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Milano con la giustizia, diventa un ricercato ed è quindi costretto a fuggire nel territorio della
Repubblica di Venezia. L’ironia narrativa consiste nel fatto che colui che dovrebbe, più di ogni
altro, ostacolare i disegni di don Rodrigo è colui che, più di ogni altro, li favorisce. C’è poi un
ironia strutturale ancora più marcata: i personaggi buoni del romanzo – padre Cristoforo e il
cardinale – cercano in tutti i modi di favorire Renzo e Lucia: ebbene, tutto quello che fanno per
aiutarli fallisce. Pensiamo a padre Cristoforo: il colloquio con don Rodrigo per salvare Lucia finisce
per accelerare la decisione di quest’ultimo di rapirla; manda Lucia a Monza, dove viene accolta nel
convento di Gertrude, che finirà per consegnarla all’Innominato; manda Renzo da padre
Bonaventura a Milano, dove si caccerà in guai che lo costringeranno a espatriare. Perché il narratore
ricorre a quest’ironia strutturale, così pervasiva? Per mostrare che a nessuno degli attori del
romanzo, nemmeno a quelli che rappresentano le forze del bene, è delegato il compito di risolvere i
problemi del mondo: spetterà invece al personaggio più potente nel male, cioè all’Innominato, dare
la svolta decisiva alla vicenda. Il bene non è prerogativa esclusiva dei buoni, né il male dei
malvagi. Si tratta di una relativizzazione dell’agire dell’uomo, non della sua negazione: il
narratore non intende dimostrare che l’uomo non deve fare nulla, perché tutto quello che fa è
inutile. Intende semplicemente dire che l’agire dell’uomo è necessario perché Dio possa poi
orientarlo nel modo che crede, che risulta sempre, alla fine, vantaggioso per l’uomo stesso.
Perché questo continuo ricorso all’ironia, che può essere definita la macrofigura retorica che
percorre tutto il romanzo? Perché l’ironia presuppone la cooperazione del lettore: se il lettore non
coglie l’ironia, perde il vero significato del testo. Manzoni vuole un lettore giudice, non complice,
un lettore che stia attento, che non si lasci incantare dal flusso di parole; in ultima analisi, vuole un
lettore che cooperi con l’autore alla costruzione di quell’opera aperta che è I promessi sposi.
I promessi sposi sono caratterizzati da una vera e propria frenesia di movimento: persino il
personaggio apparentemente più quieto del romanzo, cioè Lucia, si sposta in continuazione, anche
se contro la sua volontà: dal paese natio a Monza, poi al castello dell’Innominato, poi al paese dove
il cardinale è in visita pastorale, a Milano da don Ferrante, al lazzaretto, poi proprio paese, infine
seguendo il marito Renzo, nel paese di Bortolo e nella residenza definitiva. Può sembrare poca cosa,
a noi che viviamo in tempi in cui gli spostamenti sono facili: era moltissimo per un’operaia del
Seicento, che solitamente nasceva, viveva e moriva nello stesso posto. Se poi si pensa a Renzo, lo si
coglie sempre in movimento, e fin dall’inizio, il narratore ce lo presenta come no che non sa stare
fermo. Perfino alla fine del romanzo, quanto tutto sembra risolto – don Rodrigo è morto, il mandato
di arresto contro Renzo è stato cancellato, Renzo e Lucia si sono finalmente sposati -, i due giovani
non stanno fermi: dal paese natio al paese di Bortolo, dal paese di Bortolo a un altro, dove
finalmente si stabiliscono, anche se il narratore fa capire che probabilmente quella non è la meta
definitiva.
Questo continuo movimento che attraversa tutto il romanzo, e che non riguarda solo i personaggi
principali, non è fine a se stesso: è, invece, la controparte narrativa di una caratteristica che
secondo Manzoni è connaturale all’uomo «morale», cioè all’uomo che è capace di andare oltre la
pura vita dei sensi e riconosce l’esistenza di una realtà che lo trascende, senza che questa debba
necessariamente coincidere con quella della religione rivelata: vale a dire l’inquietudine di chi
riconosce che questa vita non può soddisfare appieno quel bisogno di felicità dell’uomo che era
stato messo all’ordine del giorno dalla filosofia del Settecento. Manzoni lo scrive chiaramente in un
frammento dei Materiali estetici: «Ogni finzione (ogni opera d’arte, ogni finzione artistica) che
mostri l’uomo in riposo morale è dissimile al vero». Compito dell’autore è quindi far vedere che
l’uomo non può vivere in uno stato di riposo morale: allora, il continuo movimento dei
personaggi e del romanzo, che si manifesta persino alla fine, quando tutto dovrebbe riposare, non è
altro che la manifestazione narrativa di questa inquietudine connaturata all’uomo, della sua
impossibilità di vivere in stato di riposo morale. Il romanzo non si conclude quindi con un idillio,
con un lieto fine – come è parso ad alcuni, che quini lo disapprovarono -, ma con l’insistenza sulla
provvisorietà del risultato raggiunto: la felicità di Renzo e Lucia è sempre pronta a essere
insidiata da altri guai, che certamente non mancheranno, ed è comunque incompleta fino al riposo
finale, quello in Dio.
Storia della colonna infame
La Storia della colonna infame nacque da una costola del Fermo e Lucia: arrivato al punto in cui
raccontava le esecuzioni popolari di presunti untori, Manzoni decise di narrare estesamente la storia
di due di loro, condannati ingiustamente dal tribunale di Milano. La vicenda, però, era troppo lunga
e complessa per poter essere inserita nel romanzo: per questo Manzoni la sviluppò a parte, e la
pubblicò – anche qui, dopo un lungo lavoro di revisione - nel 1842, anch’essa corredata da
illustrazioni, come seguito dei Promessi sposi. La Colonna infame si configura come il rovescio
negativo, il lato oscuro dei Promessi sposi: essa racconta ciò che sarebbe potuto capitare a
Renzo se egli non fosse stato assistito dalla Provvidenza. Nel capitolo XXXIV Renzo, che tiene
in mano il battente della porta della casa di donna Prassede, viene visto da lontano da una donna,
che lo accusa di essere un untore. Egli riesce a fuggire e a evitare il linciaggio, saltando su un carro
di monatti, giunto provvidenzialmente in quel momento. Ebbene, la vicenda storica e processuale di
Guglielmo Piazza inizia allo stesso modo: accostatosi a una muraglia, forse per ripararsi dalla
pioggia, fu denunciato da una donna al tribunale come untore. Piazza, insieme ad altri coinvolti
proprio da lui, fu torturato, processato e condannato a una morte orribile. L’accostamento dei
Promessi sposi alla Colonna infame è un ammonimento al lettore: se in un romanzo le cose
possono anche finir bene, un romanzo non è però la storia; nella storia, purtroppo, le cose
sono finite male per degli innocenti a causa della pressione popolare e della malafede dei
giudici. Occorre vigilare, perché eventi del genere possono sempre ripetersi, perché la caccia al
capro espiatorio è sempre aperta e può sempre concludersi tragicamente, con la responsabilità di
tutti. Manzoni si propose, in quanto moralista, di richiamare l’attenzione su questa tragica evenienza
e, come storico, di riabilitare il capro espiatorio, mostrandone l’innocenza.
La produzione saggistica
Nei suoi scritti, Manzoni istruisce spesso un processo alla storia e al giudizio che gli storici danno
sugli avvenimenti: ciò avviene tanto nelle opere letterarie quanto, soprattutto, nelle opere storiche.
La Storia della colonna infame riabilita gli innocenti condannati nel processo del 1630, mentre il
Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia – premesso all’Adelchi nel 1822 -
contesta la tesi che i longobardi si fossero fusi con gli abitanti dell’Italia da loro invasa,
facendo anzi vedere come i due popoli restarono divisi, con i primi nel ruolo di padroni, i
secondi in quello di subalterni o addirittura di schiavi.
L’ultima opera storica di Manzoni è il saggio comparativo La rivoluzione francese del 1789 e la
rivoluzione italiana del 1859: Manzoni lavorò all’opera, sia pure a intervalli, tra il 1861 e il 1872,
alla vigilia della morte, e la lasciò incompiuta. Tesi principale del saggio è che la rivoluzione
italiana del 1859 deve la sua riuscita alla legittimità degli attori e dei fini che l’hanno ispirata e
guidata: il re di Sardegna e il popolo, mossi dalla volontà di restituire unità e libertà all’Italia. La
Rivoluzione francese, invece, è sfociata nel Terrore, nel dispotismo napoleonico, nelle guerre che
insanguinarono l’Europa per vent’anni perché ispirata dalle passioni: quella per il potere negli
uomini che assunsero la guida del Terzo stato – o meglio, di una parte del Terzo stato – e l’invidia, il
desiderio di vendetta, la crudeltà, la cupidigia da parte sia delle élites dia delle masse. Anche in
questa occasione, dunque, Manzoni va controcorrente, giudicando in modo negativo la
Rivoluzione francese, vista solitamente invece come un momento luminoso della storia d’Europa,
nonostante i massacri che aveva provocato.
La riflessione linguistica accompagnò Manzoni praticamente lungo tutto l’arco della sua
produzione creativa, ma i materiali da lui raccolti non approdarono mai al trattato sistematico che
pure egli vagheggiava e progettava; sappiamo anzi che, dopo aver composto I promessi sposi,
distrusse una grande quantità di carte. Alcuni materiali manoscritti sopravvissuti alla distruzione
sono stati raccolti dagli studiosi e pubblicati nei due volumi, in tre tomi degli Scritti linguistici
inediti. In vita, Manzoni pubblicò alcuni brevi scritti – ora raccolti negli Scritti linguistici inediti – a
partire dal 1846, quando più viva si fece in lui la preoccupazione di dare unità linguistica agli
italiani. In essi, egli porta argomenti a favore della propria ipotesi: il fiorentino parlato dalle
persone colte è la lingua da adottare per tutta l’Italia; su questa lingua dell’uso devono essere
plasmate le opere indispensabili alla sua diffusione, innanzitutto il vocabolario, di cui pure
Manzoni delinea le caratteristiche nella Lettera intorno al vocabolario del 1868.
Il dialogo filosofico Dell’invenzione fu scritto da Manzoni nel 1850: partendo dal sistema filosofico
di Antonio Rosmini, i due interlocutori, Primo e Secondo, arrivano alla conclusione che quando lo
scrittore «inventa» non crea, come spesso si dice, ma «trova», che è poi il significato del latino
invenire, da cui l’italiano “inventare”: trova delle idee che preesistono a lui, nella mente di Dio.
Non crea qualcosa di nuovo, ma trova qualcosa che prima non si vedeva, non si conosceva. Qui si
innesta il riconoscim