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Questo personaggio, come altri nel poema, è ripreso dalla mitologia classica (anche Virgilio presenta

Minosse come giudice delle pene infernali nell’Eneide. Dante si rifà spesso alla descrizione data da

Virgilio dell’inferno) e riconvertito in chiave cristiana, seppure come un demonio, secondo un

processo, consueto in età medievale, di deformazione storica e di adattamento alla mentalità del

tempo. Inoltre Minosse adesso ha anche le caratteristiche fisiche di un vero demone. La sua funzione

è quella di giudice infernale. Le anime che giungono all’inferno vanno una ad una di fronte a lui e

confessano tutti i loro peccati, tra i quali Minosse individua il peccato più significati per quell’anima,

e indica attraverso il numero degli avvolgimenti della sua coda intorno al proprio corpo, il numero

dove l’anima è destinata. Si badi bene a non confondersi. Il giudice supremo

corrispondente al cerchio

è Dio, ma in sua vece è stato posto Minosse a svolgere questa funzione tanto importante. Minosse

abbandona questa funzione solo per un momento, per mettere in guardia Dante dal passo che sta per

compiere: l’ingresso nell’Inferno. La replica di Virgilio è perentoria: il viaggio di Dante è voluto da

Dio. Il senso di questo rapido scambio di battute è allegorico: le forze del male (Minosse) cercano di

dell’uomo perché gli istinti peccaminosi riprendano il sopravvento, ma

far vacillare la parte razionale

la ragione (Virgilio) mette a tacere, reprimendole, le tendenze al peccato.

Il cerchio e i dannati e la bufera infernale:

Rispetto alla quieta atmosfera del Limbo, che aveva contrassegnato il viaggio precedente, già nella

terzina iniziale di questo canto si preannuncia una realtà dolorosa. Il dolore e la sofferenza dei dannati

è un sottofondo costante del canto, scandito tanto dalle loro urla quanto dal muggito della bufera

infernale che li trascina. La dimensione sonora del canto è evidente, anche nella sinestesia che

descrive il secondo cerchio come “un luogo di ogni luce muto”. La mancanza di luce indica l’assenza

della luce divina e quindi della Grazia divina. L’assenza della luce si contrappone al frastuono dei

lamenti dei dannati e al muggito della bufera che li tormenta, paragonata a un mare in tempesta. Le

grida si fanno più acute quando il vento che trascina con sé i dannati li spinge verso la “ruina”, forse

la via che porta al cerchio successivo, quindi a un luogo dove si punisce una pena più grave e di

maggior dolore. I dannati sono descritti attraverso una similitudine di stampo animalesco: sono

paragonati agli stornelli in volo: dei passeri in stormi folti con traiettorie irregolari, proprio come gli

spiriti trascinati dal vento. Questo rapporto tra lussuriosi e volatili ritornerà altre due volte nel canto.

Subito Dante intuisce, o gli viene detto da Virgilio, che in quel cerchio sono puniti i lussuriosi. Il

contrappasso è in questo caso per analogia: come in vita furono travolti dal turbine della passione

amorosa, moralmente non lecita, così un vento tempestoso li trascina per l’eternità e li tormenta. La

dei “lai”

seconda similitudine: i lussuriosi sono paragonati a delle gru che intonano che formano nel

loro volo una fila, così Dante vede venire le ombre trascinate dalla bufera. Questa similitudine serve

per contraddistinguere alcuni illustri peccatori tra i lussuriosi, che l’amore travolgente condusse alla

morte dell’anima. Il tratto distintivo è il procedere in lunga fila: da qui il paragone con le gru, esteso

anche al verso lamentoso di quegli stessi uccelli. Il termine lai ha diversi significati: indica tanto i

lamenti quanto idei componimenti poetici medievali, diffusi in Francia nei secoli XII e XIII, dal tono

mesto e lamentoso e di argomento amoroso. Vi si descrivono delle pene d’amore. Con il

procedimento retorico dell’enumerazione vengono menzionati illustri personaggi di questa schiera,

presi ora dalla storia ora dalla letteratura, ora dalla mitologia, ora dalla leggenda, con condensate note

esplicative sulla loro biografia: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride e Tristano. La

lista è lasciata indeterminatamente lunga. Si tratta di personaggi celebri per la loro lussuria, come

Semiramide, nota per l’incestuoso amore per il figlio, o Cleopatra, nota anch’essa per la sua lussuria.

Didone è morta per amore, suicidatasi dopo l’abbandono di Enea, per il cui amore aveva infranto la

promessa di fedeltà al marito deceduto, Sicheo. Elena di Troia, che ha scatenato la guerra. Achille

che fu vinto infine da amore, ucciso dai figli di Priamo che gli tesero una trappola sapendolo

innamorato di una delle loro sorelle. Paride, amante di Elena, fu ucciso da Filottete. Tristano è

l’amante per antonomasia nel Medioevo e per la letteratura celtica e cortese. È il simbolo della

passione che subentra alla volontà. A causa del filtro d’amore, non può non amare Isotta, moglie del

re Marco, e non può pentirsi. Morirà ucciso da Marco. Questa rassegna di amori drammatici serve da

preparazione per la rievocazione del dramma di Paolo e Francesca.

Ma già a questo punto Dante, l’io narrato, Dante - personaggio, si sente preso da un sentimento di

pietà, di tormento e angoscia che lo fa quasi venire meno. Lo smarrimento di Dante è quello di chi

sta per liberarsi da un conflitto interiore tra l’amore-passione e l’esigenza morale di ricondurre il

disordine dei sentimenti sotto il controllo della ragione. Il travaglio di Dante è frutto anche di questa

esigenza etica di purificazione, oltreché di partecipazione umana alle sofferenze degli amanti

sfortunati.

Paolo e Francesca:

Due in particolare, tra i lussuriosi, sembrano colpire Dante, per la loro leggerezza e per il fatto di

procedere assieme. Questo aggettivo: leggeri, non indica una riduzione, ma piuttosto un aumento

della pena. Paolo e Francesca si abbandonano completamente alla bufera infernale, che quindi li

trascina e li tormenta con maggiore compiutezza. Inoltre, rispetto agli altri spiriti dannati, che Dante

ha nominato da soli, i due vanno insieme. È come se per Paolo e Francesca il contrappasso sia più

perfetto: come in vita peccarono insieme, così nella morte subiscono insieme la loro condanna.

Virgilio allora invita Dante a soddisfare la sua curiosità, facendo leva proprio sul legame che unisce

ancora le due anime dopo la morte. Dante li chiama a sé quando la bufera li spinge verso il punto in

cui si trova con Virgilio. Nel momento in cui le due anime si staccano dal resto dei dannati, ecco

apparire la terza similitudine del volo: questi due dannati appaiono come colombe spinte dal desiderio

di ritornare al proprio nido, tanto da rispondere all’affettuoso grido del poeta. Tutta questa sezione è

contraddistinta da termini tipici del registro amoroso e cortese: anime affannate, affettuoso, disio,

dolce. Il dramma della loro vicenda è già indicato implicitamente da queste spie. Al pellegrino,

definito “animal garzioso” (essere/creatura benevola) perché si interessa a loro e li sottrae

momentaneamente alla loro pena, va subito la riconoscenza dei due amanti. Se potessero,

pregherebbero il re dell’universo, Dio, di dare a Dante la pace. E poi Francesca da Rimini inizia il

suo racconto.

Il racconto di Francesca:

Segue con benevola accondiscendenza il racconto autobiografico attraverso un flashback, che riporta

i dati geografici fondamentali. Poi l’enunciazione del dramma di amore e morte attraverso. Al centro

di tutto c’è l’amore, non l’amore come sentimento in sé, ma la concezione dell’amore in chiave

cortese, così come si evidenzia dalla descrizione che fa Francesca fa dell’Amore, inteso come forza

della natura che trascina con sé l’uomo senza scampo. Attraverso queste celebri terzine, unite dalla

figura retorica dell’anafora, Francesca riprende quelle che sono le caratteristiche tipiche del

sentimento amoroso così come erano state descritte da Andrea Cappellano nel suo celebre trattato in

che riflette la visione cortese dell’amore, che si radica nell’adulterio, e questo è

latino, il De Amore,

il caso dei due amanti sfortunati, così come esso era stato cantato dai trovatori provenzali. Il verso:

Amor che al cor gentile ratto s’apprende, riprende infatti il binomio amore e gentilezza, di cui

Cappellano parla del terzo libro dell’opera, e che viene riproposto anche dagli Stilnovisti, tra cui

Cavalcanti, con la sua canzone Al cor gentile rempaira sempre Amore, evidentemente riecheggiati da

Amor e’l cor gentile sono una cosa.

Dante, e dallo stesso Dante, nel sonetto E poi riprende un altro

dell’amore di cui parla sempre Andrea Cappellano: Amor ch’a nullo amato amar perdona,

principio

l’idea cioè che l’Amore fa sì che chi sia amato veramente, riami necessariamente a sua volta. È un

amore la cui intensità sembra protrarsi per l’eternità: e’l modo ancor m’offende, e fa ancora sentire i

ancor non m’abbandona. E nasce appunto dall’ammirazione della bellezza, sia in Paolo

suoi effetti

che in Francesca, così come la lirica cortese era solita appunto lodare la bellezza della donna amata.

La bellezza è generatrice di amore, in linea con quanto celebrato dalla lirica cortese (gli stilnovisti

anche, ma con Dante si pone di più l’accento sulle virtù morali). Quello stesso amore che però li

condusse alla perdizione, al “doloroso passo”, alla morte non fisica, che avviene per mano del marito

di Francesca, che infatti sarà punito tra i traditori dei parenti nella Caina, ma alla morte dell’anima,

perché li portò all’adulterio.

Le parole di Francesca, così ricche e formalmente elaborate, intessute di riferimenti letterari, sono

rivolte a Dante che ha conosciuto le teorie dell’amore cortese, che canta l’amore libero dai vincoli

del matrimonio, frutto di un contratto. Solo l’amore puro e disinteressato, poteva essere vero. Dante

aveva poi preso le distanze da quel tipo di amore, e attraverso lo Stilnovismo aveva cercato di dirottare

l’amore dell’uomo non verso ideali e principi terreni e verso una creatura umana, ma verso Dio, fonte

e origine di ogni bene. Nel canto Dante, ascoltando le parole di Francesca, comprende l’equivoco

fatale che comportava la concezione dell’amore cortese, che poteva portare alla morte dell’anima

perché quelle teorie portavano al peccato della lussuria. La vicenda narrata è dunque una delle

certezze morali raggiunte da Dante, anche se tale processo non è disgiunto da una profonda

partecipazione nei confronti dei due innamorati. Questo

Dettagli
Publisher
A.A. 2012-2013
4 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher minniti.vale di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Onorato Aldo.