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FOLKLORE, CULTURA POPOLARE, CULTURA DI MASSA
Romanticismo e Positivismo
L'interno e l'esterno, l'alterità prossima e quella lontana fanno parte del progetto del sapere
antropologico, questo è possibile quando i ceti colti e dominanti dell'Europa moderna divengono
consapevoli della propria modernità e si apre, per riflesso, il campo dell'alterità non-moderna come
oggetto di conoscenza. Il non moderno assume così una doppia sembianza: da un lato l'arcaico, il
primitivo, il selvaggio, luoghi distanti dalla civiltà, dall’altro il tradizionale, ciò che resiste negli strati
sociali più bassi.
Come accade per il «selvaggio», l'assunzione del «popolo» a oggetto di studio si accompagna a
un ambivalente giudizio etico, da una parte si condanna l’arretratezza e dall’altra si esalta la
nostalgia. È soprattutto il folklore contadino a rappresentare oggetto di scandalo, ancor più dei
selvaggi, i colti popolari incolti suscitano derisione o indignazione per la loro arretratezza ma sono
anche oggetto di ammirazione estetica e morale.
Questa ambivalenza si innesta su due grandi basi dalla quale escono gli studi sulla cultura
popolare: quella romantica e quella positivistica.
- Romantica: Alla fine del XVIII secolo, la cultura dei ceti popolari e in particolare contadini
acquista un posto centrale nelle preoccupazioni degli intellettuali europei, ritenuta
espressione del Volkeist di Johann G. Herder, ovvero lo spirito del popolo. Viene esaltata la
spontaneità e l’autenticità dell’estetica popolare concepita come frutto di creazione
collettiva; se ne privilegia inoltra in carattere nazionale e per il romanticismo nascente il
riconoscimento del radicamento locale è fattore di fratellanza e di unione. Il romanticismo in
ogni caso si concentra più sulla cultura orale e sui prodotti folkloristici a cui è possibile
assegnare un valore artistico come per le raccolte di canti o di fiabe (le ballate di Thomas
Percy 1765, le raccolte di fiabe dei fratelli Grimm 1812-15)
- Positivismo: Domina gli studi della seconda metà dell’Ottocento e tenta di documentare tutti
gli aspetti della cultura del popolo da un punto di vista esteso di cultura, non c’è una vera e
propria delimitazione tra folklore e antropologia in quanto entrambe le discipline
documentano stadi arcaici dell’evoluzione dell’uomo e vede il folklore come sopravvivenze,
I «selvaggi» o «primitivi di oggi», al pari dei contadini europei, vivono letteralmente in
un’epoca precedente; questa tendenza all’allontanamento dell’altro nel tempo è chiamata
allocronia. Nei primi anni del Novecento il filone positivistico di studi raggiunge il suo
culmine con Lamberto Loria (1855-1913) viaggiatore, studioso e collezionista che fondò a
Firenze il primo museo di etnografia Italiana
Nella scuola evoluzionistica di fine Ottocento il metodo di comparazione consiste nel ricondurre usi
e costumi contemporanei a forme originarie che ne costituirebbero la spiegazione, nonostante la
sua ingenuità, esso ha rappresentato un potente dispositivo teorico in grado di stimolare e
documentare la ricerca teorica in tutti i campi della cultura popolare.
Il folklore come scienza e come politica
La denominazione di Folklore è stata coniata nel 1846 da William J. Thomas, con l'esplicito
obiettivo di sostituire un termine anglosassone alle denominazioni latine, fa riferimento ai tempi
antichi e ha un orientamento quasi nostalgico del passato, è evidente un’intenzione di salvataggio
nei confronti di un patrimonio che sembra destinato a scomparire. Se in periodo positivista gli studi
di folklore vanno di pari passo con quelli antropologici ci sarà una nuova scissione dopo la Grande
Guerra, come conseguenza della rivoluzione metodologica che investe l’antropologia culturale. A
partire dagli anni 20 l’antropologia viene a fondarsi su due basilari principi: la ricerca empirica del
fieldwork e l’elaborazione teorica di stampo sociologico. Gli studi sul folklore invece andranno a
basarsi su una ricerca concentrata sui singoli tratti culturali più che sulle vite complessive in
comunità, sarà più interessata sull’origine e sulla diffusione che sul funzionamento del sistema
sociale.
Mentre l’antropologia si è prevalentemente occupata di pratiche di ricerca “pura” nelle università,
gli studi di cultura popolare hanno trovato terreno nei musei e in altri ambiti “applicati” per questo
l’antropologia ha prodotto un tipo di letteratura relativamente compatta e coerente in tutta Europa
mentre il folklore si è maggiormente frammentato in scuole nazionali e ha una letteratura
diversificata infatti oggi è abbastanza semplice ricostruire una storia unitaria degli studi antropologi
mentre per quelli folklorici è più difficile.
Nel corso dell’Ottocento il folklore svolge una funzione pedagogica nella costruzione delle culture
nazionali, il lavoro degli studiosi folkloristi contribuisce alla trasmissione e alla diffusione dei
contenuti, non restano dunque esterni ma contribuiscono alla costruzione di ciò che studiano
determinando quali contenuti saranno tramandati nei secoli successivi attuando rielaborazioni o
persino creazioni delle forme che oggi definiamo folkloriche. La promozione del folklore a scopo
pedagogico o per finalità politico culturale proseguirà nei regimi totalitari del Novecento, in verità in
questi casi si dovrebbe però parlare di folklorismo dal momento che si tratta di una sua
celebrazione e si guarda alla cultura popolare come deposito di simboli di appartenenza e identità,
utili a forgiare una nuova ritualità a sostegno del potere.
Egemonia e subalternità
Dopo il congresso e la mostra etnografica del 1911, si verifica in Italia un brusco arresto degli studi
antropologici, dopo la guerra saranno due i fattori di stagnazione della ricerca folklorica e
antropologica: il primo è il fascismo che taglia i contatti tra gli studiosi italiani e le correnti
internazionali, il soffocante abbraccio delle istituzioni fasciste sul folklore ne compromette infatti
l’autonomia portandoli a un approccio puramente teorico. Il secondo motivo è l’idealismo
ideologico di Benedetto Croce che non vede di buon occhio lo sviluppo delle scienze umane e
sociali.
Le cose cambiano radicalmente nel secondo dopoguerra grazie alla riapertura verso la cultura
internazionale e grazie agli interventi di Antonio Gramsci che dedica alcune importante pagine dei
Quaderni proprio al folklore definendo le dinamiche dei rapporti sociali un tratto culturale, non più
quindi la tradizione e l’antichità. Secondo lui il folklore è formato da un “agglomerato indigesto” di
diversi frammenti della cultura percepiti dalle classi popolari e lo ripensa quindi come fenomeno
centrale nei rapporti tra classe e come conseguenza dei processi egemonici. Con Gramsci il
folklore è posto al centro della teoria e della pratica politica.
In questo periodo intellettuali come De Martino (che cerca di dare voce alle plebi del Mezzogiorno),
Gianni Bosio (che col magnetofono registra e raccogli documenti dalla cultura popolare) e Alberto
M. Cirese (che col manuale “cultura egemonica e cultura subalterna” mette in evidenza che non ci
sono culture alte o basse ma la loro natura dipende dal contesto storico-sociale) dimostrano come
la tematica gramsciana sia radicata nell’antropologia italiana. Questi modelli si avvicinano a forme
di inchiesta e di denuncia che quindi sfocia anche al di fuori dell’ambito di studi antropologico.
I lavori più noti sono quelli di Carlo Guinzburg (1966-1976) che cerca di ricostruire strati culturali
autonomi analizzando i processi dell’inquisizione, una ricerca particolarmente difficile in quanto per
le culture subalterne generalmente non sono conservati documenti ufficiali.
Folk Revival
Tra gli anni 50 e 70 l’apprezzamento per il valore progressivo o alternativo del folklore si salda a un
folk revival di tipo estetico e commerciale. Il folk da oggetto di interessi specialistici diviene un
apprezzato genere del consumo di massa. Dall’inizio il folklore è stato assunto come argine alla
modernizzazione che con l’industrializzazione e i flussi di inurbamento avevano portato allo
spopolamento delle campagne. La televisione nei primi anni 50 realizza l’unificazione linguistica, e
per certi aspetti culturale, del paese. L’universo culturale contadino nel giro di una generazione si
disgrega.
La modernizzazione non cancella le differenze di classe ma non c’è più una corrispondenza
lineare fra esse, l’alterità non è definita da distanze spaziali o sociali ma un tratto del passato da
ricordare, valorizzare e rappresentare. Se la generazione dell’inurbamento vedeva la cultura
contadina come un imbarazzante retaggio di arretratezza, le generazioni successive ne hanno
fatto oggetto di nostalgia. Con la poetica del folk revival ci si contrappone alla “volgarità” e
all’inautenticità della cultura di massa, come Pier Paolo Pasolini denunciava i suoi effetti
omologanti e alienanti. Questa diffusa poetica spinge a una volontà di recuperare il passato
contadino e si dà impulso alla museografia antropologica su piano locale per realizzare questo
“salvataggio”. Tutto ciò accade sulla base dell’alleanza e della convergenza tra gli obbiettivi di tre
diversi agenti culturali: studiosi, protagonisti portatori della tradizione e amministrazioni locali.
Il paradigma patrimoniale
Il folk revival culmina negli anni ’70 e combina diverse tendenze: Il pensiero e la partecipazione
Gramsciana, l’attrazione di un ampio pubblico, la poetica anticonsumistica e la valorizzazione del
territorio; si indebolisce tuttavia negli anni 80 e dagli anni 90 si afferma una nuova cornice o
paradigma, incentrata intorno alla nozione di memoria e di patrimonio, l’Unesco se ne fa interprete
e detta il nuovo linguaggio e i nuovi obbiettivi per la valorizzazione delle culture locali e tradizionali.
Una convenzione del 1972 ha creato la lista dei beni culturali e naturali in prevalenza di carattere
storico-artistico e monumentale, a questa liste se ne sono aggiunte altre successivamente come
quella delle memorie del mondo e quella del patrimonio immateriale.
Nel 1993 un programma denominato “Tesori umani viventi” e nel 1999 quella dei “capolavori de
patrimonio orale e intangibile dell’umanità” cercarono di favori il sistema della trasmissione di
saperi tradizionali ma il termine tesoro o capolavoro non è adatto perché sottintende che siano
migliori rispetto ad altri, la cultura in senso antropologica non è qualcosa di raro ma &egra