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AREA SUPERIORE AREA INFERIORE

Mondo “celtico” Mondo “italico”

Elemento narrativo, storico-romanzesco Elemento lirico-amoroso

COMUNE “STRATO” LATINO

2. Tra antropologia e demologia

Nella seconda metà dell’Ottocento si svilupparono altri interessi. Il lombardo Paolo Mantegazza

(1831-1910), convinto sostenitore dell’evoluzionismo in campo biologico, contribuì in modo deter-

minate alla diffusione delle teorie dawrniane in Italia. A Firenze fondò il Museo di Antropologia e di

Etnografia (1869) e fu titolare della prima cattedra di Antropologia (‘71).

L’evoluzionista toscano Tito Vignoli (1829-1914), fu professore di Antropologia a Milano e diret-

tore del Museo di Storia Naturale della città. Pubblicò Mito e scienza (1879) in cui espose la sua vi-

sione sul pensiero umano, avendo una certa influenza sui successivi studi iconologici.

Il siciliano Giuseppe Pitré (1841-1916) era invece medico, autore di una raccolta di testimonianze

del mondo popolare-contadino siciliano: fu il vero iniziatore della demologia italiana, soprattutto

grazie alla sua lunga opera di raccolta e registrazione poi confluita dai 25 volumi della Biblioteca

delle tradizioni popolari siciliane: raccolse proverbi, favole, credenze, pratiche magico-mediche,

giochi e divertimenti popolari. Fondò un museo etnografico a Palermo.

3. Dall’esplorazione extra-europea all’etnografia dell’Italia: Lamberto Loria

Non bisogna dimenticare che alcuni italiani furono eccellenti esploratori-etnografi, soprattutto afri-

canisti: ma anche queste ricerche non furono inquadrate in un progetto scientifico sistematico.

14

Il più rilevante etnografo italiano a cavallo fra Otto e Novecento fu Lamberto Loria (1855-1913):

nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, viaggiò in diversi paesi (Turkestan, Lapponia, Eri-

trea, Nuova Guinea, Isole Trobriand) raccogliendo collezioni etnografiche. Nell’ultimo periodo della

sua vita si dedicò all’etnografia italiana. Fondò il Museo di Etnografia italiana (1906) e la Società di

Etnografia italiana (1910).

Organizzata nel 1911 per il 50° anniversario dell’Unità, la Mostra di Etnografia Italiana fu

organizzata da Loria per offrire un’immagine “autentica” dei ceti popolari. I costumi “popolari”

vennero riprodotti secondo una spregiudicata manipolazione dei reperti originali, così che la mo-

stra fu a cavallo fra autenticità e finzione: i costumi vecchi (sgualciti, rotti, sporchi) erano stati ri -

prodotti secondo una strategia di costruzione identitaria volta a rendere il costume popolare

italiano qualcosa di “veramente autentico”. Nel 1911, oltre alla mostra, Loria organizzò il convegno

della società etnografica, animato da una serie di interventi aperti alle correnti internazionali. Lo

slancio del convegno si affievolì negli anni per la scomparsa di Loria, per lo scoppio della Prima

Guerra Mondiale e per il generale clima culturale.

Sono state proposte diverse ipotesi per spiegare il predominio della tradizione demologica sull’et-

nologica: la brevità dell’esperienza coloniale in Italia, l’idealismo filosofico italiano e il mancato ra-

dicamento del naturalismo positivistico che aveva dato i suoi frutti in Inghilterra e Francia. Non bi-

sogna dimenticare che l’antropologia italiana si attirò il discredito dato che molti studiosi acconsen-

tirono alla stesura del Manifesto della razza del regime fascista. Il fatto che fino all’Unità non fosse

mai esistito uno stato nazionale che avesse garantito uno standard culturale- economico per tutte

le regioni contribuì a una forte disparità tra regioni e ceti sociali: gli studiosi, nobili o borghesi, pre-

starono più attenzione ai ceti poveri, considerando il loro mondo più “fermo” rispetto a quello in -

dustriale e urbano. 15

Capitolo 6

L’etno-sociologia francese

L’influenza di Durkheim, con i concetti di fatto sociale e di coscienza collettiva, fu enorme non

solo sul pensiero sociologico, ma anche su quello etnologico che in Francia stava acquisendo auto-

nomia. L’originalità della riflessione etno-sociologica francese dopo Durkheim consistette nel tenta-

tivo di cogliere, dietro i fenomeni sociali, le ragioni nascoste del loro accadere.

1. La morte, il sacro, il profano: Robert Hertz

Lo studio delle rappresentazioni collettive costituì l’ambito di studio di Robert Hertz (1882-1915).

Morto prematuramente nella Prima guerra mondiale, scrisse poche ma importanti opere, fra cui:

Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva della morte (1907)

– La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa (1908)

Hertz fu anche uno degli iniziatori dell’antropologia alpina: studiò il Santuario di San Besso a Co-

gne e il pellegrinaggio collegato. Fu la sua unica ricerca sul campo.

Il suo lavoro può essere ricondotto alla problematica durkheimiana della coesione sociale: le

manifestazioni della rappresentazione collettiva per la morte di ogni popolo rientravano in un pro-

blema più vasto, la comprensione dei meccanismi con cui una società riesce a mantenere la pro-

pria identità e coesione. Al contrario degli evoluzionisti (Tylor, Frazer), per Hertz le credenze primi-

tive sulla morte non costituivano spiegazioni (che rappresentavano il fondamento del pensiero reli-

gioso) ma erano rappresentazioni collettive, processi mentali condivisi dai membri di una società.

Hertz volle mettere in rilievo come in tutti i popoli la morte si riveste di emozioni e rappresenta-

zioni differenziandosi nell’aspetto culturale-sociologico. La morte non limita solo un’esistenza cor-

porea: distrugge l’essere sociale che si sovrappone all’individualità fisica a cui la società attribuisce

una dignità più o meno grande. La morte recide il rapporto fra individuo e gruppo. La comunità av-

verte la morte come minaccia alla propria coesione ed è chiamata a ristabilire l’equilibrio attraver-

so una serie di rituali atti allo scopo: i riti funebri, attraverso cui il defunto è distaccato dalla comu-

nità dei vivi e reintegrato in quella dei morti e degli antenati. L’attenzione di Hertz fu attratta dai ri-

tuali delle popolazioni del Bormeo, che prevedevano due riti distinti intervallati da un periodo di

lutto: alle prime esequie seguiva, dopo un certo tempo, un rito più solenne con cui si dava sistema-

zione definitiva alla salma. Questa seconda sepoltura fu il punto di partenza per Hertz per la sua ri-

flessione sul significato sociologico della morte. Individuò nel doppio rito il carattere fondamenta-

le che la morte ha presso ogni società: l’essere pensata come transizione fra condizioni diverse.

Notò che i riti funebri assomigliavano a quelli per la nascita e il matrimonio: allo stesso modo, era -

no atti a favorire un passaggio fra condizioni sociali. Lo scandalo rappresentato dalla perdita di un

membro è ripianato dalla società nella sua incorporazione nella comunità dei morti, che rappre-

senta una continuazione della comunità dei vivi. Questa affermazione di continuità, corrispondente

alla credenza nella vita ultraterrena, è comune a tutte le società e religioni.

Ne La preminenza della mano destra, Hertz partiva dall’insoddisfazione sulle spiegazioni neurofi-

siologiche relative alla prevalenza del lato destro del corpo. Avanzò l’ipotesi che questa preminen-

za fosse un’istituzione sociale da vagliare nel termine di rappresentazione collettiva. Hertz riprese

la distinzione, già operata da Durkheim sulla scia di Robertson Smith, tra sacro e profano, dimen-

sioni che pervadono la vita spirituale di ogni popolo (soprattutto in presenza di istituzioni religiosi

“semplici”) spingendo a strutturare l’universo secondo un principio bipolare. La distinzione tra de-

stra e sinistra era sottolineata nelle lingue indoeuropee, in cui il termine “destra” deriva dalla stes-

sa radice sanscrita deks, mentre il termine sinistra non ha derivazione unitaria: tale molteplicità di

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termini designanti la sinistra per Hertz era il riflesso del fatto che questa rappresenta l’opposto del

polo positivo. L’importanza di questo lavoro risiede nel fatto che Hertz aveva individuato un princi-

pio di opposizione fondamentale nelle forme di classificazione tipiche del pensiero umano che si

traduce in una catena di opposizioni tutte rinvianti all’opposizione sacro/profano.

2. I riti di passaggio: Arnold Van Gennep

Negli stessi anni di Durkheim, gli studi di Arnold Van Gennep (1873-1957) si mossero tra etnologia

e folklore. Di quest’ultima disciplina può essere considerato, in Francia, uno dei fondatori con il

suo Manuel du folklore français contemporain (1937-58). La sua opera subì una specie di ostraci-

smo da parte della dominante corrente durkheimiana: il suo lavoro rimase a lungo nell’ombra e ri-

valutato solo dopo la Seconda guerra mondiale. La sua opera più celebre, I riti di passaggio (1909),

venne accolta in modo non cordiale, anche per la formazione di Van Gennep – che era orientalista

e linguistica, non sociologo. Gli allievi di Durkheim (fra cui Mauss) gli rimproverarono di aver prati-

cato una comparazione da evoluzionista britannico, quando i durkheimiani preferivano scegliere

“fatti elementari” per costruire teorie generali dei fenomeni sociali.

I riti di passaggio si presenta come una cavalcata attraverso l’etnografia europea ed extra-euro-

pea per sostenere la convinzione che la vita degli individui, presso tutti i gruppi umani, fosse scan-

dita da una serie di riti che celebrano pubblicamente il passaggio tra condizioni sociali diverse.

Questi riti di passaggio avevano la funzione di rendere agevoli i cambiamenti, senza traumi per la

società e gli individui interessati. Van Gennep distinse all’interno di ciascun rito tre fasi caratterizza-

te da rituali specifici:

SEPARAZIONE MARGINE AGGREGAZIONE

riti preliminari riti liminari riti post-liminari

Riconosceva maggiore importanza alla fase centrale (margine) perché consentiva di attenuare il

trauma del passaggio dalla fase iniziale di distacco all’incorporazione in un’altra categoria sociale.

Era anche la più delicata perché la condizione indefinita era considerata portatrice di forze perico-

lose per la comunità. Van Gennep riconosceva a Hertz il merito di aver individuato tale fase di mar-

gine.

I detrattori di Van Gennep vollero vedere nella quantità di dati citati un cedimento all’evoluzioni-

smo, ma questo voleva confermare l’esistenza di ciò che costituiva per lui l'essenza di ogni sequen-

za cerimoniale, cioè la sua tripartizione. Voleva

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
70 pagine
10 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Armilla di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia culturale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Allovio Stefano.