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Il coro intona un canto per celebrare la generosità di Admeto e la sua casa sempre aperta e pronta ad
accogliere ospiti e qui l'ospitalità concessa a Eracle richiama con perfetta simmetria quella offerta
precedentemente ad Apollo. Le parole del coro evocano nella mente del pubblico l'immagine di un
paesaggio bucolico, per poi recuperare l'aggancio con il presente dell'azione scenica al v. 597,
πρός αἰδώς,
evidenziando come un carattere "incline al pudore" (v. 601), quale è quello di Admeto,
impedisca di allontanare un amico e di dire addirittura la verità.
QUARTO EPISODIO, PARTE PRIMA (vv. 606-746)
Questo episodio sembra rompere il silenzio e parlare della morte di Alcesti per individuarne il
colpevole. Admeto esce dal palazzo seguito dal corteo funebre: i servi hanno sollevato il cadavere per
trasportarlo nel luogo della sepoltura e il coro viene invitato a un ultimo saluto; in quell'istante giunge in
scena il padre di Admeto, Ferete: il coro annuncia l'arrivo dell'anziano con "il passo lento per la
vecchiaia" (v. 615), che si presenta per portare alcuni doni funebri ad Alcesti, riconoscendola subito
ἐσθλῆς καὶ σώφρονος,
come "nobile e virtuosa" (v. 615), e come colei che non ha permesso che lui
perdesse il figlio consumando nel dolore la vecchiaia, aspetti che avrebbero certo procurato grande
gloria a lei e a tutto il genere femminile; in realtà si deve sottolineare anche l'intento utilitaristico delle
parole dell'anziano e non a caso ai vv. 627-8 si legge: "Sono questi, per me, i matrimoni che giovano agli
uomini, altrimenti non vale neppure la pena di sposarsi!".
La reazione di Admeto è violenta e trasforma la scena luttuosa in un vero e proprio agone verbale: il re
respinge la presenza del padre con affermazioni che mettono in dubbio la propria discendenza da lui e
ἀψυχία,
dalla madre: "Io non ritengo di essere tuo figlio" dice al v. 641, ovvero di chi per
"vigliaccheria" (v. 642), non ha saputo né voluto salvarlo, pur avendo ancora poco da vivere (a
differenza, per esempio, di Teseo, che vorrebbe sostituirsi all'agonizzante figlio Ippolito nell'omonima
tragedia euripidea, o di Ecuba, che si offre per essere immolata invano al posto della figlia Polisséna
sulla tomba di Achille per garantire il ritorno in patria dei Greci vincitori nell'omonima tragedia di
Euripide). Questo è un tipico esempio dell'iter inverso dell'ἀποκέρυξις, ovvero di quel procedimento
giudiziario attico che consentiva di rinnegare pubblicamente la paternità nei confronti di un figlio, nel
caso che questi si fosse reso colpevole di un comportamento indegno o si fosse macchiato di gravi
colpe: qui, infatti, è il figlio che nega di essere tale di fronte al genitore, sottraendosi così ai doveri che
gli aspetterebbero, ovvero il sostegno nella vecchiaia e l'allestimento del funerale. Ai vv. 645-7 Admeto
arriva addirittura a dire che è stata un'estranea, nonché Alcesti, a essergli contemporaneamente padre e
madre, in quanto gli ha donato la vita morendo per lui.
Agli insulti di Admeto, Ferete risponde al v. 679 ss.: "I tuoi oltraggi hanno passato la misura [...]. Ti ho
messo al mondo e ti ho allevato per essere padrone della casa, ma non ho il dovere di morire per te.
Non è legge degli avi e neppure dei Greci che i padri muoiano per i figli [...]. Il tempo da trascorrere
sotto terra è lungo, se "ne faccio il conto" (λογίζοµαι, v. 692); la vita invece dura poco, ma è dolce
νόµος
anche così". Ferete ha rispettato il di genitore di crescere e allevare il figlio, gli ha trasmesso il
potere, gli lascerà in eredità ampi possedimenti, non l'ha privato di nulla né ha commesso contro di lui
νόµος e dal costume greco; secondo lui, la vita
alcun torto, ma il sacrificarsi per un figlio si allontana dal
è una per tutti e, siccome la possibilità di vivere non è data agli uomini una seconda volta, bisogna avere
sempre il piacere di essere vivi, di continuare a essere e di godere di ciò che il giorno può offrire, visto
che la fama postuma non ha alcun valore ("Non mi importa nulla della cattiva fama, se sono morto", v.
726).
Ferete rovescia poi l'accusa di vigliaccheria sullo stesso Admeto, che avrebbe lottato per non morire al
punto da essere superato da una donna; quindi sarà lui a dover rispondere della morte di Alcesti ai suoi
φονεύς
parenti in qualità di suo "assassino", (v. 730). Al sacrificio della donna Ferete associa anche una
motivazione implicita di carattere erotico-sessuale: Alcesti avrebbe accettato di morire perché presa
dalle grazie del marito, e tutto ciò non può che risultare gravemente insultante per Admeto; a lui Ferete
riconosce ironicamente la sapienza di aver escogitato la via per l'immortalità: è sufficiente che egli riesca
a convincere e sedurre una serie di mogli a morire una dopo l'altra al suo posto per vivere per sempre.
I rapporti fra padri e figli con i reciproci doveri che li definiscono e con ciò che invece tali doveri non
prevedono richiamano sulla scena i dibattiti della sofistica contemporanea, che mostrava le
νόµος φύσις.
contraddizioni esistenti tra la prescrizione del e le esigenze della Si ricordi in primis
φύσις ἀλήζεια,
Antifonte, sofista e logografo contemporaneo di Euripide: secondo Antifonte, la è
νόµος δόξα, ἀλήζεια δόξα,
"verità", mentre il è "opinione"; quindi il saggio che distingue fra e dove
sarà possibile, seguirà sempre la verità, la necessità di natura, senza incorrere ad alcuna sanzione. Egli
dice: "Se tradisce le norme di legge, finché fugge, è esente dal biasimo e dalla pena; ma se violenta ciò
che appartiene alla natura, se nessuno se ne accorge, il male non è minore perchè si danneggia la verità".
In un altro frammento afferma: "La vita e la morte sono cose di natura: la vita proviene da ciò che è
utile, la morte dal dolore"; in questo senso, cioè, la morte è un dato di natura e, in quanto tale, pone
tutti gli uomini sullo stesso piano.
Il contrasto tra Admeto e Ferete non è in realtà un contrasto fra caratteri diversi, ma un'opposizione fra
δόξα,
due verità: rispettivamente quella di Parmenide, ovvero la verità dell'intelletto, e quella di
ἀλήζεια;
Antifonte, cioè la verità del senso e del divenire, se dunque hanno ragione entrambi, non si
ἂριστον
può morire per un altro, sebbene venga meno l'etica, e così il principio dell'agire non è più ma
συµφέρον, "utile".
Gli stessi termini si ritrovano anche nel I libro della Repubblica di Platone, e in particolare nelle parole di
Trasimaco: Socrate inizia una conversazione con Cefalo, un anziano cosciente della morte imminente;
lo interroga sulla vecchiaia e Cefalo risponde che, se ci si sa accontentare, questa età è una sorta di
liberazione dalle passioni della giovinezza e in cui si nutrono timori e speranze per l'aldilà e si cerca di
non andare nell'altro mondo in debito di sacrifici a un dio o di denaro a un uomo. Socrate si chiede se
la giustizia si possa delimitare o definire correttamente identificandola con il dire la verità e il restituire
le cose ricevute, come aveva affermato Cefalo: per esempio, nessuno restituirebbe un coltello a un
amico impazzito, né sarebbe completamente sincero con lui; quindi è difficile estendere questi principi
di moralità ad ambiti più ampi dello scenario in cui sono nati e per questo essi non sono sufficienti a
definire i confini della giustizia, poiché il loro senso e il loro valore dipendono dal contesto. Da parte
sua, il sofista Trasimaco si vanta di avere sulla questione della giustizia una splendida risposta: la
giustizia è l'utile del più forte, ovvero di colui che è più competente e non sbaglia: il governante, finché
è al governo e riesce a rimanerci, non sbaglia e stabilisce il giusto come suo utile.
QUARTO EPISODIO, PARTE SECONDA (vv. 747-860)
Il coro si allontana e non preannuncia nulla e nessuno, tantomeno il servo anonimo che entrerà di lì a
poco per effondersi in un indignato monologo sul comportamento di Eracle. A tal riguardo, uno
studioso inglese interpreta questo soliloquio come la parte introduttiva di un secondo prologo inserito
nel bel mezzo della tragedia, probabilmente per evidenziare l'opposizione fra il dolore lacerante del
lutto da una parte e la vitalità gioiosa dall'altra; la casa sembra, infatti, divisa in due parti: da un lato i
servi che piangono la morte di Alcesti e dall'altro Eracle che canta senza alcuna riserva.
Il servo descrive Eracle come una persona molesta per essere entrato in casa nonostante la disgrazia e
per essere smisuratamente ghiotto di bevande e cibo, aspetti questi che appartengono al tradizionale
repertorio comico e satiresco (come Polifemo che mangia gli ospiti invece di accoglierli e che si
ubriaca). La dimensione del bere viene accentuata sottolineando come Eracle beva il vino puro, non
allungato con l'acqua com'era abituale nel mondo greco; inoltre, il cingersi il capo di rametti di mirto
ricorda il simposio e il suo ululare sembra oltraggiare le Muse. Il non accontentarsi, il bere il puro succo
di vite e il cantare con voce stonata (vv. 757-60) sono i tre elementi eraclei di oltraggio all'ospitalità
ricevuta. διδάσκαλος,
Eracle esce dal palazzo e si rivolge al servo nelle vesti del del "maestro": innanzitutto lo
σεµνός, πεφροντικός σκρυθρωπός
definisce e (vv. 773-4), rispettivamente " serio", "preoccupato" e
"tetro" (in volto). L'eroe inizia ad ammaestrare il suo interlocutore sulla natura delle cose umane, così
da indurlo a un atteggiamento più affabile: infatti, la consapevolezza della morte come inevitabile
traguardo da oltrepassare, l'incertezza del domani e il carattere imprevedibile della sorte si traducono,
secondo Er