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PURGATORIO - Canto VI: canto politico o canto di Sordello

Corrisponde armonicamente al canto VI dell'inferno e al canto VI del paradiso. La scena dell'abbraccio tra i due mantovani richiama sulle labbra di Dante una violenta invettiva contro l'Italia, essa si può dividere in 3 parti: la prima descrive i mali dell'Italia, la seconda ricerca e flagella i colpevoli, la terza si rivolge a Dio in tono di preghiera per risolvere la situazione. Rivolge a Dio due domande, nella prima dubita perfino della misericordia e della giustizia di dio, nella seconda chiede se i mali presenti siano giustificazione di un bene futuro. La rima selvaggia caggia è ripresa da inferno VI. Alla fine del canto riprende ironicamente Firenze dichiarandola l'unica salva tra questa critica generale all'Italia. È molto affezionato alla sua città ma ne è stato molto deluso. Il canto è circolare, si apre con una similitudine e si chiude con una.

similitudine.

Canto VIII: Dante e Virgilio si fermano sul monte del Purgatorio ed assistono alla discesa degli angeli che devono allontanare il serpente. Le spade degli angeli sono prive di punta in quanto non sono spade d'offesa, e anche perché la battaglia contro il nemico è stata già vinta. Nino Visconti mostra a Dante che le passioni terrene e gli attriti che si sono avuti mentre si è stati vivi non hanno più alcun peso in purgatorio. Verso la fine del canto appare il serpente che viene allontanato dagli angeli. Le anime del purgatorio non possono più essere tentate, allora perché appare? Si pensa che questo voglia significare la continua condizione di pericolo nella vita umana, in cui il peccato si può nascondere anche nelle situazioni più apparentemente tranquille. Alla fine Corrado Malaspina profetizza a Dante il suo esilio, infatti il poeta verrà ospitato da questa famiglia nel 1306.

Canto XVI: è il canto

Il mediano di tutta la divina commedia. I temi principali sono quello politico e quello teologico, dal punto di vista politico si parla di quale sia la sorgente del potere politico, dal punto di vista teologico viene spiegato perché e come le anime sono salvate o meno. Si parla inoltre del libero arbitrio.

Corrisponde armonicamente ai canti XVI di inferno e paradiso in quanto in entrambi si parla del confronto tra la vecchia e la nuova generazione della Lombardia. Tra gli iracondi Dante incontra Marco Lombardo, uomo di corte. Dante fa parlare questo personaggio con altissimo senno di gravi problemi filosofici e politici e lo eleva a giudice dei costumi del tempo. Per bocca di Marco espone la teoria del libero arbitrio: i movimenti celesti influiscono solo sui movimenti dell'animo, cioè sugli affetti o appetiti o istinti dell'animomedesimo e nemmeno su tutti, perché alcuni hanno origine nei mali abiti contratti. L'anima umana è come una giovane.

Fanciulla che però, senza una guida terrena, non può distinguere tra il vero bene e i beni terreni. Si arriva quindi ad una critica al pontefice che non ha le unghie fesse, non sa dunque distinguere il bene dal male.

Canto XIX: il canto si divide in due, nella prima parte vi è l'incontro con la femmina balba, nella seconda c'è l'incontro con papa Adriano. Il canto è introdotto con l'indicazione dell'ora attraverso una complicata perifrasi astronomica. La donna è la personificazione dei beni terreni, l'occhio avido degli uomini li rende appetibili mentre la ragione li svela per quello che sono veramente. Probabilmente Dante confonde Adriano V con Adriano IV, la cui avarizia era documentata. Il papa di questo canto è la figura speculare di Niccolò III nel canto XIX dell'inferno. Il gruppo nominale "gran manto" per riferirsi all'abito papale era stata infatti usata anche nel canto dell'inferno.

Dante deve interrompere la discussione con il papa perché egli non è più intenzionato a parlare. Canto XX: l'incontro di Dante con Ugo Capeto è preceduto da una lunga invettiva contro la lupa. Ugo Capeto era di umili origini (anche se probabilmente il poeta lo confonde con il padre Ugo il Grande) e una volta diventato re diventò avido di beni materiali salvo poi pentirsene e disprezzare i suoi discendenti in particolare Filippo IV il bello e i due Carlo d'Angiò. Ugo Capeto individua il momento d'inizio del decadimento con l'acquisizione della Provenza. Il re con cui Dante si scaglia con maggiore cattiveria è Filippo il bello che viene definito Pilato, poiché lasciò il papa in mano ai suoi nemici dichiarandosi poi estraneo ai fatti. Nonostante il papa fosse Bonifacio VII che Dante disprezzava, come aveva ribadito nell'inferno, bisogna sempre portare il dovuto rispetto al manto papale, e bisognadistinguire la persona dalla personalità politica. Ugo Capeto conclude il canto con una serie di esempi biblici in cui l'avarizia fu aspramente punita. PARADISO Canto VI: è l'unico canto della commedia che è interamente formato da un discorso diretto di Giustiniano. È l'ultimo canto politico e il tema è l'impero, secondo la scala crescente. L'imperatore d'Oriente risponde alle due domande poste da Dante nel canto precedente. Il discorso di Giustiniano è prima di tutto storico, spiega cosa hanno fatto i suoi predecessori dal momento in cui Costantino ha spostato la capitale dell'impero. Durante il discorso vi è anche tempo per una digressione in cui si critica l'operato di guelfi e ghibellini, entrambi in errore in quanto il vessillo imperiale non può essere negato ma nemmeno utilizzato in maniera meschina per inseguire solo i propri fini. Probabilmente Dante ha messo Giustiniano in

Paradisosia per il corpus iuris civilis (di cui si fa riferimento nel canto VI del purgatorio) sia per il suo tentativo riuscito anche se per poco tempo di riunificare l'impero sotto un unico vessillo. Giustiniano individua in Carlo Magno, dunque nell'impero germanico, il degno erede degli imperatori romani e dunque il legittimo sovrano universale.

Canto VIII: il poeta entra nel cielo di venere ed incontra gli spiriti amanti, il protagonista è Carlo Martello D'Angiò. Dante aveva conosciuto personalmente questo imperatore ma non si capisce il vero motivo per cui il poeta lo abbia posizionato in questo cielo, forse perché lo considerava in linea generale un buon sovrano, dunque che ama sinceramente il suo popolo. Il re critica prima suo fratello Roberto e spiega le inclinazioni individuali: al momento della creazione di un individuo l'intelligenza angelica non tiene conto della famiglia di provenienza, dunque non è detto che il figlio di un re.

sia necessariamente un buon sovrano. Per natura dovrebbe essere così se non intervenisse la provvidenza. Inoltre Carlo Martello insiste su questo aspetto e afferma che se non si seguono le predisposizioni naturali gli effetti possono essere molto negativi, infatti non si può mettere a imperatore chi è destinato, per esempio, ad essere un frate e così via. In questo modo Dante condanna anche l'abitudine del medioevo di mischiare gli uffici temporali e spirituali. Canto XV: paradiso XV rappresenta l'inizio di un momento meta narrativo all'interno della divina commedia. L'incontro con Cacciaguida dura infatti più di un canto. Dante non parla in generale mai della sua famiglia anche se in questo canto si fa menzione del bisnonno oltre che del già citato trisavolo Cacciaguida. Egli è uno spirito guerriero in cui Dante si identifica. È un milites che ha partecipato ad una crociata ed è morto durante essa. I canti

15-16-17 parlano della Firenze del passato del presente e del futuro. In quanto martire, Cacciaguida è imparentato con Cristo. Il centro del discorso è uno sguardo retrospettivo sulle condizioni sociali della città di Firenze che al tempo suo (con terzine al negativo) era migliore di come fosse al tempo di Dante.

Canto XVI: l'esilio di Dante viene descritto come un dramma individuale ed è trattato in questo canto ed in quello seguente. In realtà esso va visto come un dramma collettivo in quanto Dante si fa portavoce di tutti gli esiliati. Dante aveva affermato anche nel convivio che la vera nobiltà non consiste nel sangue ma nella virtù, essa infatti è poca cosa se non è accompagnata da opere virtuose. Dante aveva dato a tutte le anime del tu ma ora dà del voi a Cacciaguida, un po' per reverenza un po' per vanagloria. Con una complicata perifrasi astronomica l'antenato afferma di essere nato nel 1091.

Ai tempi di Cacciaguida la popolazione della città non era mischiata a quella del contado come ai tempi di Dante ed era pura fino all'ultimo artigiano, la confusione delle persone fu da sempre il male di ogni città e Firenze ne è testimone. Se il papa non avesse usurpato il potere imperiale questo non sarebbe successo. È la stessa tesi portata avanti da Brunetto Latini in inferno XV. La corruzione della Firenze nel presente sta dunque nel mescolarsi delle genti. Canto XVII: ennesimo canto di Cacciaguida in cui vi è la più famosa tra le profezie dell'esilio dantesco, in cui vengono esaltate l'altezza d'animo dell'esule e la sua grande forza di volontà nel perseguire un ideale di verità e di giustizia. Dante si ricorda delle oscure predizioni che gli sono state fatte nell'inferno (Farinata, Brunetto Latini, Vanni Fucci) e nel purgatorio (Corrado Malaspina etc..) e vuole finalmente sapere da un'anima.

Che può saperlo (le anime del paradiso infatti sono le uniche a conoscere passato presente e futuro). Ancora una volta Dante spiega il libero arbitrio con l'immagine della nave che scende da un torrente, che pur essendo ingegnosa non risolve del tutto il problema filosofico che concilia la presenza di dio con il libero arbitrio dell'uomo. All'esilio di Dante e dei guelfi bianchi seguirà una vendetta, ma nel frattempo il poeta sarà costretto a lasciare ogni cosa da lui amata. Cacciaguida predice infine l'ospitalità che Dante troverà dagli scaligeri, di cui sono esaltati in particolare Bartolomeo per la sua liberalità e Cangrande, fratello di Bartolomeo, come restauratore della volontà imperiale in Italia.

Canto XVIII: nel canto ritorna l'immagine dell'aquila. C'è tutto un gioco di luci, canti e colori dal significato simbolico. I colori sono il rosso e il bianco per sangue e giustizia. Il tema

dell'ineffabilità da questo canto in avanti tende ad essere sempre più presente, l'ineffabilità serviva a Dante per dare la sfumatura di verità alla sua storia, poiché se è vero che la fede è un mistero, non può un uomo mortale, an
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A.A. 2019-2020
6 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher xelans_ di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Marazzi Martino.