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Orazio dice che porta a Roma il genere giambico.
La poesia lirica
La poesia lirica (Lyrica) è la definizione generale di un genere letterario della poesia che
esprime in modo soggettivo il sentimento del poeta ed attraversa epoche e luoghi vastissimi.
La lirica greca
Nell'antica Grecia, la poesia lirica era quella che si differenziava dalla poesia recitativa per il
ricorso al canto o all'accompagnamento di strumenti a corde come la lira. Ai grammatici
alessandrini si deve il canone dei più illustri rappresentanti del genere lirico. Costoro
operarono una scelta tra gli autori di composizioni intonate sulla cetra da una sola persona e
quelli guidati da un gruppo corifeo. Rifacendosi al significato letterale
dell'aggettivo "lirico", gli alessandrini tralasciarono gli scrittori di elegie. Infatti i giambi e le
elegie venivano recitate e l'elegia era anche accompagnata da un sottofondo
di flauto (aulos). Nell'usare oggi l'espressione "lirici greci" si fa però riferimento, in senso
più lato, a tutto un modo di produrre versi che copre in Grecia l'arco di due secoli, il VII
secolo a.C. e il VI secolo a.C. La poesia greca di questi due secoli è accomunata da due
caratteristiche. La prima consiste nel fatto che l'autore, pur rispettando i limiti del genere, si
muove al suo interno con estrema libertà e la seconda è che essa si distingue per la sua
oralità. Essa viene "detta" ed è destinata alle orecchie, come dice Platone in una definizione
della Repubblica. Lo stile si distingue per la brevità dei periodi ben allineati e senza
difficoltà sintattiche e per le molte metafore destinate a rimanere incise nella memoria. Il
motivi che ispirano la lirica greca sono molteplici. Vi sono componimenti dedicati
agli dei (inni), in onore di Dioniso (ditirambo), di Apollo (peani). Alle divinità femminili
vengono dedicati i parteni, i vincitori di gare vengono esaltati negli epinici e
l'ospite patrono negli encomi. I treni e gli epicedi sono riservati alle consolazioni funebri e
ai compianti, gli epitalami e gli imenei alle nozze, gli scolii ai banchetti,
alle danze mimiche gli iporchemi e alle processioni i prosodi. Non vi sono delimitazioni, per
cui ogni poeta può spaziare in più campi e utilizzare i moduli di un componimento anche in
un altro. L'elegia e il giambo, di matrice ionica, sono caratterizzati da serie continuate di
versi, dagli esametri e pentametri dattilici ai trimetri giambici e ai tetrametri trocaici.
La melica monodica non va oltre l'aggruppamento di strofe composte da quattro versi,
mentre quella corale procede per stanze, strofe, antistrofe ed epodo. Nella lirica monodica
il linguaggio è il dialetto dello scrittore, mentre la lirica corale preferisce usare il dorico,
considerato linguaggio letterario internazionale. Dopo il V secolo a.C. la lirica subisce una
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grande trasformazione ad opera degli alessandrini che compongono carmi raffinati destinati
a persone colte.
La lirica latina
I poeti romani prendono spunto dai lirici greci e dagli alessandrini però le strutture e i temi
sono differenti, come si può constatare in Catullo, Orazio, Properzio e Ovidio. L'opera
di Catullo è composta da carmi diversi l'uno dall'altro e basata su una molteplicità di ritmi
metrici e di contenuti che spaziano dall'epopea amorosa a quella mitologica. L'opera
di Orazio si sviluppa in due dimensioni: da un lato le Satire e le Epistole, componimenti in
esametri di ispirazione moralizzante, dall'altro le Odi, canti lirici dedicati alla virtù romana e
all'amore. Ma è proprio analizzando la poesia di Orazio che si constata la differenza tra
il mondo greco e quello romano. Mentre per i greci la lirica, caratteristica di un periodo
pieno di fermento, va oltre le definizioni fissate dalla scuola, in campo latino essa diventa
una vera e propria categoria tanto da essere preceduta, come in Publio Papinio Stazio, da
una prefazione in prosa. Properzio compose quattro libri di Elegienarranti amori contrastati
e impossibili. Ovidio scrisse Elegie e libri dedicati alla pratica dell'amore, oltre
ad Epopee cosmogoniche.
Nella lirica di Orazio mancava la musica.
Le Bucoliche rappresentano un'autoedizione pubblicata dall'autore stesso, il che significa
che al momento della sua pubblicazione il poeta può aver modificato il testo. Nel mondo
antico le opere circolavano prima dell'edizione definitiva.
Ogni poesia del mondo greco è di singola occasione. L'autoedizione è una serie di poesie
collegate fra di loro.
Presso i Greci e i Romani, il simposio era quella pratica conviviale (da qui anche
chiamato convivio), che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali
bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia), si
dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi
ecc.)
Quintiliano nel libro decimo si rivolge all'oratore che ha compiuto il suo percorso scolastico,
è l'allievo che conosce tutti gli aspetti della retorica. Nel primo capitolo dell'ottavo libro si
affronta la lettura dei testi, per imparare a leggere e a scrivere. Anche in questo capitolo
Quintiliano parla anche delle letture che bisognava fare. Ad un certo punto dice:
“Serve nutrimento anche per i poeti lirici, se tuttavia in questi poeti lirici tu sceglierai non
solo gli autori ma anche le parti delle loro opere.” - perché non tutte le opere sono adatte ai
giovani di quell'età (dai 9 ai 16 anni) - “I greci infatti hanno dentro molte cose e non vorrei
che Orazio fosse spiegato con certe opere.” 21
Questo vale anche per l'elegia: “Ma da questi studi devono essere eliminati anche i poeti
elegiaci, sopratutto quelli che trattano di temi amorosi. Elegia e giambo devono essere tenuti
distanti se questo è possibile; se non è possibile devono essere riservati alla forza quando si
avrà un'età più matura.”
P 97 → Quintiliano
Il teatro a Roma
Nel periodo arcaico il termine latino fabula designava qualsiasi rappresentazione teatrale
tragica o comica. Il genere ebbe un grande sviluppo: il teatro rappresentava un momento di
intrattenimento collettivo a carattere popolare e, in quanto tale, a Roma era organizzato, a
spese dello Stato, dagli edili e dal pretore urbano durante le cerimonie religiose. La
popolarità che esso arrecava poteva infatti tradursi facilmente in un vantaggio per la carriera
politica, così che talvolta erano gli stessi magistrati ad assumersi l’onere delle spese dei ludi
scaenici, che si tenevano durante le feste religiose (feriae), nelle quali, oltre alle cerimonie
sacrali, si disputavano gare sportive (ludi circenses) e si tenevano spettacoli di vario genere.
La rappresentazione di tragedie e di commedie avveniva durante le feste religiose principali,
che a Roma erano quattro: in aprile, in onore della dea Cibele, la Magna Mater, si tenevano
i ludi Megalenses, istituiti nel 191 a.C.; in luglio i ludi Apollinares, fondati nel 212 in onore
di Apollo; in settembre i ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo, che erano i più
antichi perché risalivano al 364; infine, in novembre, i ludi Plebeii, iniziati nel 220 in onore
di Giove. A queste feste si devono aggiungere anche i ludi Floreales, iniziati nella seconda
metà del sec. III, ma celebrati con regolarità dal 173 a. C., e altre feste di carattere
straordinario, come quelle per il trionfo di un generale.
Prima del 55 a.C., anno in cui fu costruito il primo teatro permanente in pietra, quello di
Pompeo, le rappresentazioni erano tenute su un palcoscenico in legno (pulpitum)
provvisorio, montato in una via o in una piazza, soprattutto al Circo Massimo e al Circo
Flaminio. La scena era rappresentata da pannelli mobili dipinti, provvisti di porta per
consentire l’ingresso degli attori. Una serie di sedili mobili permetteva ai patrizi e, forse,
anche ad altri spettatori di assistere alla rappresentazione seduti, mentre il resto del pubblico
stava in piedi. Le parti femminili erano recitate da attori maschi, riuniti in compagnie
(greges) dirette da un capocomico (dominus gregis). Gli attori bravi diventavano famosi e
guadagnavano bene, ma erano quasi tutti schiavi o liberti. Gli autori stessi non erano di
elevata condizione sociale e nessuno di loro era nato a Roma. Quando nel 207 a.C. venne
fondato il collegium scribarum histrionumque, cioè una specie di corporazione degli autori e
degli attori, con sede sull’Aventino nel tempio di Minerva, nessun libero cittadino romano
ne entrò a far parte. Tuttavia l’istituzione di questo collegium stava a indicare non solo
l’importanza che il teatro aveva assunto nella città, ma anche l’esistenza di altri scrittori di
cui non è rimasto il nome, oltre a Livio Andronico e a Gneo Nevio; uno di questi compose
il Carmen Priami, un altro il Carmen Nelei.
Sulla scena gli attori indossavano maschere e parrucche in modo che gli spettatori potessero
riconoscere immediatamente il tipo di personaggio: il vecchio, il giovane innamorato, il
parassita, l’avaro, il soldato fanfarone, la matrona, lo schiavo, il padrone e altri ancora. Non
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si sa se le maschere fossero già in uso all’epoca di Andronico, ma lo era senz’altro nel sec.
II a.C.
Le tragedie erano scritte in un linguaggio solenne, lontano da quello quotidiano, almeno da
quanto si desume dai pochi frammenti pervenuti, nonostante il genere fosse molto
rappresentato in tutta l’età repubblicana. Le commedie usavano, invece, una lingua più
familiare e prevedevano parti recitate e cantate con grande varietà di metri e un ricco
accompagnamento musicale, eseguito da un flautista. I temi trattati erano quelli della
famiglia, del denaro, della gelosia, dell’amore contrastato, dello scambio di personaggi
dovuto alla somiglianza. Qualsiasi riferimento alla vita politica e sociale contemporanea era
escluso, anche perché le autorità esercitavano sulla fabula una censura preventiva,
controllando ciò che si metteva in scena. Non vigeva certo la libertà di espressione di cui
godevano gli autori greci.
Il mimo era uno spettacolo, di origine greca, in cui venivano parodiate situazioni, figure,
aspetti della realtà quotidiana. Era una forma di intrattenimento popolare che si alternava
all’atellana e che godeva di un pubblico assiduo e attento, in quanto la rappresentazione non
richiedeva allo spettatore nessuno sforzo mentale. Aveva come scopo quello di suscitare la
risata e questo era affidato all’abilità e alla vena comica degli attori, che improvvisavano su
un canovaccio una satira pesante e spesso oscena, entrando in scena senza maschera e a
piedi nudi (planipedes). Il fatto più notevole era che nel mimo recitavano an