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QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE
È il romanzo che segna la svolta nella narrazione di Pirandello, essendo il primo vero
antiromanzo umoristico, che inizialmente intitolato Si gira… fu pubblicato sulla Nuova
antologia tra giugno e agosto del 1915, poi nel 1916 pubblicato da Treves, e infine nel 1925
col nuovo titolo sempre presso Treves.
È in forma di diario affidato alla voce del protagonista operatore cinematografico, Serafino
Gubbio, ambientato nella Roma delle prima riprese cinematografiche: il romanzo
ricostruisce i comportamenti artificiali, distruttivi, pieni di lacerazioni sentimentali che
costituiscono la vita di relazione in un mondo attaccato alla macchina, al mercato e alla
velocità.
L’attrice Varia Nestoroff è la figura femminile che regola questi rapporti che caratterizzano
il mondo della modernità, la quale dentro di sé racchiude il senso del vuoto, della finzione,
dell’essere diva, incarnando l’artificiosità del mondo negli anni ’20. Questo suo
atteggiamento porta al suicidio di Giorgio Mirelli, amico di Serafino, quando capisce che
l’attrice lo ha tradito con un altro: questo suicidio e la figura di Giorgio Mirelli incarna nel
romanzo il tempo dell’infanzia e della memoria, della natura incontaminata, rappresentando
la denuncia della perdita di questi valori.
Si alternano tempo della natura e della vita non alienata con il tempo della storia che sfocia
nel tempo dell’industria e della merce: queste due polarità si contrappongono fin da subito
all’interno del romanzo, e Serafino avverte spesso il richiamo di qualcosa, al di là del
degradato mondo del presente che coincide con l’alienazione. Alla fine del romanzo si
capisce che non c’è speranza di un qualcosa che possa riscattare la modernità: nel finale
Serafino insieme all’attore Aldo Nuti, amante di Varia Nestoroff, stanno lavorando alla
realizzazione di un film e sono entrati nella gabbia di una tigre per girare la scena
dell’uccisione dell’animale; Aldo rivolge il fucile verso Vania per vendicarsi, ma la tigre lo
ferma sbranandolo. Questa liberazione della natura diventerà merce di consumo perché
Serafino ha ripreso con la macchina la scena e ha perso la parola, chiudendosi in un muto
silenzio che manifesta il suo essere diventato un oggetto. Tutto questo non lascia speranza al
personaggio che è condannato ad un totale nichilismo.
Questa storia narrata da Pirandello è un pretesto per una riflessione di tipo saggistico sulla
civiltà delle macchine, sulla reificazione dell’uomo, sull’arte reificata nel mondo della
modernità, essendo replicata nel mondo moderno dell’industrializzazione.
Strutturalmente è un romanzo meno tradizionale rispetto a Il fu Mattia Pascal: ci sono sette
quaderni e ciascuno è costituito da un numero variabile di capitoli in cui si alterna lo
svolgimento dei fatti e la riflessione saggistica introspettiva con commento filosofico. Tutto
è sotto la mano del narratore protagonista: Serafino è un tutt’uno con la macchina da presa,
sviluppa una sorta di simbiosi dimostrandosi prodotto della civiltà della macchina, ma allo
stesso tempo è capace di analizzare e riflettere sulla sua condizione.
La vicenda vera e propria che porterà al finale melodrammatico comincia a partire dal
quaderno terzo, mentre nel quaderno primo Serafino già reificato fa un ritratto di sé stesso
anticipando il destino finale con cui si chiuderà il romanzo, ossia la sua reificazione. È un
personaggio che già dall’inizio è passivo, estraneo, che vive già reificato dal principio e che
si vede come un ingranaggio della macchina da presa.
Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri
quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, si, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si
salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi
fermo a guardarli un po' addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi,
ecco che subito s'adombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta,
che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero. No, via,
tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi
neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni
in cui vivete. C'è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena
quest'oltre baleni negli occhi d'un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi
smarrite, vi turbate o irritate.
Il critico Mazzacurati afferma che il silenzio degli occhi allude al silenzio dell’occhio della
macchina da presa, un’immobilità senza scambi che lo rende imprigionato come gli attori e
le loro vite sono imprigionati nelle immagini riprese dall’occhio della macchina. La prima
parte è quindi giocata sul tema della perdita dell’identità attraverso la simbiosi con la
macchina da presa. Serafino con il proprio obiettivo scompiglia le certezze precarie di chi
attraversa il suo campo visivo, ma dall’altra parte la perdita dell’identità appartiene proprio
a lui, che per mettere in crisi gli altri deve essere lui stesso vittima della reificazione, come
una macchina cerca di mettere in difficoltà gli altri. In realtà Serafino ha già perso la sua
identità spostandosi dalla campagna alla città e convertendosi dalle scienze umane
all’industria cinematografica per necessità economiche da un esercizio individuale
umanistico a realizzatore di prodotto per le masse.
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi
cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che
voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi:
"Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non
si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un
qualche meccanismo.
Sorrisi e risposi:
Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia
la mia professione è l'impassibilità di fronte all'azione che si svolge davanti alla
macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da
preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo,
che possa regolare il movimento secondo l'azione che si svolge davanti alla macchina.
Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più
presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo - sissignore - si
arriverà a sopprimerli. La macchinetta - anche questa macchinetta, come tante altre
macchinette girerà da sé. Ma che cosa poi farà l'uomo quando tutte le macchinette
gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.
Il delinearsi di questo universo delle macchine dove l’identità di Serafino come uomo di
lettere è stata perduta nell’esercizio di questo mestiere, il cinema, che è produzione dedicata
alle masse.
Nel secondo paragrafo introduce il tema della scrittura, perché anche Serafino, come il
postumo Mattia Pascal, sta scrivendo per raccontare la sua storia. La sua scrittura è una sorta
di vendetta per tutti gli uomini che in questo mondo finiscono col divenire reificati. Con
questa avversità alla macchina Pirandello si pone contro i futuristi:
Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale
impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non
esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti,
ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a
fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle
macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne
sapranno cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la
creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per
forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di
divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione
centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno
stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe
arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un
palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro
ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non
sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni
dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa
mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina.
L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro.
Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un
bel divertimento, ve lo dico io.
Già dall’inizio, quindi, Pirandello introduce il tema della sostituzione della realtà naturale
con quella artificiale, processo di cui Serafino è sia testimone in prima persona che
osservandolo negli altri.
In un ricordo, riportato nel primo quaderno, Serafino narra che dopo il suo arrivo a Roma
incontra Simone Pau, un vecchio amico, che lo porta con sé in un ospizio dove ospitano i
poveri, e lì Serafino dorme con un altro umanista costretto a suonare con un pianoforte
meccanico. I due alla fine si imbattono in Nicola Polacco, ch