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Alla fine degli anni Trenta del Novecento: l’ideologia corporativa del regime inizia a mostrare
le sue contraddizioni e il compromesso tra privilegio culturale e subordinazione politica si spezza.
Molti giovani critici e scrittori maturano il passaggio dal fascismo all’antifascimo (1938-1940):
l’inquieta ricerca di Elio Vittorini, Romano Bilenchi e Vasco Pratolini, prevede uno spazio
17 L’Istituto Luce, la Scuola sperimentale di cinematografia, il centro sperimentale e Cinecittà.
autonomo per la cultura che, dagli anni della Guerra di Spagna (1936-1939), non è più possibile.
Al centro del campo critico-letterario del periodo considerato vi sono due questioni:
l’autonomia del lavoro culturale e il rapporto tra la letteratura e la politica:
Antonio Gramsci, in carcere, è la mente che in Italia in questi anni negli anni Trenta ragiona più
acutamente su questi temi, applicandoli anche al giudizio critico delle opere letterarie.
Su scala europea è esemplare la polemica che divide in Francia Julien Benda,
saggista e filosofo, dallo scrittore Paul Nizan (1927): mentre Benda con il saggio
Il tradimento dei chierici intende gli intellettuali come dei “chierici”, custodi dei valori tradizionali,
e sostiene l’autonomia della cultura da ogni impegno nella politica,
Nizan sostiene che gli intellettuali devono impegnarsi nella lotta per cambiare il mondo.
Questa posizione è ripresa dal filosofo-scrittore francese Sartre in Che cos’è la letteratura? (1947).
Gramsci (1891-1937) oltre che un critico letterario è soprattutto un dirigente politico comunista,
perseguitato dal fascismo. Si escludono le recensioni teatrali giovanili e gli articoli sulla rivista
“L’Ordine nuovo” (1919-21); sono maggiori i suoi appunti della prigionia (1926-1937).
Isolato dalla vita sociale, scrive i Quaderni dal carcere e le Lettere dal carcere,
pubblicati nel dopoguerra, postumi: in un’edizione a cura di Palmiro Togliatti (1948-1951),
poi in una edizione critica a cura di Valentino Guerratana (1975).
Gramsci inizia la stesura dei Quaderni nel carcere di Turi l’8 febbraio 1929,
due anni e tre mesi dopo l’arresto, avvenuto l’8 novembre 1926.
Ma l’idea del lavoro complessivo è già presente in lui nella lettera alla cognata Tania
dal carcere di Milano (19 marzo 1927), dove annuncia di voler trattare una serie di questioni
in modo fur ewig, espressione tedesca che significa “per l’eternità”:
intende occuparsi di argomenti generali di tipo culturale e politico e dei destini degli italiani,
ma da un punto di vista “disinteressato”, libero dalle contingenze politiche del presente.
La prima ipotesi dei Quaderni, formulata del 19 marzo del 1927, comprende:
una ricerca sugli intellettuali italiani; uno studio di linguistica comparata;
uno sul teatro e su Pirandello; un saggio sui romanzi d’appendice e sulla letteratura popolare.
Per lo sviluppo del primo argomento sono fondamentali gli appunti intitolati
Per una storia degli intellettuali (1932) e Americanismo e fordismo (1934).
Il concetto centrale di questa zona della saggistica gramsciana è quello di egemonia culturale
Mentre la tradizione della critica marxista tende a considerare la “sovrastruttura”
artistica secondaria rispetto alla “struttura” economico-produttiva e il rapporto
tra politica e letteratura come sottomissione del valore estetico al progetto politico,
Gramsci, viceversa, assegna una rilevanza decisiva alla cultura:
Per Gramsci “tutti gli uomini sono intellettuali”, ogni donna e ogni uomo, più o meno
consapevolmente, ha una propria concezione del mondo e contribuisce a modificare quella altrui.
Non vi è attività umana, neppure la più pratica e manuale, da cui si possa escludere l’intelletto:
“non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens”.
Gli operai e i contadini, se vogliono assumere il potere devono creare una nuova cultura capace di
ripercorrere la strada precedentemente tracciata dalla borghesia in ascesa.
Anche la borghesia europea ha, infatti, imposto il potere politico mediante un’egemonia culturale
e attraverso la conquista del consenso: con una proposta culturale di valore universale.
In Italia, invece, sia nel Rinascimento che nel Risorgimento, manca una cultura nazional-popolare:
l’intellettuale italiano, educato in senso elitario, rimane estraneo al “senso comune (dei) semplici”
e dunque è incapace di interpretarne i bisogni e di formulare progetti universali.
Ma solo alcuni uomini ricoprono funzioni specialistiche di tipo intellettuale nella società:
Gramsci distingue gli “intellettuali tradizionali”, che si concepiscono indipendenti dal mondo di
produzione, e gli “intellettuali organici”, legati al ceto sociale emergente,
che svolgono funzioni di direzione ideologica e culturale (un valido esempio ne è Gramsci stesso).
Gli intellettuali organici auspicati da Gramsci, non sono semplicisticamente concepiti come quadri
di partito, ma piuttosto come pensatori ed educatori capaci di lavorare all’altezza dei tempi
della massificazione e di lottare per la conquista dell’egemonia culturale,
influenzando le abitudini, la moralità, il pensiero dei gruppi sociali e dei singoli.
Gramsci parte da un’attenzione per l’organizzazione della cultura allora completamente
sconosciuta: nel suo programma di studio rientrano la storia degli intellettuali,
la diffusione del libro, la formazione del pubblico, l’editoria, i giornali, i periodici popolari.
Nota come la modernizzazione capitalistica, nell’epoca del taylorismo e del fordismo,
massifichi e proletarizzi gli intellettuali e si sforza di capire la società di massa,
i processi di razionalizzazione produttiva e la nuova figura di intellettuale che da queste ne deriva:
Nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali si è ampliata in modo inaudito. […]
La formazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica individuale e
come psicologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate:
concorrenza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa,
disoccupazione, superproduzione scolastica, emigrazione ecc. (Antonio Gramsci, 1975).
Esemplare Manzoni che, per Gramsci, non è mai riuscito a cancellare il suo atteggiamento
aristocratico e paternalistico nei confronti degli “umili”. Sviluppo del secondo argomento:
per contestualizzare la riflessione gramsciana sul linguaggio si ricordi che all’Università di Torino
Gramsci è allievo di un linguista, il professore istriano Matteo Giulio Batoli.
Il Quaderno n. 29 si intitola Lingua nazionale e grammatica e si incentra sul nesso lingua-società:
Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua,
significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della
classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i
gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.
Secondo Gramsci la lingua rivela sempre tracce di un’ideologia: la critica del linguaggio diventa
critica della società, distruzione dei pregiudizi, disvelamento del senso comune.
Il linguaggio è di per sé una manifestazione intellettuale perché in esso è sempre contenuta
una pur minima visione del mondo. Per comprendere il concetto si legga il seguente passo citato:
Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile
per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati
specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare che tutto gli
uomini sono “filosofi”, definendo i fini e i caratteri di questa “filosofia spontanea”,
propria di “tutto il mondo”, e cioè della filosofia che è contenuta:
a) nel linguaggio stesso, che è l’insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di
parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso;
3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni,
modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folclore”.
Nel campo della critica letteraria, Gramsci distingue quella estetica, che valuta il valore
artistico-letterario delle opere, da quella politica, che considera il loro contenuto.
Questa posizione differenzia l’idea della critica di Gramsci da quella marxista che,
negli anni di Stalin, fa dipendere strettamente il giudizio di valore dal giudizio politico.
Per Gramsci, in campo letterario-culturale, “distruggere è molto difficile, tanto difficile appunto
quanto creare”:non si tratta di distruggere cose materiali, ma di distruggere “rapporti” invisibili,
impalpabili, anche se si nascondono nelle cose materiali”.
Gli appunti dei Quaderni dedicati alla critica letteraria comprendono, tra l’altro,
un giudizio severissimo su Ungaretti e una piena valorizzazione del teatro di Pirandello.
Ungaretti è responsabile di una scrittura “neolaica, concettosa (dove è) il vecchio che ritorna”,
cioè il ripristino della concezione aristocratica e separata dello scrittore.
Già in una “cronaca teatrale” pubblicata sul quotidiano l’ “Avanti” nel 1917,
dedicata a Il piacere dell’onestà, scrive che le commedie di Pirandello sono delle bombe a mano
destinate a esplodere nel cervello degli spettatori borghesi.
Pirandello è considerato un positivo distruttore del vecchio teatro tradizionale,
del senso comune e dei pregiudizi del mondo borghese. Nei Quaderni, applicando al teatro la
categoria distruzione-creazione, valuta positivamente Pirandello, nonostante la sua adesione
all’ideologia fascista, per l’anticonformismo demistificante delle sue commedie.
Interpretando l’arte teatrale di Pirandello, Gramsci tende anche a recuperare alcune categorie
di derivazione crociana, distinguendo nei drammi pirandelliani il momento estetico e filosofico.
Ma, in generale, nei Quaderni prevale un atteggiamento critico verso il dstinzionismo crociano.
Le pagine di argomento letterario degli appunti carcerari gramsciani prevedono il
“ritorno a De Sanctis”. Sul piano teorico, la rottura con Croce avviene con la proposta di uno
storicismo integrale: la storia da Gramsci non è più concepita come progressiva realizzazione dello
spirito – come nello storicismo idealistico hegeliano – ma come concreto farsi, del tutto immanente,
della civiltà umana per la spinta dei rapporti sociali e delle relazioni culturali fra