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TITOLO: COMPARAZIONI E CONTAGI
Orbita attorno a un caso etnografico specifico, uno solo. Che è la ricerca sul campo del prof. Allovio fra i
Mambetu del Congo nord-orientale.
Partiamo dalla cartina: Rep. Dem. Del Congo in cui vediamo un affluente del Congo (fiume), indica il punto
in cui ha svolto le sue ricerche etnografiche. Bisogna sempre ricondurre al testo: nel primo capitolo si è visto
come l’etnografia e quindi la ricerca sul campo sia centrale e fondamentale per l’antropologia, nel secondo
capitolo il terreno di ricerca è proprio quello di chi parla.
Il lavoro sul campo comprende una serie di sprovvedutezze che emergono sempre; fatto sta che lui ha
condotto i suoi studi a partire dal 1994, quando lavorava in Burundi. Nello stesso anno in Rwanda c’è stato
un colpo di stato e a seguito un genocidio. Lavorare in contesti di violenza non gli andava, a differenza di
altri suoi colleghi invece interessati proprio da situazioni di violenza. Lui non ha ritenuto opportuno che ci
fossero le condizioni contestuali di protrarsi lì a fare domande stupide a persone intelligenti. Ha avuto un
atteggiamento sempre molto personale nell’affrontare a violenza: occuparsi di cose turpi ha sempre una
certa attrazione, allora come ricercatore si chiese se è giusto che lui faccia carriera e scriva libri sulla
sofferenza degli altri? Ha sempre avuto un po’ un atteggiamento di resistenza. In ogni caso sono fatti sociali
ed è anche giusto che ci sia chi li racconta e li fa emergere.
Ma lui se n’è andato dal Burundi per una sua decisione personale e si è spostato in una zona completamente
diversa dell’Africa e questo deve essere per noi utile culturalmente e linguisticamente utile: è come spostarsi
da qui a Tokyo e dal punto di vista culturale lui non aveva più nessun ancoraggio. Lingue bantu, lingue
sudanesi orientali. In Africa ci sono quattro macrocategorie linguistiche: bantu, sudanesi, arabo e altre
lingue… cioè non son tante le categorie eppure lo spostamento di “pochi” km ha rappresentato il ripartire
da zero. In un certo senso dobbiamo sempre diffidare di sguardi marco sulle aree culturali: cioè parlare di
cultura africana, che senso ha? Esiste una cultura asiatica? Esiste una cultura europea? Esiste un’Europa, una
stratificazione europea, esiste una storia europea che ha creato connessioni contatti mescolanze. Ma siamo
sicuri che fare etnografia a Valencia o a Copenaghen porti e si inserisca su un orizzonte comune e qual è
quell’orizzonte comune dal punto di vista linguistico e culturale? Esiste una cultura cinese? Io non me ne
occupo, ma per chi se ne occupa e vuole cercare significati indigeni e locali è difficile parlare di ‘’cultura
cinese’’. Poi certo la Cina ha una storia, è una repubblica, l’uniformità viene in un certo senso garantita, come
per chi faceva servizio militare come i nostri nonni che erano distribuiti per l’Italia e ascoltando la TV si sono
creati un’uniformità italiana, però dal punto di vista antropologico, un lavoro di scavo etnografico nei
significati linguistici locali presuppone sempre un limite di diversità che allora ci deve far diventare
sospettosi di usare macrocategorie sempre. Queste macrocategorie possono ad esempio funzionare in certi
casi per la cultura africana, per esempio con la stregoneria. C’è una parte di letteratura africana che ci indica
che la stregoneria in varie zone differenti è sempre la stessa cosa: non esiste lo stregone, che è una sostanza
interna, che uno inconsapevolmente è stregone e crea dei danni e questa sostanza interna può essere
qualunque cosa. Ci sono dei sistemi di divinazione che servono a scovarla, come il dottore da un nome al
disagio fisico. Con la divinazione è lo stesso, si va da qualcuno che sa leggere le carte o i fondi di caffè o i
bastoncini piantati in un termitaio e dice: chi è stato a stregarmi che ultimamente ho un po’ troppe disgrazie
in famiglia? Ecco la divinazione scopre che qualcuno ti sta creando del male a sua insaputa. Questo
dispositivo della narrazione della sventura in africa è molto comune, allora si può dire la stregoneria africana
è una categoria macro. Però non per tutto può essere utilizzata una macro categoria che dice “l’Africa”
Addirittura noi possiamo avere dei pregiudizi sulle culture: si dice la cultura africana è la famiglia e la
collettività sopra l’individuo. Nessun africanista ha potuto dire, me compreso, che ci sia solidarietà familiare
in africa. La mamma dice al bambino vai a prendere l’acqua che magari sta a 3km di distanza e lui che ha
11 anni lo dice al fratello che ne ha 8 e quello al fratello che ne ha 6 e così via e poi parte quella che ha 4
anni con sta tanica. Ci sono rapporti di gerarchia molto stretti nelle famiglie. Ecco quello spesso succede è
avere una visione pregiudiziale nel vedere negli altri quello che non abbiamo più e quindi ci farebbe piacere
che gli altri fossero solidali a livello famigliare che fossero ecologici (ricordate la riflessione dei riti di
iniziazioni ecologici: non è detto che i coltivatori vogliano per forza conservare la natura, molti non vedono
l’ora di distruggere la natura). Quindi non si sta parlando dell’africa ma di contesti specifici.
Per lui quindi lo spostamento dal burundi al Congo ha rappresentato una trasformazione enorme. Oggi
parlerà soltanto della sua esperienza sul campo che si può trovare nel libro ‘’La foresta delle alleanze’’,
Laterza 1999. Frutto di una lunga esperienza tra il 94 e il 96, nella provincia orientale del Congo (tra Sudan
e Uganda) e mostra vari nomi di gruppi etnici sulla cartina disposti nell’angolino. Nella regione ci sono
gruppi di lingua sudanese orientale (quelli che iniziano con ‘Mb’) mentre i bamba gli abarambo e gli zande
sono di lingua ugandese. Gli altri sono di lingua bantu. ‘ba’ e ‘wa’ spesso è lo stesso prefisso, ma l’oralità si
sedimenta nella pronuncia quindi noi abbiamo i batussi e i watussi che sono la stessa cosa. Addirittura a me
parlavano dei Mangbetu come bambetu ma sono la stessa cosa in lingua bantu. In questa regione si parlando
moltissime lingue, lo storico dell’africa americano Vansina dice: ma è possibile che in questo angolo tra la
foresta e la savana nel nord del congo siano arrivati da tutte le parti dell’africa dal pdv linguistico? Questo
per un antropologo è una tragedia perché in un villaggio si possono parlare lingue molto differenti. Esistono
comunque delle lingue franche come per noi è un po’ l’inglese. Ci sono 2 lingue franche: a ovest si parla il
lingala, lingua dei soldati dello zaire, lingua bantu che arriva da ovest e di cui oggi si sta assistendo a una
francesizzazione: ci sono sempre più termini francesi. A est invece si parla la lingua swahili (o il kiswahili)
e il ki è il prefisso linguistico. Ci sono culture in italia a napoli di lingua swahili, cultura della costa
dell’oceano indiano e dell’isola di zanzibar. È diventata la lingua franca dell’africa perché i viaggiatori arabi
assoldavano mercanti di zanzibar per penetrare nel continente perché gli arabi non erano in grado di entrare
in africa, mentre gli swahili erano grandi commercianti e riuscivano a entrare all’interno. I 2 importanti
zanzibariti: uno è tippu tip che è considerato uno dei piu grandi schiavisti (presa in giro per lui chiamato
appunto tippu tip) e l’altro è freddie mercury. L’oceano indiano è molto connesso con la costa africana che
ha rapporti millenari con l’india e la cina. Quindi noi siamo molto lontani dalla costa ma si parla in swaili
come lingua franca, che però non serviva più di tanto perché c’erano villaggi lingala e villaggi swahili.
Questa parte Pag 59 – pag 69 > riassunto del suo libro del ‘99.
Allovio mette il suo esempio etnografico tra molti, ma è il suo punto di partenza: da ciò che conosce parte
per avanzare alcune argomentazioni. Partiamo dalla domanda: l’etnografia quali riflessioni può far fare in
termini generali? Se si studia così il capitolo è molto piu semplice, invece andando a rassegna nell’elenco dei
vari presi ad esempio non è facile capire cosa ricordare. Dice che è meglio ricordare questo esempio non
perché abbia qualcosa di particolare in più degli altri, ma perché è scritto meglio dal momento che l’ha
vissuto in prima persona. Utile a livello di frequentanti a livello di studio del capitolo 2. Domani cerchiamo
di connettere alla ricerca sul campo le varie considerazioni, in modo tale che si possa contestualizzare il
discorso sull’etnografia di cui si è parlato nel primo capitolo.
Il contesto: io ho iniziato la mia esperienza per la tesi di dottorato. Ero un po’ in crisi, orfano di campo come
tanti antropologi lo sono, e dopo quello che è successo in Rwanda, dove avevo assunto dopo 3 anni
competenze linguistiche studiando i Kirunghi.. anche in Burundi c’è stata una guerra a bassa intensità che
ne ha ammazzati tantissimi lo stesso. Non ritenevo che fosse opportuno investire i 4 anni di dottorato in una
zona così disastrata. E allora ero alla ricerca di un campo. una collega aveva incontrato un medico
missionario di origine bretone (morto di febbre emorragica) con cui potresti andare a parlare. Io non stavo
a milano, studiavo a torino ma l’ho incontrato a milano e sono partito per un villaggio, passando per la
capitale kinshasa. Deciso di andare fra i mambetu nel ’94-‘95 le ricerche su internet erano proprio agli
albori e digitando mambetu cominciano ad apparirmi oggetti artistici. Oppure immagini storiche. Tutti i
musei etnografici del mondo hanno oggetti mambetu. Allora comincio a chiedermi perché. Essenzialmente
è perché nell’alto congo 1909 si reca una spedizione del museo di storia naturale di NY: essendo una colonia
del belgio, che non voleva far arrivare spedizioni di scienziati europei, ammette questa spedizione USA
perché non c’era interesse coloniale in questa zona. La spedizione aveva da riempire le sale dedicate all’africa
e approfitta di questa situazione. Studiano gli animali, come il locapi che c’è solo lì e che è un po’ giraffa e
un po’ antilope. Addirittura i pantaloni venivano fatti di locapi. C’era grande attrazione per i pigmei e per la
caccia dell’elefante. Ci si rende conto che in questa zona c’è una cultura favolosa (mostra immagini). Avevano
una caratteristica che contribuisce che i mambetu diventano famosi: capigliature (foto della moglie del re
mumbza) perché i bambini si praticava la deformazione del cranio, ma oggi nell’immaginario occident