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Shakespeare a melodramma, arricchendo l'azione e tagliano allegramente i monologhi come si era usato
fare nella prima fase del teatro borghese.
Alcune operazioni che troviamo nel film le aveva già sperimentate John Barrymore nel 1922. Il suo principe
di Danimarca era colloquiale, controllato, padrone di sé, perfettamente comprensibile. 8
Amleto si differenzia da Enrico V nella relazione tra lo spettatore e il corpo dell'attore, nel rapporto di questi
con lo spazio: la proporzione rispetto ai bordi del quadro, all'alto e al basso, ma anche la mobilità di Olivier,
che in questo film è morbida e ampia, mentre là è composta e misurata. Da un lato, è la materia
shakespeariana a imporre due differenti condotte all'attore, l'una (Amleto) chiamando in causa l'essenza
dell'uomo, interrogando il rapporto tra natura e forma, tra psiche e destino, l'altra (Enrico V) spostando il
fulcro tematico su un piano politico. “Enrico V” si presenta alla riscoperta delle virtù di leader e di guerrieri
di un sovrano da poco asceso al trono, figura non scevra da contraddizioni, e al riscatto di un'identità
nazionale attraverso la celebrazione delle sue doti politiche.
La variazione di strategia attoriale tra i due film implica un diverso comportamento dello spettatore. Nel
primo monologo di Amleto la macchina da presa giunge a un primissimo piano di Olivier con un elegante
movimento di dolly dall'alto al basso, che conduce ad un'estrema prossimità con il personaggio, dando allo
spettatore l'illusione di poterlo sfiorare. Attraverso l'ascolto lo spettatore accede ai pensieri di Amleto,
mentre sul piano visivo è indotto a una contemplazione estetica, ad un piacere innescato dall'armonia del
volto, dalla sua compostezza di statura marmorea.
Questo cinema shakespeariano appare come una forma che restituisce le richieste della modernità di
elevare poeticamente l'orizzonte contingente dell'uomo a partire dal corpo. Il corpo emerge come
l'epicentro e il veicolo della soggettività del destino e del singolo.
Dalla semplificazione che Olivier opera rispetto a quella complessità che a lungo aveva riguardato Amleto, il
personaggio viene risarcito attraverso la relazione attore-uomo, avviata con l'introduzione del divismo
cinematografico. In nessun'altra interpretazione shakespeariana per il cinema Olivier raggiunge quella
ricerca dell'archetipo attraverso il volto come in quella concessagli da questo personaggio. Nei monologhi di
Amleto, Olivier rende il proprio sguardo sfuggente e niente affatto in comunione con lo spettatore il quale
non si sente emotivamente partecipe.
La parte di bravura preferita dall'attore classico
Nel 1593 Shakespeare realizza un dramma concepito per adattarsi al talento roboante di Richard Burbage.
Oiivier si riallaccia a questa tradizione che parte da Burbage e che rende Enrico sinistramente attraente,
irresistibile alle donne. La sfida attoriale è in questo caso l'essere affascinanti in un corpo deforme. Per
questo Olivier attinge dall'erotismo della danza, il suo movimento è concepito per soddisfare l'occhio e il
disegno generale della sua performance accentua la dimensione del falso.
Nella voce come nel movimento, Olivier mette una distanza tra sé ed il testo, facendo sopravanzare
l'interpretazione al contenuto. La voce di un burattino e la voce di un oratore, di un uomo sensato e di un
calcolatore, di un accusatore e di un agnellino. La straordinaria gamma di modulazione è un inno alla
capacità attoriale di sprofondare in uno stato e risalire, di mutare con agilità, di attingere ad un'eccezionale
forza e decidere di dosarla a piacere. Poiché il Riccardo di Olivier sposa la natura demoniaca alla finezza
d'intelletto, l'attore combina un'iconografia ferina, resa vagamente effeminata dai capelli lunghi, con una
particolare enfasi dello sguardo. In questo film egli fa un uso ostentato delle palpebre abbassate il cui
continuo e lento movimento conferisce al personaggio lo sdegno e il distacco di un'indole maligna,
espediente che troviamo in diverse interpretazioni di cattivi interpretati da Olivier, come in “Spartacus”.
Olivier è un attore che usa enormemente la capacità comunicativa de patetica degli occhi, in taluni casi per
aprire un varco elusivo attraverso cui intuire le profondità dell'animo.
In “Riccardo III”, Olivier utilizza a suo vantaggio un fenomeno che ha già osservato: molte volte capita che
l'attore faccia fiasco nei climax perché troppo vicino alla macchina da presa. Quando in Shakespeare c'è un
discorso magniloquente la cinepresa deve indietreggiare per poi avvicinarsi nei momenti di umorismo o
quando affiora una nuova prospettiva. Egli riformula quindi i dialoghi per permettere al suo Riccardo di
flirtare con una camera molto vicina, che egli corteggia con i gesti della mano come fosse un altro
personaggio. Il film trasforma i soliloqui in dialoghi con gli spettatori, come se Riccardo facesse loro una
rivelazione.
Il declino dell'attore classico. Gli anni Cinquanta e Sessanta 9
Play it straight! Don't act
Negli anni cinquanta, raggiunte le vette della fama internazionale, Olivier lavora al cinema soprattutto in
produzioni inglesi, ma in un fase poco felice della storia del cinema britannico. Nonostante ciò le sue parti
primarie donano un tocco sapiente e maturo alla sua dimensione divistica, che non perde il contatto con
l'industria hollywoodiana.
Nella parti di derivazione teatrale troviamo riconfermati i fondamenti dell'attorialità cinematografica
olivierana: tradizione ed immaginario popolare, realismo e gran mestiere.
Naturalismo e finzioni del quotidiano: Carrie
Olivier soddisfa negli anni Cinquanta, un principio tipico della Hollywood classica: affidare agli attori dei
personaggi che corrispondono ai tratti dominanti del loro fisico e della loro personalità
Il metodo e la modella
“Il principe e la ballerina” (Olivier 1957): la storia produttiva del film rivela alcuni cambiamenti cruciali che
stanno avvenendo nel corso degli anni Cinquanta. Oltre al calo spettatoriale che si verifica con
l'avanzamento della televisione, si trasformano le regole della produzione-distribuzione cinematografica. Si
esaurisce la richiesta di un gran numero di film e di interpreti e scompare l'istituzione del contratto a lungo
termine che legava gli attori agli studios. Tuttavia per le grandi star la remunerazione diventa più alta che
mai e talvolta queste diventano anche produttrici di se stesse. Ciò costituisce una rivoluzione rispetto ai
vecchi standard hollywoodiani.
“Il principe e la ballerina” è implicato nel mito della Monroe con conseguenze molto più incontrollabili di
quanto i suoi autori siano in grado di comprendere. Il progetto è un ibrido anglo-americano abituale per
questo decennio, in cui la regia è nelle mani di un inglese, con specifici effetti stilistici e una forte impronta
culturale britannica. La statura mitica dell'attrice americana ingigantisce istanze psicosociali legate in modo
ambivalente al moralismo dilagante e farraginoso degli anni Cinquanta. Tale moralismo non riguarda tanto i
costumi, ma si esprime piuttosto nello stile del film. Ne è la prova l'estrema castità con cui sono trattati
visivamente gli incontri amorosi illeciti tra i due protagonisti, fatti tutti di metafore e coreografici movimenti
dentro e fuori il salotto della residenza del Reggente.
In questo specifico caso lo sviluppo narrativo costituisce una nobilitazione per Marilyn Monroe,
un'elevazione di status rappresentata anzitutto dal suo attraversare gli spazi che la emancipano dall'inanità
della ragazza sexy non meglio identificata.
Nel confronto con Marilyn, con la credibilità che sortisce nel film a perderci è soprattutto Olivier. Per le sue
qualità proprie di non-attrice la sua mimica è verosimile e umana. L'attore inglese dà invece sfoggio di una
senz'altro abile, ma antiquata, tipizzazione dell'aristocrazia europea non scevra di un senso di superiorità
britannica rispetto ad altre monarchie.
La rigidità di Olivier prelude a quella crisi del soggetto maschile, e anche dell'attore che esploderà di lì a
poco nella sua interpretazione di “Gli sfasati”, esempio di come il cinema inglese risponde all'insorgere di
una classe intellettuale che si rivolge contro il conformismo, e a una nuova sinistra che conduce una
battaglia etica e culturale.
Nell'incontro tra la Monroe ed Olivier collidono due concezioni. Da un lato la sclerotizzazione di un criterio
secondo cui l'attore deve essere onesto, sincero e vero. Dall'altro una concezione del mestiere dell'attore
come suprema falsità, che Olivier declina sia nelle forme della maschera sofisticata e impercettibile sia in
quelle della parodia dell'autoriflessione, dell'ammiccamento allo spettatore.
La posa rigida che Oliver fa assumere al Reggente costituisce una risposta dell'immaginario maschile alla
mistificazione della sessualità di Merilyn. Il film infatti non solo narrativizza il tema dell'erotismo femminile,
ma espone anche la fragilità dell'uomo. Da sempre la sessualità è il veicolo attraverso cui il soggetto si
posiziona all'interno della società, e svolge la funzione di tenere l'individuo al suo posto. Ora l'uomo fatica a
trovare una propria collocazione attiva di fronte ad una donna che, da tempo, è diventata oggetto
problematico del desiderio, e la cui risposta sessuale, se non misteriosa, per lo meno è imprevedibile. Nel
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film l'eroe può correrle dietro oppure arroccarsi rigidamente nel proprio rango.
Molti volti, parti minori e maggiori
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta si rinsalda una pratica di Olivier che riguarda il negoziare la dimensione di
star con la consuetudine di assumere ruoli minori o parti altrimenti attribuibili a quello che nel sistema
hollywoodiano è l'attore caratterista.
Più disposto a prestarsi a progetti non necessariamente concepiti come veicolo della propria affermazione
glamour, Olivier assume al cinema parti secondarie o minime.
Ciò che contraddistingue Olivier nel suo impegno “minore” sul grande schermo è la capacità di far confluire,
nei suoi personaggi un immaginario romanzesco, popolare e anche fantastico. Quando il suo ruolo non ha la
responsabilità di influenzare l'intero progetto, Olivier si assume il gustoso compito di aggiungere colore al
disegno generale, inventare una sfumatura, creare un contrasto, come per esempio in “Il discepolo del
diavolo”.
Ad Hollywood in caratterista fa leva su un meccanismo di reminiscenza primaria che rende vano il criterio
della qualità. La sua presenza equ