericolo che rientrano nella sfera di dominio di certi
soggetti, i quali sono tenuti a compiere le azioni necessarie ad impedire che il pericolo si
traduca in un evento lesivo per i beni giuridici di terze persone; può trattarsi di cose mobili,
immobili oppure dello svolgimento di attività pericolose. Vi sono, inoltre, casi in cui la
posizione di controllo deriva dal fatto illecito di terze persone: ciò accade innanzi tutto
allorché queste persone siano incapaci, in toto o solo parzialmente, di agire in modo
responsabile. Anche le posizioni di controllo, al pari di quelle di protezione, potrebbero
derivare da un atto di assunzione volontaria, unilaterale o consensuale.
Responsabilità omissiva all’interno delle organizzazioni complesse.
La tematica della responsabilità omissiva e delle posizioni di garanzia assume una particolare
rilevanza in relazione all’attività di impresa, che può essere fonte di svariati pericoli per una
molteplicità di beni.
Nel contesto di un’organizzazione complessa, è possibile individuare una fitta rete di posizioni di
garanzia cui fa capo il garante primario, ossia colui che è posto al vertice dell’azienda. Tuttavia
pretendere che possa ricadere in capo ad un solo soggetto ogni omissione dell’organizzazione,
pare eccessivo; è stato così introdotto l’istituto della delega, con cui il delegante attribuisce ad
altri (i delegati), lo svolgimento di compiti specifici.
Condizioni perché sia ammessa la delega sono che l’impresa sia di notevoli dimensioni e che la
delega risponda a reali necessità organizzative dell’impresa stessa.
Per quanto riguarda la rilevanza della delega sul versante della responsabilità penale, le opinioni
non sono concordi. Sono state formulate due teorie in proposito:
si ritiene che la delega esaurisca la sua rilevanza sul piano
teoria formale-civilistica:
- soggettivo perché è un atto di autonomia privata e non potrebbe avere l’effetto di
trasferire da un soggetto (delegante) ad un altro (delegato) la titolarità dell’obbligo
penalmente sanzionato;
al delegato verrebbe trasferita la qualifica soggettiva, per cui egli
teoria funzionalistica:
- sarebbe legittimato in prima persona al compimento del reato proprio mentre non lo
sarebbe più il delegante. Capitolo XV — Dolo
Il delitto doloso rappresenta il modello fondamentale dell’illecito penale. Il concetto classico di
dolo, che esprime un legame psicologico più intenso tra il fatto e il suo autore, ha assunto un ruolo
centrale nello sviluppo della cultura della responsabilità colpevole.
art. 42,2 «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se non
l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente
preveduti dalla legge». Nei delitti il criterio ordinario di imputazione è il dolo. Quando, invece, le
disposizioni incriminatrici contemplano anche la condotta colposa e quella preterintenzionale, si
ritiene necessaria, di volta in volta, una previsione espressa; di conseguenza, se la norma
incriminatrice non indica la natura dell’elemento soggettivo richiesto, si può rispondere
esclusivamente per dolo.
art. 43,1 «Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che
è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è
dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione». Da questa
definizione si desume che la struttura del dolo contempla due requisiti soggettivi – la previsione e
la volontà dell’agente – e un requisito oggettivo – l’evento dannoso o pericoloso. L’oggetto del
dolo non abbraccia però soltanto l’evento ma tutti gli elementi del fatto che costituisce reato.
Allora la corretta definizione del dolo è la seguente: il dolo sussiste se vi è conoscenza e volontà nei
riguardi di tutti gli aspetti del fatto storico congruenti con le figure di reato descritte dalle norme
incriminatrici, insomma è rappresentazione e volontà del fatto di reato.
Struttura del dolo.
Il dolo ha una triplice struttura:
rappresentazione del soggetto agente: consiste nella conoscenza dei fattori
precedenti e concomitanti alla condotta del soggetto agente, nonché nella
previsione di quelli futuri laddove contemplati dalla fattispecie incriminatrice; la
rappresentazione dei requisiti deve essere attuale nel senso che l’elemento
intellettivo del dolo non può fondarsi su una conoscenza passata o potenziale.
elemento volitivo: per la sussistenza del dolo è necessario che il risultato della
condotta sia riconducibile al volere del soggetto agente e in questi termini il dolo
può essere definito come decisione a favore della violazione del bene giuridico;
esso non deve essere identificato col motivo o movente dell’azione ma si deve
tradurre in realizzazione almeno dello stadio del tentativo punibile, ciò significa che
i semplici desideri o speranze non sono sufficienti.
oggetto del dolo: i requisiti del fatto tipico che rilevano come oggetto del dolo sono:
i. possono costituire solo oggetto di
presupposti della condotta:
rappresentazione;
ii. è bene distinguere tra le fattispecie a forma libera o vincolata
condotta:
forma libera: oggetto sarà di regola l’ultimo degli atti necessari per
attivare il processo causale.
forma vincolata: oggetto è il comportamento descritto nella norma
(es: delitto di truffa);
iii. risultato materiale della condotta;
evento:
iv. nesso di causalità:
forma libera: il soggetto agente si deve prefigurare lo svolgimento
causale soltanto nei suoi profili essenziali
forma vincolata: le modalità di causazione sono investite dal dolo.
Forma del dolo.
Le forme che può assumere il dolo, in rapporto agli elementi della volizione e della
rappresentazione, sono molteplici ma lo schema principale è quello della tripartizione:
ricorre nelle ipotesi in cui la causazione dell’evento oppure la
DOLO INTENZIONALE
realizzazione dell’illecito, sono prese direttamente di mira dal soggetto agente. È
evidente la rilevante accentuazione del momento volitivo e di conseguenza il ruolo
residuale che svolge la componente conoscitiva; ciò implica che questo tipo di dolo
si configura anche quando l’autore considera come soltanto possibile la
verificazione del fatto tipico (es: Tizio punta una pistola a Caio e spara uccidendolo).
ricorre quando l’agente conosce come certi gli elementi del fatto
DOLO DIRETTO
tipico e prevede come sicuro, o altamente probabile, che il suo comportamento
realizzerà la fattispecie incriminatrice. La componente cognitiva assume un ruolo
rilevante difatti l’offesa non può ritenersi voluta ma soltanto perché considerata
necessariamente connessa al risultato che il reo aveva di mira (es: il terrorista
sequestra un uomo politico prevedendo come sicura l’uccisione degli uomini della
sua scorta). o secondo il c.d. criterio dell’accettazione del rischio, il
DOLO EVENTUALE INDIRETTO
soggetto agente non persegue direttamente l’evento lesivo ma si rappresenta la
possibilità concreta della realizzazione del fatto e ne accetta il rischio (es: Tizio
colloca un ordigno esplosivo in una piazza allo scopo di provocare panico, pur
prevedendo la possibilità che l’esplosione possa ferire un passante).
Sono state elaborate alcune teorie in relazione al concetto di dolo eventuale:
pone l’accento sull’elemento rappresentativo, negando la necessità
teoria della probabilità:
della presenza di un requisito volitivo; secondo tale concezione, si configura dolo eventuale
quando l’agente considera l’evento come conseguenza probabile della condotta.
si ritiene che la punibilità a titolo di dolo eventuale sia già motivata
teoria della possibilità:
dalla semplice rappresentazione della possibilità dell’avverarsi dell’evento.
si integra l’elemento volitivo del dolo
teoria dell’approvazione o del consenso dell’evento:
eventuale in relazione alla conseguenza lesiva prevista qualora quest’ultima sia stata
approvata (“approvazione” intesa come rifiuto emozionale dell’evento); in assenza di
questa adesione interiore, si configura una colpa cosciente.
il dolo eventuale si configura quando si può affermare che il soggetto
formula di Frank:
avrebbe agito ugualmente anche se gli fosse risultato certo il verificarsi dell’evento lesivo.
ciò dipende particolarmente dal progressivo
Crisi del criterio dell’accettazione del rischio
diffondersi in questo periodo storico di condotte pericolose che il soggetto compie nonostante
l’effettiva percezione dei rischi. Allora è giunto il momento di riconoscere al dolo eventuale una
struttura più complessa che si articola in diversi gradini:
• versante oggettivo: si parla di rischio (non consentito) doloso quando la prospettiva di
correre siffatto rischio può essere percepita e valutata dal soggetto;
• versante soggettivo: l’individuazione del rischio (non consentito) doloso è una condizione
necessaria ma non sufficiente per l’applicazione del dolo eventuale; tale figura si articola in
vari livelli:
elemento cognitivo: si deve accertare una rappresentazione effettiva da parte del
o reo del concreto esito offensivo
elemento volitivo: si deve trattare di accettazione non soltanto del rischio bensì del
o fatto dell’evento di danno.
A questo punto è possibile formulare la definizione corretta di “si ha dolo
dolo eventuale:
eventuale allorquando l’agente si rappresenta concretamente la realizzazione del fatto tipico
come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la verificazione. Il rischio di
realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non
può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa in possesso delle sue
conoscenze e capacità”.
Sono classificabili ulteriori tipologie di dolo:
è un’altra forma di dolo indiretto e ricorre nei casi in cui il soggetto
dolo alternativo:
- prevede, come conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale) della
sua condotta il verificarsi di due eventi ma non sa quale si realizzerà in concreto (es:
Tizio spara, sapendo di avere in canna un solo proiettile, con l’obiettivo di uccidere
Caio o Sempronio che si stanno dirigendo verso di lui);
ricorre quando il soggetto agisce volendo, alternativamente o
dolo indeterminato:
- cumulativamente, due o più risultati non incompatibili (es: Tizio spara su una folla
volendo cagionare la morte di Caio o di Sempronio oppure entrambi gli eventi);
corrisponde alla nozione tipica di dolo, ossia rappresentazione e
dolo generico:
- volontà del fatto di reato;
consiste in una finalità particolare, prevista espressamente dalla
dolo specifico:
- norma e ulteriore rispetto agli accadimenti del fatto tipico; il soggetto deve agire
per raggiungere tale fine ma non necessariamente deve realizzarlo perché il delitto
si integri (es: il delitto di furto che si configura per il fine di trarre profitto da parte
del soggetto agente);
si realizza quando il soggetto si è rappresentato e ha voluto la lesione
dolo di danno:
- del bene protetto;
si configura quando il soggetto ha voluto soltanto l’esposizione al
dolo di pericolo:
- pericolo del bene giuridico protetto;
si riscontra solo all’inizio dell’esecuzione
dolo iniziale:
- si riscontra durante lo svolgimento del processo causale da cui
dolo concomitante:
- deriva l’evento; il dolo si manifesta dopo il compimento della condotta;
dolo successivo:
- quando la decisione di realizzare la condotta è improvvisa;
dolo d’impeto:
- quando tra la decisione criminosa e la sua attuazione intercorre
dolo di proposito:
- un certo lasso di tempo;
viene in considerazione nelle ipotesi in cui il soggetto ritiene
dolus generalis:
- erroneamente di aver commesso il reato che voleva realizzare ma questo in realtà si
verifica per effetto di una condotta successiva, volta ad occultare il fatto
precedente (es: Tizio crede di aver ucciso, anziché soltanto tramortito, Caio, che
muore solo in seguito, quando Tizio lo sotterra per nascondere il corpo); Il dolo
generale, oltre ad essere una pratica non accolta, non va confuso con l’abberatio
cause, ove la condotta è unica con un decorso causale diverso da quello
rappresentato.
Intensità e accertamento del dolo.
Il dolo è un concetto graduabile (art. 133 ), il cui giudizio di intensità dipende, in primo luogo, dalla
pregnanza della componente cognitiva e di quella volitiva. Così, sul piano dell’elemento
intellettivo, l’intensità maggiore sarà raggiunta dal dolo diretto, dove il soggetto si rappresenta in
termini di certezza gli elementi del fatto di reato. In relazione al momento volitivo, la misura più
elevata di intensità va ravvisata nella forma del dolo intenzionale e in quella del dolo di proposito,
dove risulta decisiva la durata del processo di deliberazione.
Al fine di provare la sussistenza del dolo, l’interprete necessita di indici certi che verifichino
l’esistenza dell’elemento psicologico – componente rappresentativa e volitiva – senza dover
ricorrere a presunzioni che danno origine al fenomeno del “dolus in re ipsa”.
Inoltre il dolo, va accertato, mediante delle componenti oggettive e soggettive. Ad esempio
nell’omicidio doloso si accertano: elementi soggettivi (movente, indole del reato, abilità, rapporti
con la vittima, etc.); elementi oggettivi (modalità dell’aggressione, violenza utilizzata,
comportamento del reo, etc.). Capitolo XVI — Colpa
La colpa viene intesa quale criterio involontario di imputazione dell’illecito e forma meno grave di
colpevolezza. Nel differente ruolo svolto dalla colpa quale elemento soggettivo sta una delle più
importanti disuguaglianze di disciplina tra delitti e contravvenzioni:
la colpa è considerata un criterio soltanto eccezionale di responsabilità penale, a
delitti:
- fronte del dolo che è invece il criterio ordinario;
la forma di imputazione del fatto può essere indifferentemente costituita
contravvenzioni:
- dal dolo o dalla colpa.
In base all’art. 42,2 si risponde di colpa solo se la legge lo prevede. L’eccezionalità della colpa va
intesa nel senso che nei reati più gravi, cioè nei delitti, si risponde a titolo di colpa soltanto in
presenza di una previsione legislativa espressa. Così, ad esempio, per l’omicidio oltre alla
fattispecie dolosa, vi sarà un’apposita disciplina sia per l’omicidio colposo che per quello
preterintenzionale. Si noti che la regola della previsione espressa della responsabilità a titolo di
colpa costituisce il risvolto sul piano del principio di legalità – tipicità – frammentarietà del diritto
penale oltre che dell’esigenza della extrema ratio. Secondo un orientamento dottrinale, la
previsione “espressa” non sarebbe da intendere come necessariamente anche “esplicita” infatti la
rilevanza della colpa può risultare implicitamente dalla particolare struttura della figura criminosa.
Può ormai dirsi superato il dibattito sulla natura psicologica o normativa della colpa infatti,
secondo la comune opinione il reato colposo consiste nella realizzazione di un fatto, compiuta
involontariamente e con inosservanza di regole di comportamento aventi valore preventivo,
qualora il fatto fosse prevedibile ed evitabile mediante l’osservanza personalmente esigibile di tali
regole. Si assegna così rilievo all’aspetto della violazione delle norme a contenuto cautelare
(concezione normativa della colpa). Tuttavia rimane non del tutto chiarito l’aspetto
dell’atteggiamento psicologico, il quale pare riconducibile alla non volontà del fatto colposo.
art. 43,3 «Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non
è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline».
Tale definizione è incompleta poiché è formulata prendendo in considerazione soltanto la
tipologia più notevole di reato colposo ossia il delitto con evento naturalistico, trascurando,
perciò, i reati di mera condotta. Per quanto riguarda la collocazione sistematica della colpa, ad
essa va assegnata una doppia funzione: sul piano del fatto tipico la si qualifica per la violazione di
una regola cautelare da parte del soggetto (misura sul piano della colpevolezza è
oggettiva);
necessario verificare la possibilità di muovere un rimprovero al soggetto per la realizzazione del
fatto colposo (misura In tal senso si parla di doppia misura della colpa.
soggettiva).
La colpa è caratterizzata da due presupposti necessari:
assenza di volontà del fatto: è il primo requisito differenziale per segnare il confine col
dolo; a tale proposito, si dice spesso che la colpa sia l’esatto simmetrico negativo del dolo
stesso, come realizzazione involontaria del fatto (colpa Affinché si
come “non dolo”).
configuri la colpa occorre verificare la mancanza di tale coefficiente psicologico in ordine ad
almeno un elemento costitutivo del fatto di reato.
C (artt. 47-55-59) la colpa può coesistere con la volontà, intesa in senso
OLPA IMPROPRIA
naturalistico, solo nei casi di colpa impropria poiché in questa ipotesi il soggetto vuole che il fatto
illecito si realizzi ma finisce per assegnare allo stesso, per un errore colposo di rappresentazione,
un significato differente da quello reale. Analizziamo i tre casi principali:
a) art. 47 – errore sul fatto: il soggetto non si rappresenta o non si rappresenta
correttamente, un elemento costitutivo (es: Tizio, durante una battuta di caccia, spara in
direzione di Caio, la cui sagoma, intravista tra la fitta vegetazione, aveva colposamente
scambiato per quella di un animale);
b) art. 55 – eccesso colposo: il soggetto ritiene, per un errore di rappresentazione, che la sua
condotta rimanga entro i limiti della scriminante (dell’impunibilità) (es: Tizio, nel difendersi
a mani nude dall’attacco di Caio, credendo per un errore di valutazione che lo stesso sia
armato, lo uccide a colpi di pistola, pur potendolo neutralizzare diversamente);
c) art. 59 – errore sulle cause di giustificazione: il soggetto ritiene colposamente di agire in
una situazione scriminante in realtà inesistente (es: Tizio, credendo per errore di essere
aggredito mortalmente da Caio, reagisce in maniera precipitosa uccidendolo).
In tutte le ipotesi di colpa impropria manca comunque la volontà del fatto tipico realizzato ed il
soggetto non è punibile per dolo dato che la volontà non copre almeno uno degli elementi
costitutivi quindi il fatto si realizza per un errore colposo di rappresentazione.
coefficiente intellettivo: la realizzazione colposa di un fatto è compatibile tanto con
l’incoscienza della condotta quanto con la dell’evento e comprende, tra questi
previsione
due estremi, ipotesi intermedie individuabili a seconda della struttura della fattispecie;
solitamente ci si limita a distinguere tra e
colpa incosciente colpa cosciente.
[probabile domanda d’esame: differenza tra colpa cosciente e dolo eventuale]
Molte sono le possibili classificazione all’interno della colpa, tanto da aver indotto alcuni a
dubitare del concetto unitario di colpa. Si può parlare di:
colpa iuris: casi di ignoranza evitabile e perciò inescusabile del precetto legislativo;
colpa in contesto di base illecito: violazione di una regola cautelare riscontrabile in
comportamenti di per sé leciti ma illeciti nelle modalità di svolgimento
colpa generica - colpa specifica - colpa lieve - colpa grave.
Fatto tipico colposo.
In tutte le forme di imputazione è richiesta la coscienza e volontà della condotta (art. 42,1).
Essa si considera penalmente rilevante anche quando risulta potenzialmente dominabile dalla
volontà del soggetto; inoltre nel concetto di condotta devono farsi rientrare solo dei
comportamenti umani penalmente rilevanti:
nei reati dolosi sono i comportamenti costituiti da un coefficiente psicologico reale o
- effettivo;
nei reati colposi la condotta cosciente e volontaria si palese talora come requisito
- psicologico effettivo, talora come un requisito di carattere normativo (casi di colpa
incosciente).
Secondo la concezione normativa della colpa, una condotta umana cosciente e volontaria è
considerata colposa quando consiste nella trasgressione di una regola cautelare, tuttavia tale
requisito è necessario ma non sufficiente. Il reato colposo può edificarsi proprio a partire dalla
ossia dalla trasgressione di una regola di cautela
violazione di un dovere oggettivo di diligenza
rilevante come doverosa per il soggetto in quella situazione concreta.
Ciò nonostante è ancora un momento del tutto impersonale quindi non definitivo ai fini
dell’affermazione della responsabilità colposa. Tutto ciò per varie ragioni:
• ogni singolo reato colposo deriva la sua stessa conformazione dal rapporto intercorrente
tra la violazione della diligenza doverosa e la realizzazione degli elementi richiesti dalla
singola norma incriminatrice;
• la collocazione sistematica della violazione della diligenza a livello impersonale si spiega
proprio per il carattere necessariamente impersonale delle regole cautelari (es: soggetto
non imputabile);
• enucleando una misura oggettiva di diligenza, si pretende un livello minimo irrinunciabile di
attenzione da parte dei consociati, con il risultato di rafforzare i beni giuridici.
Per meglio comprendere il ruolo decisivo che svolge il dovere oggettivo di diligenza, è opportuno
soffermarsi sulle tipologie di regole che ne costituiscono il contenuto; a seconda della regola
violata si distinguono i casi di colpa generica (per violazione di una regola di diligenza, imprudenza
o imperizia) e i casi di colpa specifica (per violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline).
: le regole generiche di diligenza, prudenza o perizia sono regole di condotta
COLPA GENERICA
o che rappresentano, nei diversi contesti sociali, la cristallizzazione di giudizi ripetuti nel
tempo circa la riconoscibilità dei rischi e la evitabilità delle prevedibili conseguenze
dannose. Ne consegue che l’accertamento della tipicità colposa consisterà in un giudizio di
riconoscibilità del rischio e di evitabilità dell’evento (criteri effettuato al
del giudizio)
momento della realizzazione della condotta (momento in base al parametro
del giudizio)
oggettivo dell’agente-modello coscienzioso e avveduto (metro che funge da
del giudizio)
standard oggettivo di tale dovere (es: buon padre di famiglia). Sicché si riterrà tipica la
violazione della diligenza, prudenza o perizia che era possibile richiedere all’agente-
modello. Ad esempio, la misura oggettiva di perizia richiesta al medico dipenderà dal tipo
di specializzazione coinvolta, perciò risulta pensabile una differenziazione tra il medico
generico e lo specialista: se il medico generico, al di fuori di situazioni di necessità, effettua
un intervento che va al di là delle sue conoscenze sarà giudicato col metro del medico
specialista (c.d. del rischio connesso al ruolo che il soggetto ha scelto
colpa per assunzione
di impersonare). Il giudizio di colpa è un giudizio ex ante e in concreto; ciò significa che per
stabilire la misura oggettiva di riconoscibilità-prevedibilità si devono prendere in
considerazione le conoscenze proprie dell’agente-modello di riferimento con l’aggiunta
delle eventuali ulteriori conoscenze superiori di cui è dotato l’agente concreto (il soggetto
in carne ed ossa). In proposito, una parte della dottrina opera una distinzione tra superiori
conoscenze causali e speciali capacità del soggetto, stabilendo che soltanto le prime sono
rilevanti ai fini di un innalzamento della misura oggettiva della diligenza, della prudenza e
della perizia richieste. Tutto ciò si giustifica perché la misura del dovere di diligenza è sì
impersonale e relativa a una figura modello di agente ma, trattandosi pur sempre di un
giudizio in concreto, deve essere per forza calata nella situazione dell’agente concreto.
La soluzione contraria che ritiene si debba comunque operare in ipotesi di conoscenze o
capacità superiori, un innalzamento della misura di diligenza, è motivata dalla
considerazione che altrimenti si verrebbero a configurare categorie privilegiate di soggetti
proprio per le loro doti particolari. Inoltre il problema dei limiti si pone anche per le ridotte
capacità del singolo (es: automobilista neopatentato, medico inesperto etc.): situazioni
simili potranno rilevare in sede di accertamento della colpevolezza, nel senso di escluderne
la colpevolezza colposa o di diminuirne il grado.
: la colpa consiste nell’inosservanza di una regola cautelare codificata, cioè
COLPA SPECIFICA
o posta formalmente da una fonte giuridica (legge o regolamento) o contenuta in un atto di
normazione pubblica o privata (discipline ed ordine). La trasgressione di tali fonti implica
un’eventuale responsabilità colposa soltanto quando sia identificabile in via esclusiva un
contenuto o una finalità a carattere preventivo-cautelare; pertanto anche in questo caso
opera il criterio della prevedibilità-evitabilità dell’evento, soltanto che ora, trattandosi della
violazione di regole positivizzate, il giudizio è compiuto anticipatamente dall’autorità che
pone la norma. La positivizzazione delle regole cautelari in atti formali fornisce una
maggiore certezza sulle direttive di azione, rispetto alle ipotesi della colpa generica.
Nondimeno le regole specifiche presentano alcuni inconvenienti:
se il mero adempimento di regola positivizzata sia di per sé sufficiente a escludere
un addebito di colpa, si risponde che l’estensione del rischio consentito è tracciata
non solo da disposizioni specifiche di legge ma anche da ulteriori regole generiche
di diligenza, prudenza etc.
se la mera inosservanza di legge, regolamento, ordine o disciplina a finalità
cautelare sia di per sé sufficiente per l’affermazione della responsabilità colposa, si
risponde che se la semplice difformità della condotta rispetto alle regole cautelari
positivizzate bastasse a far presumere la sussistenza della colpa, senza un’adeguata
considerazione dei requisiti della prevedibilità-evitabilità del risultato dannoso,
allora il reato colposo si ridurrebbe ad un illecito di mera disubbidienza verso un
dovere cautelare imposto per legge o regolamento.
Quale che sia la violazione delle regole di diligenza, esse consistono pur sempre in regole di
condotta che si rendono doverose al fine di impedire la verificazione di fatti dannosi o pericolosi.
Talvolta si tratta di fatti dannosi o pericolosi comuni ai comportamenti umani, così ad esempio, la
violazione di regole comuni suggerite dall’esperienza per l’igiene o la nutrizione. In altri casi,
invece, vengono in rilievo regole di condotta che si rendono doverose al fine di mantenere lo
svolgimento di attività pericolose nell’area del rischio lecito o consentito (es: la circolazione
stradale). Allorché la violazione di regole cautelari avvenga in ambiti di attività rischiose ma
giuridicamente autorizzate, la dottrina preferisce parlare di in
colpa speciale o professionale
contrapposizione alla che riguarda le attività pericolose non giuridicamente
colpa comune
autorizzate. Nel caso della colpa speciale si tratta dunque dell’inosservanza di regole di condotta
idonee a mantenere l’esercizio di tutte queste attività, pericolose ma autorizzate, all’interno
dell’area del rischio consentito.
Il contenuto delle regole cautelari può essere il più vario:
a) regole di diligenza: descrivono una certa attività positiva (es: togliere le chiavi dal cruscotto
della macchina parcheggiata;
b) regole di prudenza: prescrivono l’astenersi dal compiere una certa attività (es: non fumare
vicino a sostanze infiammabili);
c) regole di perizia: consistono in regole cautelari a contenuto tecnico come quelle proprie di
una professione o arte.
Una recente dottrina distingue poi tra regole cautelari:
1. proprie: dirette all’eliminazione di un determinato rischio;
2. improprie: dirette alla diminuzione del rischio.
è utilizzato per legittimare l’intervento del legislatore o della pubblica
PRINCIPIO DI PRECAUZIONE
amministrazione ad adottare provvedimenti normativi o amministrativi in contesti di incertezza
scientifica circa la pericolosità di un prodotto.
nella fenomenologia attuale dei fatti colposi, questi si presentano come
PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
il prodotto dell’interazione tra più soggetti, così che l’estensione dello stesso dovere oggettivo di
diligenza di ciascuno risulta spesso modellato con riferimento reciproco a quello di altri soggetti
che si trovino ad interagire con il primo. Ne deriva una ripartizione dei doveri giuridici di diligenza
e la nascita di un principio di affidamento, in base al quale ogni partecipe ad un’attività
internazionale e titolare di un dovere di diligenza può contare sul fatto che gli altri soggetti
interagenti osserveranno le regole relative ai doveri di diligenza loro propri. Il nucleo di questo
principio trova fondamento costituzionale nell’art. 3,1 Cost. dato che proprio in forza del principio
di uguaglianza, ogni consociato è autorizzato ad aspettarsi che l’ordinamento, così come esige da
lui l’osservanza dei suoi doveri di diligenza, lo stesso pretenda pure nei confronti degli altri. La
funzione principale del principio di affidamento consiste in un rafforzamento della tutela dei beni
giuridici.
Bisogna aggiungere che nei reati colposi di evento, oltre alla condotta anche l’evento deve essere
colposo. È necessario che:
l’evento rappresenti la concretizzazione del rischio posto in essere dalla condotta;
occorre accertare il nesso condotta-evento, il nesso colpa-evento e l’evitabilità in concreto
dell’evento (il soggetto non risponde se, pur avendo cagionato l’evento, questo non era
evitabile nemmeno rispettando la regola violata).
Antigiuridicità del fatto colposo.
Lo studio dell’antigiuridicità e quindi dell’assenza di cause di giustificazione nel reato colposo, si
rivela di rilievo pratico nettamente inferiore rispetto al reato doloso; tuttavia appare comunque
opportuno svolgere alcune considerazioni sul tema. Anzitutto, devono distinguersi le nozioni di
rischio lecito o consentito da quelle di assenza di antigiuridicità del fatto tipico:
è un comportamento lecito perché è atipico;
rischio consentito:
- solo sul presupposto di un fatto tipico, ha senso porsi il successivo problema
antigiuridicità:
- della eventuale rilevanza di una causa di giustificazione per escludere l’antigiuridicità di un
comportamento che ha già superato il rischio consentito.
Colpevolezza colposa.
Secondo la concezione della doppia misura della colpa, mentre in sede di tipicità si accerta la
violazione del dovere oggettivo di diligenza commisurato alla stregua dell’agente-modello (misura
in sede di colpevolezza rimane da accertare se il soggetto reale era in grado di
oggettiva),
impersonare il tipo ideale di agente collocato nella situazione concreta (misura soggettiva).
Il rimprovero di colpevolezza dipende dall’accertamento dell’attitudine del soggetto reale ad
uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata. Accertare la sussistenza
dell’illecito colposo corrisponde ad un accertamento ancora parziale e quindi bisogna concludere
tale giudizio estendendone la portata alla misura soggettiva della colpa.
Presupposto dell’accertamento della colpevolezza è la sussistenza della imputabilità del soggetto.
Grado della colpa.
Per grado della colpa si intende la misura della divergenza tra la condotta tenuta dal soggetto e il
modello di comportamento a contenuto preventivo prescritto dalla regola cautelare.
L’art. 133,3 stabilisce che la commisurazione della pena è determinata dal giudice in base alla
gravità del reato desunta, tra l’altro, nei reati colposi, dal grado della colpa.
Capitolo XVII — Errore sul fatto
Si distinguono:
a) stato mentale che consiste nella falsa rappresentazione della realtà naturalistica
ERRORE
o normativa;
b) ignoranza si caratterizza in senso negativo in quanto mancata conoscenza di qualcosa;
se l’errore presuppone necessariamente l’ignoranza, non è invece possibile il contrario
posto che può aversi ignoranza senza errore (c.d. ignoranza pura);
Dal punto di vista del diritto penale i due fenomeni si equivalgono: tanto la mancanza assoluta di
conoscenza di un elemento, quanto l’erronea rappresentazione di esso, possono ugualmente
avere l’effetto di impedire a chi agisce di rendersi conto del significato della sua condotta.
c) dubbio si fonda sempre su un difetto di conoscenza e suscita nella mente del soggetto
un conflitto di giudizi permanente che impedisce il formarsi di quella convinzione
soggettiva che caratterizza l’errore; nel dubbio, l’unica cosa da fare sarebbe quella di
astenersi dall’agire.
Ancora una volta è bene tenere distinto il c.d. errore motivo che incide sulla componente
rappresentativa e di riflesso su quella volitiva del dolo dal c.d. che entra in gioco
errore inabilità
nelle ipotesi di reato aberrante (es: Tizio spara due colpi in direzione di Caio ma colpisce
Sempronio a causa della sua mira imprecisa). In dottrina non manca chi distingue altresì tra errore
ed errore a seconda che l’effetto cui la legge si riferisce dipenda o meno dalla
proprio improprio,
falsa rappresentazione.
art. 47,1 «L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno,
se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto
dalla legge come delitto colposo».
L’articolo dispone che l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente e
ciò perché l’errore esclude la configurabilità del dolo (es: se Tizio si impossessa di una cosa di Caio
credendola propria, appare evidente come egli non voglia impossessarsi di alcunché, egli vuole in
realtà un fatto diverso da quello descritto nella fattispecie incriminatrice; si può dire che Tizio non
sa ciò che fa e quindi non agisce con dolo). In ipotesi come queste vi sono tutti gli elementi
oggettivi di un fatto conforme a reato però quello che manca è la rappresentazione soggettiva di
uno di tali elementi e dunque il dolo del fatto.
Perciò errore e dolo sono due stati psicologici alternativi e incompatibili, di cui l‘uno rappresenta,
per così dire, il riflesso negativo dell’altro.
DOVE C’É ERRORE SUL FATTO NON PUÓ ESSERVI DOLO
Ovviamente l’errore, per escludere il dolo, deve focalizzarsi su uno degli elementi essenziali del
fatto tipico, vale a dire su un aspetto della realtà fenomenica la cui mancanza porterebbe a
escludere la conformità del fatto concreto al modello legale.
1° quesito = ci si è chiesti, se e quale rilevanza possa avere l’errore sullo svolgimento di un decorso
causale, che sfocia comunque nel verificarsi dell’evento voluto (aberratio Ad esempio, Tizio
cause).
getta da un ponte Caio perché esso anneghi nel fiume, ma muore esclusivamente per aver urtato
la testa contro un pilastro alla base del ponte. In questo caso la risposta ad un simile interrogativo
non potrà che dipendere dal modo in cui è strutturata la fattispecie:
nelle fattispecie a forma libera non verrà prodotto alcun effetto sul versante
- dell’imputazione soggettiva ai fini della sussistenza del dolo;
nel caso di fattispecie a forma vincolata, la divergenza tra voluto e realizzato, pur lasciando
- sussistere il dolo, rende atipico il fatto commesso.
2° quesito = quale rilevanza va attribuita all’errore del soggetto non imputabile, ossia dell’incapace
di intendere e di volere?
Secondo una diffusa e condivisibile opinione, bisogna distinguere tra due diverse ipotesi:
a. se è ragionevole supporre che chiunque, trovandosi nella stessa situazione del non
imputabile, avrebbe agito nello stesso modo, incorrendo dunque nel medesimo errore,
allora si applica di norma l’art. 47 poiché se l’errore non si ritiene determinato da colpa,
l’incapace andrà prosciolto (es: una persona affetta da cronica intossicazione da alcol, per
un errore di percezione, s’impossessa in aeroporto di una valigia altrui scambiandola per la
propria);
b. se, al contrario, si tratta di un errore patologico o condizionato dall’incapacità di intendere
e volere, bisognerà allora escludere la rilevanza dell’errore e si applicheranno le dovute
misure di sicurezza.
All’errore sul fatto, fa da pendant l’errore Il criterio differenziale è dato dalla diversità
sul precetto.
dell’oggetto finale su cui viene a cadere l’errore: nel primo (art. 47) l’autore vuole un fatto diverso
da quello tipizzato nella fattispecie legale; nel secondo (art. 5) l’autore vuole proprio quel fatto ma
lo considera penalmente lecito e ne ignora, dunque, la contrarietà a una norma incriminatrice.
Al binomio errore sul fatto-errore sul precetto, si contrappone quello dell’errore di fatto ed errore
di diritto. Ciò che fa la differenza è l’oggetto immediato dell’errore che può dirsi di fatto quando
verta su un dato della realtà fenomenica richiamato, senza alcuna mediazione, da un elemento
descrittivo di fattispecie, e sarà invece di diritto quando abbia ad oggetto una norma giuridica.
L’errore di fatto è un errore di percezione, mentre l’errore di diritto è un errore di interpretazione.
L’art. 47,1 prevede inoltre che se l’errore è determinato da colpa, la punibilità non è esclusa,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Potrà dunque palesarsi una
responsabilità colposa nonostante l’errore. Benché la disposizione faccia riferimento esplicito
soltanto ai delitti, esso troverà applicazione anche rispetto agli illeciti contravvenzionali.
Ipotesi del dolo “colpito a mezza via” dall’errore errore tra due condotte consecutive dello
stesso autore; può consistere, in alcuni casi, nel ritenere già realizzato un determinato evento
tipico, che in realtà si verifica soltanto in un secondo momento, per effetto di un’altra condotta
dello stesso autore, finalizzata ad uno scopo diverso (es: donna che tenta di sopprimere il figlio
gettandolo nella tazza del water e successivamente, dopo averlo estratto e avvolto in una coperta,
ritendendolo già morto lo chiude in una busta di plastica provocandone la morte per asfissia).
In un caso come questo l’errore porta ad escludere il dolo che dovrebbe sorreggere la condotta
realmente causale rispetto all’evento e l’autore risponderà di tentato omicidio e al tempo stesso di
omicidio colposo.
art. 47,3 «L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha
cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato».
Esso pone subito un interrogativo che ancora oggi non ha avuto una risposta definitiva: ”quando
l’errore su legge extrapenale si converte in un errore sul fatto, che esclude la punibilità perché
esclude il dolo, e quando, invece, si traduce in un errore sul precetto, che come tale rientra
nell’ambito di applicazione dell’art. 5. In giurisprudenza si è diffuso da tempo un atteggiamento di
generale ostracismo nei confronti di questa previsione normativa che si è tradotto nella sua
sistematica disapplicazione. La premessa a ciò è data dalla differenza che bisogna fare tra leggi
extrapenali integratrici e non integratrici laddove le seconde sarebbero quelle leggi destinate a
regolare i rapporti giuridici di carattere non penale.
Sono da considerare integratrici le le quali definiscono la sfera
disposizioni a carattere definitorio
dei possibili significati di un dato elemento della fattispecie penale; l’errore su di esse non può
escludere il dolo perché non si traduce in un errore sul fatto, quindi ricadrà nell’applicazione
dell’art. 5.
Possono esserci casi in cui l’errore cade su una norma extrapenale non espressamente richiamata
(es: un datore di lavoro, dopo aver eseguito alcune anticipazioni in favore di
nella fattispecie legale
determinati dipendenti, presenta all’ente che dovrà provvedere al rimborso, l’elenco di coloro che
hanno ottenuto l’anticipazione, nel quale inserisce però, a seguito di un errore su norma
extrapenale, anche soggetti che in realtà non avrebbero diritto all’anticipo – dolo della truffa). È
un altro caso di errore sul precetto che quindi dovrà sottostare all’art. 5.
In conclusione si può affermare che qualsivoglia norma dovrà considerarsi parte integrante del
precetto e l’errore che verta su di essa si sottoporrà alla disciplina prevista dall’art. 5.
Argomentando in questo modo, la Corte costituzionale è giunta a considerare come “non scritta”
nel codice la disposizione di cui all’art. 47,3.
Errore sugli elementi specializzanti della fattispecie per elementi specializzanti si intende
quegli elementi che determinano l’instaurarsi di una relazione di specialità tra due figure di reato
contigue. Ad esempio, una relazione si può instaurare tra ingiuria e oltraggio ad un magistrato in
udienza, oppure tra il furto e l’appropriazione di cosa smarrita.
La fattispecie speciale può essere più o meno grave di quella generale. L’errore potrà consistere
nell’ignorare l’esistenza o nel supporre l’esistenza di un elemento specializzante. Occorre
distinguere tra le varie ipotesi:
i. ove sia ignorata l’esistenza di un elemento specializzante aggravante o ne sia ritenuta
l’inesistenza, la punibilità non è esclusa e l’autore dovrà rispondere del reato meno grave.
ii. alla medesima conclusione si giunge anche quando l’autore supponga erroneamente
l’esistenza di un elemento specializzante aggravante che non esiste, in questo caso si
applica la pena effettivamente stabilita per il reato commesso.
iii. nell’ipotesi in cui l’errore cade su un elemento specializzante attenuante ove l’autore abbia
ignorato o creduto erroneamente inesistente un tale elemento e abbia dunque agito col
dolo del reato più grave sembra preferita la soluzione più favorevole al reo.
art. 48 «Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che
costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla
persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo». L’inganno può consistere in
qualunque artificio o altro comportamento atto a sorprendere l’altrui buona fede, attraverso il
quale l’autore mediato induca in errore l’attore immediato del delitto. In questo caso, l‘art. 48
esclude la punibilità di colui che subisce l’inganno e si sottolinea la responsabilità di colui che
inganna, il quale agisce con dolo.
Se colui che subisce l’inganno avesse potuto evitare l’errore, nei suoi confronti potrà configurarsi
una responsabilità colposa per il fatto commesso.
Si deve escludere l’applicazione dell’art. 48 ai casi di errore sul precetto determinato dall’altrui
inganno. Capitolo XVIII — Preterintenzione
La preterintenzione è una forma di responsabilità oggettiva; in sostanza è un criterio
d’imputazione del fatto all’autore che assume una posizione mediata tra dolo e colpa.
art. 43,2 «Il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione,quando dall’azione od omissione
deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente».
Così l’illecito penale preterintenzionale si caratterizza, sul piano strutturale, per una relazione da
minore a maggiore gravità tra il voluto e il realizzato ed in particolare questa tipologia di
fattispecie risulta composta da un delitto doloso di base cui si ricollega l’evento più grave
realizzatosi in concreto, tale da porsi come uno sviluppo di quello previsto e voluto.
Un indirizzo consistente della letteratura non intende incorporare i reati aggravati dall’evento
nell’istituto della preterintenzione, in questa prospettiva l’unico delitto che può sicuramente
essere classificato come preterintenzionale è quello dell’omicidio. Vi è assoluta certezza, invece,
nel fatto che la preterintenzione non rappresenta un terzo grado della colpevolezza.
Struttura della responsabilità preterintenzionale.
Dunque, nel delitto preterintenzionale, vi è la volontà rispetto al delitto di base (es: lesioni) e la
non volontà rispetto all’evento più grave che si verifica (es: morte).
Il problema centrale della preterintenzione consiste, allora, nell’individuare la natura del legame
che deve sussistere tra il delitto doloso e le conseguenze ulteriori, non voluta dal soggetto agente.
L’alternativa che si prospetta è la seguente: il delitto preterintenzionale come forma di dolo misto
a responsabilità oggettiva oppure come ipotesi di dolo misto a colpa.
l’interpretazione prevalente ravvisa nella
DOLO MISTO A RESPONSABILITÀ OGGETTIVA
preterintenzione un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva perché per un verso il
dolo e la colpa sono due atteggiamenti psichici incompatibili e per l’altro, si sottolinea
l’assenza di un riferimento nella definizione della preterintenzione alla forma della colpa
nei confronti dell’esito letale. Tuttavia il codice penale assegna all’istituto della
preterintenzione una collocazione autonoma, di conseguenza non può giustificarsi la sua
assimilazione a caratteristica residuale della responsabilità oggettiva.
responsabilità da rischio vietato: secondo quest’impostazione tutte le categorie
o riconducibili alla preterintenzione, reato aberrante, condizioni obiettive di
punibilità, possono essere ritenute forme di responsabilità colpevole in quanto
all’art. 27 Cost. si deve desumere la sussistenza dei requisiti della prevedibilità e
della evitabilità dell’esito non voluto.
il ricorso al concetto di colpa specifica nell’ambito del delitto
DOLO MISTO A COLPA
preterintenzionale si risolve in un travestimento verbale della responsabilità oggettiva.
Alcuni settori della dottrina ritengono invece che il delitto preterintenzionale sia
caratterizzato da un’autentica pertanto l’evento non
combinazione dolo-colpa generica
voluto dovrebbe essere imputato per colpa.
La soluzione preferibile resta quella di ricostruire la preterintenzione in termini di dolo misto a
colpa generica (dolo per l’evento minore, colpa per quello più grave) con il proposito di porre in
rilievo la peculiarità di questo modello di illecito autonomo. In particolare, il contenuto della
responsabilità preterintenzionale deve essere individuato nell’intenso legame che salda il delitto
doloso di base e l’evento più grave.
Il delitto doloso di base ha la funzione di tipizzare una situazione di rischio; in secondo luogo
occorre accertare che ci sia la violazione di regole comportamentali di attenzione il cui scopo fosse
quello di evitare il rischio che poi si realizza in concreto nella conseguenza successiva.
Reati aggravati dall’evento.
Si dicono aggravati dall’evento i reati per i quali è previsto un aumento di pena, allorché si verifichi
un evento ulteriore rispetto a un fatto base, che già di per sé costituisce reato.
Si distinguono tre tipologie giuridiche:
• contravvenzioni aggravate dall’evento;
• delitti colposi aggravati dall’evento;
• delitti dolosi aggravati dall’evento.
ipotesi in cui è indifferente che l’evento aggravante sia voluto o non voluto;
o ipotesi in cui l’evento aggravante non è voluto.
o
Quest’ultima ipotesi di delitti aggravati rientra nell’istituto della preterintenzione.
Capitolo XIX — Responsabilità oggettiva
Nella disciplina generale dei criteri di imputazione del fatto illecito all’autore, il legislatore italiano
prevede delle ipotesi di responsabilità oggettiva.
art. 42,3 «La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico
dell’agente come conseguenza della sua azione od omissione». In aderenza al dettato, si deve
ritenere che la responsabilità oggettiva consiste nel porre a carico dell’agente un evento sulla
base del solo rapporto causale materiale, indipendentemente dal concorso di dolo o colpa.
Nel nostro ordinamento sono ipotesi di responsabilità oggettiva:
• aberratio delicti monolesiva e plurilesiva;
• aberratio ictus plurilesiva;
• reato diverso da quello voluto dal compartecipe;
• condizioni obiettive di punibilità intrinseche.
Casi di responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall’evento:
concorso di persone nei reati propri;
o ignoranza dell’età della persona offesa.
o
Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza.
La cultura penalistica italiana rintraccia nella Costituzione il fondamento del principio di
colpevolezza. Proprio questo principio, che prevede che un soggetto sia punito solo se agisce con
colpa, instaura il divieto di qualsiasi forma oggettiva di responsabilità. Ciò posto, è fortemente
auspicabile un’evoluzione giurisprudenziale e soprattutto una riforma del sistema che elimini le
attuali forme di responsabilità oggettiva.
In realtà, sul primo versante, si richiamano in particolare due storiche sentenze: 364/1988 e
1085/1988.
Un primo filone di sentenze è indubbiamente quello con cui la Corte costituzionale afferma che il
comma 1 dell’art 27 Cost. si limita a statuire il tassativo divieto di responsabilità per fatto altrui,
senza formulare alcun riferimento alla responsabilità oggettiva. Un secondo gruppo di sentenze,
invece, si caratterizza per un’esplicita ammissione della Corte riguardo alla necessità di un quid
soggettivo per ritenere soddisfatto il principio di personalità della responsabilità penale.
Reato aberrante e ipotesi di responsabilità oggettiva.
La divergenza tra voluto e realizzato viene provocata, di regola, da un errore che incide sul
momento formativo della volontà determinando una falsa rappresentazione della realtà (errore
sul fatto); tuttavia, la divergenza tra voluto e realizzato, può dipendere anche da un errore che
incide sull’esecuzione del reato (errore inabilità). Questo tipo di errore viene in considerazione
nelle ipotesi di reato aberrante.
L’art. 83 disciplina le ipotesi di (comma 1) e (comma 2):
aberratio delicti monolesiva plurilesiva
comma 1: stabilisce che se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per altra
causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde a titolo di colpa,
dell’evento non voluto se il fatto è preveduto da legge come delitto colposo;
comma 2: specifica che quando al fatto non voluto, si aggiunge quello voluto, si applicano
le regole del concorso di reati.
In un sistema penale orientato a dare reale attuazione al principio di colpevolezza si deve
auspicare l’eliminazione delle figure dell’aberratio delicti monolesiva e plurilesiva.
L’art. 82 contempla le figure dell’aberratio (comma 1) e (comma 2):
ictus monolesiva plurilesiva
comma 1: si ha quando per errore dell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per altra
causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta;
comma 2: si ha quando all’offesa della persona non voluta, si aggiunge quella della persona
voluta.
Lo schema della responsabilità oggettiva si ravvisa senza dubbio nella seconda ipotesi poiché la
norma non richiede un accertamento dell’eventuale colposità della condotta. Maggiori incertezze
si rinvengono, invece, nell’aberratio ictus monolesiva dal momento che per alcuni, dovrebbe
comportare una responsabilità per tentato omicidio nei confronti della vittima designata e di
responsabilità colposa nei confronti della vittima concreta.
Concorso di persone nel reato e ipotesi di responsabilità oggettiva.
L’art. 116 disciplina le ipotesi in cui in caso di concorso di più persone l’illecito realizzato
dall’esecutore è diverso da quello concordato, stabilendo la responsabilità a titolo di concorso
doloso anche al compartecipe che non volle il reato effettivamente posto in essere. Se, dunque,
tutti i concorrenti si erano accordati per realizzare un furto e successivamente gli esecutori
materiali commettono una rapina, anche il basista, ignaro del cambiamento, risponderà di
quest’ultima figura delittuosa.
Tale eventualità costituisce un’autentica ipotesi di responsabilità oggettiva.
Con sentenza della Corte costituzionale 42/1965 (unica sentenza interpretativa di rigetto), la
giurisprudenza rivendicava la natura oggettiva dell’art. 116 poiché la realtà della
compartecipazione criminosa determina una situazione di pericolo nei confronti di esiti lesivi
ulteriori a quelli programmati.
Condizioni obiettive di punibilità.
Nel contesto della responsabilità oggettiva si fa ricadere anche il controverso istituto delle
condizioni obiettive di punibilità (art. 44). Il rapporto con il fenomeno della responsabilità
oggettiva sussiste soltanto se si individuano due diverse condizioni obiettive di punibilità:
condizioni intrinseche: consistono in un accadimento offensivo dell’interesse tutelato che
o approfondisce o rende attuale la lesione insita nel fatto di base;
condizioni estrinseche: consistono in accadimenti che non contribuiscono a descrivere
o l’offesa al bene giuridico tutelato in quanto sono collocate all’esterno di un fatto illecito.
La differenza tra le due tipologie di condizioni deve essere superata secondo le recenti indicazioni
della giurisprudenza costituzionale. Le condizioni di punibilità offensive (intrinseche) rientrano tra
gli elementi significativi della fattispecie e pertanto la loro estraneità ai criteri d’imputazione
soggettiva risulta incompatibile con l’attuazione del principio di colpevolezza. Allora appare
coerente considerare condizioni oggettive di punibilità solo quelle estrinseche d’opportunità.
Responsabilità oggettiva in senso ampio consente di individuare e di circoscrivere un’area,
dove si disconosce l’effettiva portata del principio di colpevolezza, concernente ipotesi ulteriori a
quelle classiche di imputazione sul piano oggettivo dell’evento. In tale dimensione sono
riconducibili principalmente le finzioni o le presunzioni legali di colpevolezza (es: aberratio ictus
monolesiva).
Responsabilità oggettiva occulta indica i meccanismi attraverso i quali la giurisprudenza
trasforma in obiettiva l’attribuzione dell’evento o di taluni elementi del fatto.
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Diritto Penale, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Manuale di Diritto Penale, Canestrari, Cornacchia, De Simone. Gli argomenti trattati sono: le nozioni e le funzioni del diritto penale, difesa della società, garanzia individuale per l’autore del reato, le teorie assolute e le teorie relative.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Moses di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Bologna - Unibo o del prof Canestrari Stefano.
Acquista con carta o conto PayPal
Scarica il file tutte le volte che vuoi
Paga con un conto PayPal per usufruire della garanzia Soddisfatto o rimborsato