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Esiodo è l’agricoltura, il poema illustra secondo una successione cronologica di
mesi e di giorni i lavori agricoli necessari per la conduzione ideale di un
appezzamento di terreno. pur essendo dunque un’opera caratterizzata da una
struttura argomentativa “Le opere e i giorni” presenta anche alcune inclusioni
narrative, alcune sezioni di narrazione, ci riferiremo alla più estesa e famosa di
queste inclusioni narrative, i versi 109-126 contengono un’estesa narrazione delle
età attraversate dall’umanità dall’origine fino ai giorni nostri. Il mito delle cinque età
dell’umanità è un mito che Esiodo non inventa, ma raccoglie ed espone e tale mito
trova paralleli molto simili anche in culture molto lontane da quella greca, tale mito
vuole che l’umanità nella sua evoluzione sia passata per cinque fasi la prima è l’età
dell’oro, la seconda dell’argento, la terza del bronzo, la quarta degli eroi, la quinta in
cui attualmente l’uomo vive, del ferro. Vediamo che con eccezione della IV ogni età
è denominata da un metallo secondo una gradazione discendente dal metallo più
prezioso a quello più vile (=dal’oro al ferro)
Dalla collana dei nuovi classici greci e latini, istituto editoriale italiano tradotta da
Aristide Colonna
“Nei primissimi tempi una stirpe aurea di uomini mortali crearono gli dei
immortali, dei immortali che hanno la loro dimora sull’Olimpo.
Quegli uomini furono al tempo di Crono quando egli regnava nel cielo ed essi
vivevano come dei avendo l’animo sgombro da dolori, lontano e al sicuro
dalle fatiche e dalle sventure. Non incombeva su loro la triste vecchiaia ma
sempre con lo stesso vigore nelle mani e nei piedi godevano in festa, al di
fuori di tutti i malanni morivano come presi dal sonno, ogni cosa bella essi
avevano. La terra feconda recava loro frutti spontaneamente, molti e senza
risparmio, essi quindi contenti e sereni si godevano i loro beni in mezzo a
gioie infinite ricchi di greggi cari agli dei beati”
Quest’ultimo tratto viene espunto dalla gran parte degli autori, viene considerato
un’interpolazione
“E dopo che questa stirpe ricoperse la terra facendola scomparire essi sono i
geni per volere del grande zeus quelli buoni, terrestri, custodi degli uomini
mortali i quali stanno a guardia delle opere giuste e delle ingiuste recinti di
nebbia vagando dappertutto sulla terra datori di ricchezza che questo dono
regale essi ebbero”
Quest’ultimo tratto del testo è oscuro e richiede un ricorso esegetico livello
denotativoo: Gli uomini felicissimi dell’età dell’oro ad un tratto scompaiono per
lasciare spazio alla generazione successiva, quella dell’età dell’argento ma
scompaiono assurti ad una condizione superiore, semidivina quella che la
traduzione definisce quella di geniiiii. Non muoiono e si uniscono ala terra ma
vengono assunti nel pantheon per volere di Zeus e diventano divinità minori (in
greco Daimones, il testo dice quelli buoni. Che cos’è un daimonnn nell’orizzonte
della religione greca classica. Daimonnn deriva deriva dal verbo daiooo (fare a
pezzi, dividere, il Daimonnn è una porzione della sorte che il destino ha immaginato
per ciascuno di noi, ed esiste un destino buono e uno cattivo).
Il secondo ipoteso parimenti famoso corrisponde ad un passo dell’Odissea, passo
tratto dal libro IX versi 105-141. Il libro IX è il libo in cui comincia la narrazione di
Ulisse alla corte del re Alcinooo (re dei feaci, popolazione mitica, che ospita ulisse
naufrago ritrovato sulla spiaggia dalla figlia di re Alcinoo, la principessa Nausicaa
dopo essere stato pulito e sfamato intrattiene la corte con la narrazione delle sue
peripezie, nel libro IX all’altezza di quei versi inizia la narrazione di una delle più
famose avventure vissute da Ulisse ovvero l’avventura presso i ciclopi. Ci interessa
l’attacco di quest’ultima.
Traduzione dall’edizione Einaudi di Rosa Carzecchi Onesti
“Di là navigammo avanti sconvolti nel cuore e dei ciclopi alla terra ingiusti e
violenti venimmo i quali fidando nei numi immortali non piantano (…?) ma in
seminato e in arato là tutto nasce grano, orzo, viti che portano il vino nei
grappoli e a loro rigonfia la pioggia di zeus. Essi non hanno assemblee di
consiglio, non leggi ma negli eccessi monti vivono sopra le cime in grotte
profonde. Fa legge ciascuno ai figli e alle donne e l’uno dell’altro non cura.
Un’isola piatta davanti al porto si estende non vicina né molto lontana dalla
terra dei ciclopi, boscosa e vi nascono capre infinite, libere, passo d’uomini
mai le spaventa né i cacciatori le inseguono ch’ei fra le selve sopportano
spenti correndo le cime dei monti né da pastori sono possedute né da aratori
ché l’isola sempre inarata e inseminata d’uomini è vuota nutre capre belanti.
Non hanno i Ciclopi navi dalle guance di minio (?) non mastri fabbricatori di
navi ci sono che sudino a far navi solidi banchi e queste poi tocchino uno per
uno i gorghi degli uomini come gli uomini spesso gli uni gli altri cercandosi in
mare sulle navi attraversano. Essi potrebbero anche far l’isola ben abitata
perché non è sterile e produrrebbe ogni sorta di frutti, vi sono prati dal mare
schiumoso lungo le rive umidi e morbidi e vigne durevoli potrebbero
crescervi, facile per l’aratura colta sempre la messe alla stagione potrebbero
mietere e molto pingue è il suolo di sotto, c’è un porto comodo dove non c’è
bisogno di fune o di gettare l’ancora o di legare le gomene ma basta
approdare e restare a piacere fino a che l’animo dei marinai non ha fretta e
non spirano i venti. In capo al porto scorre acqua limpida da una sorgente
sotto alle grotte, pioppi crescono lì intorno”
Ora ripercorriamo il testo lucreziano evidenziando sequenza dopo sequenza unità
argomentata dopo l’altra le varie componenti del dialogo fra ipertesto ed ipotesto
vedendo cioè che cosa è stato ritenuto e che cosa è stato lasciato cadere da
Lucrezio. Quali sono le analogie? Quali le differenze? le similitudini e gli scarti fra
ipertesto e ipotesto. Cominciamo in ordine dalla prima microsequenza cioè quella
racchiusa fra i vv. 925-930 e dedicata all’aspetto fisico dei primi uomini.
La direzione evolutiva disegnata da Lucrezio va da un’eccezionale durezza
primitiva all’indebolimento e ciò viene chiaramente esplicitato al v. 1014 “allora il
genere umano cominciò per la prima volta ad indebolirsi” (Mollescere è una
vox media, si definisce in questo modo un termine che può avere una valenza
positiva ma anche negativa, altro esempio di vox media è il termine latino fortuna).
Nella narrazione esiodea si nota una direzione diametralmente opposta, la gente
dell’et dell’oro era più debole e raffinata di quella delle età successive, in particolare
questo procedimento si nota non nella pericope da noi analizzata ma all’attacco di
una microsequenza successiva all’età aurea, quella dedicata all’illustrazione
dell’età del bronzo. Di quest’ultima leggiamo i versi 143-149.
“E Zeus padre una terza stirpe di uomini mortali creò, quella del bronzo, per
nulla simile all’argento, nata dai frassini (legno più duro secondo l’esperienza
antica) terribile, possente, ad essi stavano a cuore le opere di Ares funeste e
le violenze, non mangiavano il grano ma possedevano un cuore duro come il
diamante- le immagini del diamante e del frassino ci danno l’idea della
durezza di questi nuovi uomini rispetto ai precedenti- spaventosi all’aspetto,
una forza immane e nelle mani invincibile veniva dagli omeri del loro corpo
possente”
se per Lucrezio la parabola evolutiva dell’uomo comincia dall’eccezionale durezza
e si dirige verso l’indebolimento, al contrario per Esiodo la raffinatezza e la
debolezza dei primi uomini dell’età dell’oro vede succedersi di grado in grado
uomini sempre più duri e forti, e rozzi.
L’ipotesto in questo caso è stato del tutto ricusato e smentito da Lucrezio, il quale
diverge radicalmente da Esiodo e lo fa appoggiandosi non alla narrazione
fantastica, mitica ma appoggiandosi a convinzioni razionali e scientifiche cioè a
quelle origini Ctonie del genere umano (Ctonio significa dalla terra). Tali
argomentazioni razionali fanno sì che Lucrezio prende le distanze da Esiodo in
base al principio logico di Similia (?) similibus (ovvero ciò che è simile nasce da un
essere simile) se la terra è dura come ribadisce il v. 926 i figli concepiti dalla stessa
terra non potevano essere anch’essi esserci che non rispecchiassero questa
durezza e robustezza della madre, in questa logica per Lucrezio è inconcepibile
pensare che caratteristica primigenia del genere umano fosse una debolezza e una
raffinatezza poi perduta con il susseguirsi delle generazioni. L’approccio di Lucrezio
ai du ipotesi è razionalizzante, che ha come criterio e come vaglio il logos, la ratio,
la filosofia e la scienza epicurea in base alle quali ritenere o rigettare in tutto o in
parte ciò che gli viene dato da altri testi, qui la recitassi di esiodo è assoluta.
Non così è il rapporto fra il testo lucreziano e la narrazione odissaica del libro IX,
qui si colgono alcune analogie: Consonanza esteriore fra l’aspetto fisico dei primitivi
lucreziani e quello dei ciclopi omerici, i vv 190-192 (in un tratto inferiore rispetto a
quello da noi letto) ci parlano dell’aspetto di Polifemo
“Era un mostro gigante, non somigliava ad un uomo ma a un picco selvoso
di isolati monti”
Il paragone fra il ciclope e il picco montuoso ribadisce ciò che Omero ha detto
implicitamente prima ovvero che si tratta di un mostro gigante e il paragone con il
picco montano non ne sottolinea solamente l’eccezionale statura ma anche
l’eccezionale durezza, dunque misurata statura ed eccezionale forza uniscono i
ciclopi al ritratto dell’uomo primitivo di Lucrezio, la cui caratterizzazione risente del
testo odissiaco solo per quanto riguarda la caratterizzazione esteriore non per la
connotazione morale, ancora una volta egli si appella alla scienza epurando il
racconto mitologico da tutto ciò che è inventato da parziali verità che possono
essere spiegate razionalmente, completamente falsa ( e infatti Lucrezio la lascia
cadere) è la convinzione che si manifesta nel passo dell’Odissea ovvero la
convinzione dell’esistenza dei giganti o creature gigantesche per staura e per forza
come sono i giganti e i