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Febo? Apollo ha dorate la veste e la spilla e la lira e l'arco di Litto e la faretra, dorati anche i sandali. Infatti è ricco d'oro Apollo, è ricco di beni. Da Pitone potresti giudicarlo. È sempre bello e sempre giovane: giammai giunse sulle femmine e guance di Febo nemmeno un po' la peluria. Le chiome stillano al suolo olii odorosi, non grasso stillano le ciocche di Apollo, ma panacea stessa. Nella città in cui quelle stille cadano a terra, tutto diventa intatto. Nell'arte nessuno è tanto versatile quanto Apollo: lui possiede l'uomo arciere, lui l'aedo; a Febo infatti è affidato l'arco e il canto; di lui sono i ciottoli oracolari e gli indovini; da Febo i medici invero hanno appreso il rinvio della morte. Chiamiamo Febo anche Nomio, sin da quello, da quando sull'Anfrisso pasceva le cavalle da giogo, essendo stato arso dall'amore del giovane Admeto. Facilmente potrebbe diventare maggiore il bestiame.
bovino e le capre, guardiane di greggi, non potrebbero mancare di cuccioli, quelle sulle quali Apollo spinse lo sguardo mentre pascolavano. E non sarebbero senza latte le pecore, né sterili, ma tutte sarebbero aventi sotto un agnello. E la genitrice di un solo figlio potrebbe presto diventare genitrice di gemelli. Seguendo Febo, gli uomini misurarono le città. Infatti Febo si compiace sempre delle città che vengono fondate; ed egli stesso Febo tesse le fondamenta. Febo a 4 anni infisse le prime fondamenta nella bella Ortigia, vicino al lago ricurvo. Artemide, cacciando frequentemente, portava le teste delle capre del Cinzio, mentre Apollo intrecciava l'altare. Fabbricò con le corna le basi, conficcò l'altare da corna, e sotto poneva intorno cornee mura. Così Febo imparò ad alzare le prime fondamenta. Traduzione letterale Febo mostrò anche la mia fertile città a Batto e al popolo che entrava in Libia fu guida, corvoFavorevole al fondatore. E giurò di donare mura ai nostri re, Apollo sempre fedele ai giuramenti. Oh Apollo, molti ti chiamano Soccorritore, molti Clario, dovunque tu hai molto nome. Ma io (ti chiamo) Carneo. Così a me è avito. Sparta a te Carneo, fu questa prima sede, seconda poi Tera, la terza la città di Cirene. Da Sparta la sesta generazione di Edipo ti condusse alla fondazione di Tera e da Tera il vigoroso Aristotele ti affidò alla terra degli Asbisti, e per te costruì un santuario assai bello e nella città istituì una cerimonia sacra annuale, nella quale, oh signore, molti tori cadono sul fianco per l’ultima volta. Iè iè, o Carneo molto invocato, i tuoi altari in primavera recano fiori quanti le Ore, variopinti, raccolgono mentre Zefiro soffia la rugiada e in inverno il dolce Croco. Sempre perenne hai il fuoco, né mai la cenere si pasce del carbone di ieri. Certo, molto gioì Febo quando, cinti di Eniò,
gli uomini danzarono con le biondelibiche; quando le stagioni Carnee sacre giunsero a loro. Non potevano allora affatto accostarsi alle fonti di Cire i Dori, ma abitavano Azili fitta di valli. Li vide il Signore in persona e li mostrò alla sua sposa, stando ritto sul Mirtusse a forma di corno, dove Ipseide uccise il leone massacratore dei buoi di Euripilo. Non vide Apollo altro coro più divino di quello, né tante cose utili distribuì a una città, quante a Cirene, ricordandosi del precedente ratto. Né gli stessi Battiadi onorarono un altro dio più di Febo. Iè iè paeion, ascoltiamo, giacché il popolo delfico dapprima trovò questo ritornello per te. Quando tu davi prova del lancio degli aureidardi, a te che scendevi a Pito veniva incontro la demoniaca fiera, l'orribile serpe. E tu la uccidesti, scagliando una sull'altra freccia veloce, e il popolo acclamò: "iè iè Paieon, scaglia la".freccia!Subito la madre ti generò come soccorritore». Lì da allora così seicantato. L’invidia furtiva disse nelle orecchie di Apollo: «nonammiro il poeta che non canta neanche quanto il mare».E Apollo con il piede scacciò l’invidia e disse così: «Grande è ilcorso del fiume Assiro, ma molte sozzure di terra e molto fangotrascina sull’acqua. Ma a Deò non da ogni parte le api recanol’acqua, ma quella che zampilla pura e incontaminata da sacrasorgente, piccola goccia è la massima offerta».Salve, Signore. E in biasimo, dov’è l’invidia, lì se ne vada.
CALLIMACO, INNIVPER I LAVACRI DI PALLADETraduzione letteraleTutte quante, o voi versatrici dell’acqua per il bagno di Pallade, uscite,uscite. Ora ora ho udito le cavalle sacre che nitriscono. La dea è pronta avenire. Affrettatevi ora, o bionde Pelasge, affrettatevi. Atena non lavò maile
grandi braccia prima di scuotere la polvere dai fianchi equini, nemmeno quando, portando le armi tutte imbrattate dal sangue, venne dagli empifigli della terra. Ma molto prima, avendo sciolto dal carro le nuche delle cavalle, riversò nelle correnti di Oceano il sudore e le macchie, e deterse tutta la schiuma coagulata dalle bocche che mordevano il freno.
Oh, andate Achee, e non profumi né alabastri… sento il suono, sotto l’asse del carro, dei mozzi… né profumi né alabastri recherete voi a Pallade, voi che versate l’acqua per il bagno, giacché Atena non ama i misti unguenti, né uno specchio. Sempre bello è il volto di lei. Neanche quando il frigio giudicava la contesa sull’Ida, la grande dea guardò verso l’oricalco, né verso il vortice risplendente del Simoenta; e neanche Era. Cipride, invece, avendo preso un bronzo lucente, spesso sistemò due volte la stessa ciocca. Ma lei, avendo corso
Per due volte 60 doppie corse, come appunto presso l'Eurota i Lacedemoni astri, in modo esperto si massaggiò avendo preso semplici unguenti, figli della sua stessa piantagione; oh fanciulle, e il rossore corse su, quale il colore che ha al mattino la rosa o il chicco del melograno. Perciò, anche ora, portate solo qualche olio maschio, col quale Castore, col quale anche Eracle si unge. Le porterete anche un pettine tutto d'oro, cosicché si pettini all'ingiù la chioma, avendo lavato la treccia lucente. Esci, Atena, vicina a te è la schiera gradita, le vergini figlie dei grandi Arestoridi; oh Atena, è portato anche lo scudo di Diomede, come insegnò questo costume agli Argivi più antichi Eumede, sacerdote a te gradito, il quale una volta, avendo appreso che il popolo preparava per lui una morte deliberata, con la tua immagine sacra se ne andava in fuga e si stabilì sul monte Crio, il monte Crio, e te dea collocò.
in rocce scoscese, che ora hanno il nome di Pallatidi. Esci, Atena, distruttrice di città, dall'elmo d'oro, tu che ti compiaci del frastuono di cavalli e scudi. Oggi, portatrici di acqua, non attingete. Oggi, Argo, bevete dalle fonti, non dal fiume. Oggi, serve, porterete le coppe o a Fisadia o ad Amimone, la figlia di Danao. Infatti, avendo mescolato le acque con oro e fiori, giungerà Inaco dai monti ricchi di pascoli, conducendo il bel lavraco ad Atena. Ma, o Pelasgo, bada di non vedere la regina, pur non volendo. Colui il quale vedesse nuda Pallade, protettrice della città, vedrà questa Argo per l'ultima volta. Atena sovrana, tu esci, io nel frattempo dirò qualcosa a queste, non il mio racconto, ma di altri. Traduzione letterale: Fanciulle, un tempo a Tebe Atena ebbe molto cara, e più di tutte tra le compagne, una ninfa, la madre di Tiresia, e mai le era lontana; ma anche qualora guidasse le cavalle verso gli antichi Tespiesi, o verso Aliarto.attraversando i campi dei Beoti, o verso Coronea, dove un bosco profumato sacro a lei e altari si trovano presso il fiume Curalio, spesso la dea la fece salire sul suo carro; e né i discorsi delle fanciulle, né i cori le risultavano piacevoli quando non le guidava Cariclò. Ma ancora molte lacrime la attendevano, sebbene fosse compagna gradita ad Atena. Una volta, infatti, avendo sciolto le fibbie dei pepli, facevano il bagno presso la fonte del cavallo Eliconea, che scorre bellamente. La tranquillità pomeridiana possedeva il monte. Entrambe facevano il bagno; erano le ore del pomeriggio e molta quiete dominava quel monte. Ma Tiresia, ancora solo coi cani, diventando da poco scuro nelle mascelle, si aggirava per il luogo sacro. Avendo sete in modo alquanto indicibile, giunse al corso d’acqua della sorgente, sciagurato, e senza volerlo vide cose non lecite. E Atena, pur essendosi adirata, gli parlò così: “Oh Everide, quale demone ha condottoper la penosa via, te che non più riotterrai gli occhi?». Ella diceva, e la notte presegli occhi del giovane. Era rimasta senza parole: le angosce infatti bloccarono le ginocchia el’angustia trattenne la voce. Ma la ninfa gridò: «Che cosa mi hai fatto al figlio, signora? Taliamiche siete le dee? Mi hai portato via gli occhi del fanciullo. Figlio sciagurato, hai visto ilpetto e i fianchi di Atena, ma non vedrai di nuovo il sole. Oh, me sventurata, oh monte, ohElicona non più accessibile per me! Invero esigesti grandi cose in cambio di poche. Avendoperso caprioli e non molti cerbiatti, possiedi le luci del fanciullo». E la madre, avendoabbracciato con entrambe (le braccia) il caro figlio e piangendo fortemente, conduceva ilcordoglio dei lamentosi usignoli. E la dea ebbe pietà della compagna. E Atena le dissequesta parola: «Oh, donna divina, ritratta di nuovo quante cose hai detto a causa dell’ira.Io non ti ho reso cieco il
figlio: infatti non è cosa dolce per Atena rapire gli occhi dei fanciulli, ma così dicono le leggi di Crono: colui che veda uno degli immortali, se non lo abbia scelto il dio stesso, paga questo vedere a gran prezzo. Divina donna, il fatto non potrebbe essere revocabile di nuovo, poiché così tesserono i fili delle Moire, quando da principio lo generasti. Ora, o figlio di Everide, ricevi il compenso dovuto. Quanti sacrifici brucerà in avvenire la Cadmeide, quanti Aristeo, implorando di vedere, anche cieco, l'unico figlio, il giovane Atteone; e quello sarà compagno di corsa della grande Artemide. Ma allora non lo salveranno né la corsa né le cacce comuni sui monti, qualora, pur non volendo, vede i graziosi lavacri della dea. Ma le stesse cagne, allora, divoreranno il padrone di prima. E la madre raccoglierà le ossa del figlio disperse in tutti i boschi; dirà che sei stata fortunatissima e beata avendo ricevuto indietro ilposso vedere la bellezza dei paesaggi che ci circondano. Ma posso sentire il suono del vento tra gli alberi, il profumo dei fiori selvatici e il calore del sole sulla mia pelle. La natura mi parla attraverso i miei altri sensi, e mi fa sentire parte di qualcosa di più grande di me stesso. Mi aggrappo alla tua mano, compagna, mentre camminiamo insieme lungo i sentieri accidentati. Mi fido di te per guidarmi attraverso le avventure che ci aspettano. La tua voce è la mia bussola, le tue parole mi danno coraggio e speranza. Non posso vedere il mondo con i miei occhi, ma posso sentire la sua bellezza con tutto il mio cuore. E tu, compagna, sei la mia luce in questa oscurità. Insieme, possiamo affrontare qualsiasi sfida e scoprire la meraviglia che si nasconde dietro ogni angolo. Grazie per essere al mio fianco, compagna. La mia vita è più ricca e significativa grazie a te.