Alcesti, Euripide
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ESTRATTO DOCUMENTO
il paese in cui i fatti sono ambientati: la città di Fere in Tessaglia;
− le circostanze che avevano condotto Admeto in punto di morte e quanto tempo passa
− dal momento in cui Alcesti ha accettato di morire per lui: Admeto si limita
semplicemente a dire al corifeo che da tempo (πάλαι, v. 421) sapeva di dover morire
prematuramente, ma che, data la sua giovane età e la bella vita che conduceva, non
riusciva ad accettarlo; quindi è da presumere che Euripide dia per scontate alcune cose
che il pubblico già ben conosceva, come il torto religioso arrecato ad Artemide, di cui è
testimone la Biblioteca di un certo Apollodoro, dalla quale sappiamo che Apollo aiutò
Admeto per avere la mano di Alcesti: per sposare la fanciulla dovevano essere legati al
giogo di una biga un cinghiale e un leone; Apollo imbrigliò gli animali e Admeto guidò
la biga fino a Pelia, padre di Alcesti; egli, però, si dimenticò di fare sacrificio ad
Artemide, che, offesa, riempì la camera nuziale di serpenti velenosi; Apollo giunse in
suo aiuto e gli consigliò di effettuare un sacrificio alla sorella e, una volta fatto, ella tolse
i serpenti.
Θάνατος
nella seconda scena (vv. 28-76) compare armato di spada; egli si accorge
Θάνατος
immediatamente della presenza di Apollo e fra i due si sviluppa un acceso contrasto:
appare deciso a difendere le proprie prerogative e la propria sfera d'azione contro Apollo, che,
invece, vorrebbe salvare Alcesti. All'irremovibile posizione del dio della morte, il figlio di Zeus
replica con una profezia che anticipa l'esito positivo del dramma, preannunciando appunto
l'arrivo di un uomo, lasciato, almeno all'inizio, nell'anonimato (fino al Terzo Episodio), che
strapperà Alcesti dalla morte. L'arrivo di quell'uomo che sappiamo essere Eracle è anticipato al
χάρις,
v. 60 dal sostantivo "favore, grazia", che si presuppone essere in uno schema di
φίλοι;
contraccambio fra ma Eracle arriverà nella casa di Admeto non per salvare Alcesti, ma
solo sulla traiettoria di una delle sue fatiche, l'ottava, che consisteva nel portare a Micene presso
Euristeo di Tirinto le cavalle del trace Diomede (l'intervento dell'eroe che lotterà corpo a corpo
Θάνατος φιλία:
con presso la tomba di Alcesti è importante poichè riattiverà il tema della
φίλος
Eracle, infatti, sarà ospitato nella casa del Admeto, il quale, per poterlo accogliere, tacerà
χάρις
la morte di Alcesti, visto che non sarebbe mai entrato in casa con un tale lutto, e per si
Θάνατος).
sdebiterà dell'ospitalità ricevuta lottando contro
Apollo lascia la casa di Admeto: l'uscita di scena della divinità concorre a isolare l'esperienza del
dolore e della fine come un evento tutto umano; inoltre, nessun dio può assistere al momento
µίασµα,
della morte poichè essa è, insieme alla nascita, un ovvero il massimo momento della
contaminazione che turba il corso normale della vita quotidiana (anche Artemide nell'Ippolito di
Euripide uscirà di scena al momento della morte di Ippolito, figlio di Teseo e della regina delle
Amazzoni: Ippolito è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide,
trascurando completamente tutto ciò che riguarda la vita comunitaria e la sessualità; per tale
motivo Afrodite decide di punirlo suscitando in Fedra, seconda moglie di Teseo e quindi sua
matrigna, un'insana passione per il giovane. Questo sentimento fa apparire Fedra sconvolta e
malata agli occhi degli altri; dietro le insistenze della Nutrice, Fedra è costretta a rivelare la causa
del suo malessere e la Nutrice, tentando in buona fede di aiutarla, lo rivela a Ippolito,
imponendogli il giuramento di non farne parola con nessuno; la reazione del giovane è rabbiosa
e offensiva, al punto che Fedra, sentendosi umiliata, decide di darsi la morte; prima di
impiccarsi, per salvare il suo onore, lascia un biglietto in cui accusa Ippolito di averla violentata.
Quando Teseo, tornato da fuori città, scopre il cadavere della moglie e il biglietto, lancia una
maledizione mortale nei confronti di Ippolito; il giovane dice al re di non avere alcuna
responsabilità, ma non può raccontare l'intera storia poiché vincolato dal giuramento fatto alla
Nutrice; Teseo non gli crede e lo bandisce da Atene. Mentre Ippolito sta lasciando la città su un
carro, la maledizione si compie: un toro mostruoso uscito dal mare fa imbizzarrire i cavalli, che
fanno schiantare il carro contro le rocce. Ippolito viene riportato agonizzante a Trezene, dove
riappare Artemide, che espone a Teseo la verità sui fatti, dimostrando quindi l'innocenza di
Ippolito. Il re si rivolge allora al figlio, ottenendone in punto di morte il perdono).
Θάνατος ἱερέα θανόντων,
Apollo esce di scena e entra nel palazzo: egli è definito "sacerdote
dei morti" (v. 25), in quanto consacra la vittima e segna la sua morte tagliandone un capello,
ἱερὸς
mentre colui che muore è definito (v. 75), cioè colui che appartiene agli déi (inferi).
Θάνατος che vi entra segna il
Questo movimento contrario con Apollo che esce dal palazzo e
mutamento a cui è sottoposta la dimora di Admeto che allegoricamente, dalla protezione di una
divinità olimpica, passa al dominio infero della morte.
L'amicizia gioca un ruolo essenziale nella trama dei rapporti che il dramma euripideo delinea sia a livello
φιλία
umano che a livello divino: vi è la che Apollo ha per Admeto in virtù della purezza che li
φιλία
accomuna e la che unisce Admeto e Alcesti nel legame matrimoniale; inoltre, vi è l'amicizia che
vincola, grazie alla reciproca ospitalità, Eracle e Admeto; infine, un atteggiamento di sincera amicizia è
quello che il coro manifesta nei confronti di Admeto e della sua sposa. Tuttavia, vi è anche la situazione
φιλία
opposta, ovvero la totale negazione di ogni proprio là dove, invece, sarebbe ovvio attenderla,
ossia nel rapporto tra padre e figlio, tra Ferete e Admeto.
Il favore che si accorda e la gratitudine che induce a contraccambiare i benefici ottenuti sono degli
Θάνατος
elementi decisivi per l'articolazione della vicenda sia a livello umano che a livello divino: non
χάρις χάρις
accorda la richiesta da Apollo che perciò si ritiene libero da qualsiasi obbligo di gratitudine;
χάρις
è il sacrificio che Alcesti fa della propria vita e è la sua richiesta ad Admeto di non risposarsi;
χάρις χάρις
è anche l'accoglienza data a Eracle e la sua restituzione di Alcesti alla vita. Tuttavia, la
manca, secondo Admeto, nel comportamento dei suoi genitori per nulla riconoscenti nei suoi
confronti.
Ma allora si tratta o no di una tragedia? Secondo la Poetica di Aristotele, una tragedia, per definirsi tale,
non deve necessariamente terminare in modo catastrofico. Inoltre, osservando le altre tragedie
presentate da Euripide nel medesimo anno, possiamo vedere come manchi un pezzo, ovvero il dramma
satiresco: visto il lieto fine, si è ipotizzato che l'Alcesti fosse probabilmente, fra i quattro drammi
presentati, quello che meglio rappresentava proprio il carattere satiresco presumibilmente mancante;
infatti, agli autori era permesso presentare una tragedia che faceva le veci del dramma satiresco vero e
proprio (un elemento che ci induce a pensare questo è, per esempio, la forza e la fame insaziabile di
Eracle).
PARODO (vv. 77-135)
Θάνατος
Apollo e hanno lasciato la scena vuota volgendosi alle rispettive mete ed entra il coro, che si
pone una serie di interrogativi: sa che Alcesti dovrà morire, ma, davanti al palazzo, non trova elementi
certi per capire se la morte sia effettivamente già avvenuta. Infatti, nessuno dei segnali visivi e acustici
che tradizionalmente accompagnano il rituale del cordoglio si colgono davanti o all'interno della casa:
non vi è il lamento (γόος) che veniva intonato dal familiare più stretto del defunto intorno al suo
cadavere, né i gemiti levati dal coro, né le lamentazioni (θρήνοι) dei familiari, talora affiancati da cantori
professionisti e prefiche e accompagnati da movimenti ritmici di mani che percuotevano il petto o la
testa o strappavano i capelli (come si può vedere nell'anfora funeraria del Dipylon), né servi accanto alla
porta, né l'ἀρδάνιον con l'acqua di fonte usata per purificarsi dalla morte contaminatrice, né capelli
recisi come offerta del morto sparsi sulla sua tomba o sul suo stesso cadavere (come testimonia il
funerale di Patroclo nel XXIII canto dell'Iliade di Omero).
Quindi Alcesti è viva o è morta? L'incertezza sulla sua sorte, la contrapposizione tra l' "essere ancora" e
il definitivo "non-essere" si presenta qui più forte che mai, e la predicazione di entrambi i dati perdura
fino alla conclusione, quando ci si troverà di fronte a un'Alcesti ritornata dalla morte (c'è), con lo stesso
suo aspetto (c'è), ma silente (non c'è).
La dimensione dell' "essere-non essere" si ritrova anche nel caso del simulacro (εἴδωλον), che
rappresenta ma che può contemporaneamente rendere presente ciò che è assente se investito di
sacralità. Uno dei simulacri è la statua per il morto, il quale è e non-è il morto, è connesso con lui ed è
un tutt'uno con il soggetto che rappresenta.
PRIMO EPISODIO (vv. 136-212)
La scena si anima finalmente di una presenza: dalla casa di Admeto esce un'ancella, che assume il valore
del messaggero, a cui il coro può rivolgersi per verificare con sicurezza la natura e il corso degli eventi.
La sua uscita non è un fuoriscena, ma, anzi, un retroscena: ella in primo luogo afferma che Alcesti "è
viva ed è morta" (v. 141), formulazione che trova fondamento nella particolare condizione in cui ella
versa: infatti, già votata all'Ade e dunque già appartenente al signore dei morti, la regina tuttavia ha
ancora un tenue respiro che la tiene sospesa.
L'ancella, poi, racconta come Alcesti si stia preparando a esalare l'ultimo respiro, evocando uno dopo
l'altro gli atti da lei compiuti: innanzitutto mostra la purificazione che ella fa del suo corpo con l'acqua
pura del fiume e il suo abbigliarsi con veste e gioielli (sembra quasi la vestizione del guerriero omerico
che, indossando la sua splendente armatura e i begli schinieri, si apprestava alla guerra); la donna si
prepara con compostezza, addirittura senza una lacrima, senza un lamento e senza che la sua bellezza
svanisca o cambi aspetto. In secondo luogo, l'ancella descrive i spostamenti di Alcesti: dapprima presso
il focolare, dove rivolge una preghiera alla dea Estia perchè accudisca i suoi figli, poi negli altari
incoronati con rametti di mirto, nella camera nuziale, dove saluta il suo letto, e fuori da qui, dove
abbraccia e accarezza i figli Eumelo (nominato anche nell'Iliade all'interno del catalogo delle navi) e
Perimela e dove saluta i servi; sono, questi, tutti atti che accrescono il valore e la grandezza del suo
gesto. θάλαµος
In particolare, il rimando al rinvia alla dimensione dell'ἒρως: il letto, infatti, è l'immagine
concreta del legame coniugale che unisce Alcesti ad Admeto, ma indica anche la sessualità, visto che in
παρθένος,
quel letto riaffiorano gli atti dell'ἒρως con cui ella ha dato addio alla sua condizione di
"vergine". Alcesti lo saluta, gli dice addio, lo inonda di lacrime (come aveva fatto Penelope da quando
Odisseo era partito per Ilio) e gli dà baci. Per indicare l'atto del baciare viene usato al v. 183 il presente
κυνεῖ,
storico che è rivolto a un oggetto e non ad Admeto: infatti, notando come nel discorso di Alcesti
letto e marito siano termini che si richiamano in continuazione, possiamo vedere come il letto divenga
qui il destinatario sostitutivo di quelle manifestazioni affettive che non saranno mai rivolte ad Admeto o
che, in ogni caso, non saranno mai rappresentate sulla scena poichè non virtuose (il virtuosismo, infatti,
sta nell'invisibilità); non a caso, Alcesti non userà mai parole d'amore per motivare il suo sacrificio (se
non vagamente ai vv. 287-8), ma si esprimerà sempre in una forma restrittiva dettata forse dal pudore.
PRIMO STASIMO (vv. 213-243)
Questo breve canto corale riprende e unifica alcuni temi emersi nella Parodo e nel Primo Episodio; la
parte descrittiva e preparatoria del dramma in tal modo si chiude, disponendo il pubblico alla visione
dell'effettiva morte di Alcesti, che sarà oggetto dell'episodio successivo. Tuttavia, di fronte all'evidenza
dei fatti, riemerge una residua speranza di salvezza, con un appello rivolto ad Apollo Paian,
"Liberatore", "Risanatore", che annulla i mali e le sofferenze.
ἰδού,
All'annuncio dell'entrata in scena dei due coniugi (ἰδού "guarda", v. 233), si accompagna la prima
indicazione collettiva di cordoglio e il coro invita l'intera terra di Fere a intonare il lamento per la morte
di Alcesti.
SECONDO EPISODIO (vv. 244-434)
Il secondo episodio è fatto di due momenti differenti per contenuto: uno lirico in cui predomina il
πάθος della vita che si sta per lasciare e in cui vengono descritti i diversi momenti che portano
all'effettiva morte di Alcesti, e uno dialogico in cui si espongono le ragioni del gesto sacrificale e le
condizioni del suo compimento. Fra i due vi è, però, una sfasatura e l'unico contatto è quando lo
sguardo di Alcesti affonda improvvisamente nella visione allucinata del mondo di sotto: ella ha la
spaventosa percezione del regno dell'Ade e delle potenze infernali che la chiamano a sé e la trascinano
per farle compiere il definitivo passo: si sente chiamare, toccare e afferrare dal dio della morte e cerca di
divincolarsi mentre è ancora fra le braccia di Admeto (qui sembra quasi che vi sia una contrapposizione
δάµνηµι,
Admeto-Θάνατος: il nome di Admeto rimanda alla radice del verbo "domare", che con l'α-
privativo significa "l'indomabile", qualità che caratterizza tradizionalmente anche il signore dei morti;
parimenti Ade è, per sua natura e funzione, "colui che molti accoglie e molti ospita", attributo connesso
anche ad Admeto).
A queste immagini che pian piano svaniscono segue un'oscurità che vela lo sguardo di Alcesti, e le sue
ultime parole sono indirizzate ai figli, con l'augurio che essi possano godere della luce ormai a lei negata.
Al tessuto verbale di Alcesti, martellato dall'angoscia, Admeto reagisce con toni trattenuti: egli assorbe
le parole e i turbamenti della moglie e li commenta tanto nella prospettiva di un destino che si abbatte
ingiustamente su di loro, quanto nell'ottica della sofferenza propria e dei figli; tenta di farle coraggio, la
φιλία
esorta a pregare e a non abbandonare lui e la vita, riconoscendo che la che con quella morte ella
gli dimostra è sacra (σεβόµεσθα, v. 279).
Quando il silenzio sembra già pronto a scendere sui personaggi, ecco che Alcesti pronuncia un ultimo
discorso e chiede ad Admeto di lasciare i loro figli padroni della casa (v. 304) e di non dare a essi una
matrigna (v. 305). E così Admeto manifesta il proprio impegno a rispettare quanto gli viene chiesto e
unisce a ciò l'affermazione della sua sostituzione attraverso una statua (v. 349) che riprodurrà il suo
θάλαµος
aspetto e che metterà nel e il desiderio di incontrare la sua immagine nei sogni (v. 354).
Come molti esempi letterari mostrano, le immagini -siano esse materiali come una statua o impalpabili
come un sogno- hanno lo straordinario potere di evocare e sostituire l'oggetto amato perduto nella
morte o semplicemente lontano, superando il confine posto tra la vita e la morte e consentendo al
defunto di rendersi visibile ai vivi. Non a caso, Bettini in un capitolo del suo testo intitolato Il ritratto
dell'amante parla delle invenzioni delle arti plastiche nate a Corinto: una fanciulla deve consolarsi per la
partenza dell’amato, ne ricalca il profilo sull’ombra (σκιά) proiettata da una lucerna, gliela ruba finché
dorme e il padre ne fa un modello in argilla e la cuoce. Ancora, un parallelo è dato dalla vicenda di
Laudamia e Protesilao, che Euripide aveva portato in scena in un dramma perduto: Protesilao è morto
non appena approdato a Troia e Laudamia si fa fare un simulacro di cera posto nel talamo, che venera,
bacia e abbraccia fino a quando il padre ordina di distruggerlo perchè ella non continui a tormentarsi;
ma, se Laudamia è potuta sopravvivere alla perdita del marito, ora non può sopravvivere anche alla
distruzione del suo doppio e così preferisce morire, gettandosi nel rogo.
Admeto, poi, immagina sé stesso come un nuovo Orfeo impegnato nella discesa all'Ade per riportare
Alcesti in vita. Il mitico Orfeo è legato al fascino del canto e della musica, al potere di sedurre e di
infondere gioia, di agire sull'ordine della natura travalicando i confini e i limiti imposti all'uomo,
scendendo nell'Ade per riportare in vita l'amata Euridice. Admeto, certo, non ha la potenza magica del
canto di Orfeo e, se scenderà nell'Ade, sarà solo per unirsi ad Alcesti nel momento della morte (v. 364).
Prima del ritorno di Alcesti, la sua prospettiva è dunque antiorfica, ossia mostra l’esperienza di Orfeo
come parola e musica dominatrice impossibile e la morte come rinascita da cui non ci si può sottrarre.
È importante sottolineare come qui si alluda all’Orfeo dell'Orfismo, nonché quell'orientamento
religioso che non consente ai suoi iniziati di sconfiggere la morte, ma di vivere nella stessa condizione
beata degli déi e di sottrarsi al ciclo delle nascite, sforzandosi di liberare l'anima dal corpo inteso come
carcere (si ricordi che l'Orfismo è l'unico movimento religioso del mondo greco dotato di tradizione
scritta: le sue laminette, trovate nella Grecia continentale, contengono testi in esametri scritti in
minuscola, viste le dimensioni simili a quelle di un francobollo, e vengono poste vicino al morto in
quanto servono ad accompagnarlo fino all'aldilà).
Dopo il discorso di Admeto, la voce di Alcesti si spegne. La prima reazione emotiva alla sua scomparsa
è il lamento del figlio Eumelo che piange davanti al suo cadavere.
Il corifeo consiglia, poi, la via della rassegnazione: la tragedia greca è il luogo per eccellenza della
consolatio, nonché dell'universalizzazione della pena e del dolore; per esempio, si ricorda la Consolatio ad
Apollonio di Plutarco, che è un centone di citazioni ed esempi mitici per consolare il lutto del figlio;
inoltre, un certo Antifonte sembra essere colui che ha messo a punto la tecnica della consolatio, ovvero la
τέχνη ἀλυπίας, l' "arte del non-dolore", che consiste nel dimostrare precedenti illustri di un tipo di
dolore e nel prevedere i mali futuri; ma, nel caso dell'Alcesti, le parole del coro finiscono per assumere
un tono di cruda ironia: contraddicendo l'inevitabilità della morte, Admeto si è sottratto all'Ade grazie a
uno scambio e proprio per questo la morte di Alcesti non può essere confrontabile con le altre morti.
Segue l'intervento conclusivo di Admeto, che deve preoccuparsi del funerale e delle disposizioni
connesse al lutto: egli chiede innanzitutto al coro di intonare un peana (v. 424), ossia un canto corale in
onore di Apollo e Artemide che veniva intonato o per propiziare la buona riuscita di una battaglia o di
un sacrificio, o per ringraziare per una vittoria conseguita, o quando si muoveva l'attacco al nemico (in
questo caso il suo ritmo aveva lo scopo di aiutare a mantenere l'ordine della formazione e a infondere il
terrore nell'avversario), ecc. Quindi, visto che qui Alcesti sta discendendo nell'Ade, che senso ha cantare
θρῆνος, ἀντέχω
un peana e non un "canto funebre"? Se focalizziamo l'attenzione sul verbo (v. 423),
ἀντί- significhi "in modo antifonale", ovvero uno che intona e l'altro che
notiamo come il prefisso
risponde, o in alternativa "in risposta di sfida" ad Ade per guadagnare la salvezza; quindi, probabilmente
in questo caso si parla del peana da un lato come di un mezzo propiziatorio del passaggio di Alcesti al
regno dei morti, augurandole di dormire un sonno tranquillo, dall'altro come di un canto di gloria
imperitura per la scelta da lei compiuta.
ἂσπονδος
Inoltre, il peana è (v. 424), aggettivo che si collega o al dio "che non accoglie libagioni" o allo
stesso canto che è "privo di libagioni"; il peana normalmente è accompagnato da offerte sacrificali,
quindi la seconda ipotesi crea delle anomalie che preparano un sovvertimento al corso normale degli
eventi.
Quello di Alcesti è un sacrificio di amore o un sacrificio di dovere? A tal proposito, la critica si divide.
Vi sono altre cinque tragedie euripidee in cui vi è una morte femminile spettacolare:
Eraclìdi: Macària è una vergine che, sacrificandosi sulla scena, consente la salvezza ai suoi e alla
1- società ateniese. Al contrario di Alcesti, Macària si presenta autonomamente e si scusa della
presa di parola: "Di mia spontanea volontà prima che me ne giunga l’ordine sono pronta a
morire" (vv. 474 ss.); la supplice dice nobilmente che il fare diversamente avrebbe significato
per lei la sconfitta o l’infamia e afferma che la morte libera dai mali e dalla sofferenza. Iolao le
dice che per il suo coraggio spicca tra tutte le donne e che, dunque, avrebbe avuto gli onori
massimi sia da viva che da morta. Una volta decisa la morte, Macària scompare nel nulla e della
sua morte non si conosce come sia avvenuta;
2- Ecuba: Polisséna viene uccisa a Troia sulla tomba di Achille. Non si tratta di una vera salvezza,
ma di un’offerta al defunto;
3- Ifigenia in Aulide: Ifigenia si sacrifica per salvare l’esercito in Aulide. La donna verrà criticata da
ἂλογον,
Aristotele per il suo personaggio "irrazionale"; ella, infatti, pronuncia due discorsi
differenti e addirittura in contrasto fra di loro: prima esprime i luoghi comuni del suo
attaccamento alla vita e l’impossibilità di uscirne diventandone vittima: "Ora ho solo lacrime, da
supplice ti prego di non farmi morire […]. Per gli esseri umani dolcissima è questa vita. La
morte è il nulla e chi desidera morire è un folle"; poi, invece, senza alcuna motivazione, afferma
il contrario, sottolineando che la sua è una vita a disposizione degli altri: "Ho riflettuto e voglio
morire; ho rimosso ogni sentimento ignobile; la mia sia una bella morte. La Grecia guarda tutta
a me; sta in me la partenza delle navi; non si consenta ai barbari di rapire alcuna donna della
Grecia. Tutto ciò garantirò con la mia morte. La mia gloria come liberatrice della Grecia sarà
immortale. Non devo amarla troppo questa vita: tu mi hai generato per la Grecia, non per me, e
di questa mia vita faccio dono alla Grecia e sono i Greci a dover morire per i barbari". Sembra
quasi che con questo salto Euripide abbia voluto operare uno svuotamento del personaggio per
esaltare la retorica del discorso;
4- Erettéo: durante la guerra contro gli Eleusini capeggiati da Eumolpo, figlio di Poseidone, il re di
Atene Erettéo apprese dall’oracolo di Delfi che, per ottenere la vittoria, avrebbe dovuto
sacrificare una delle sue figlie; decise allora di dare in sacrificio Ctonia, ma, nel momento
dell’immolazione, anche le sue sorelle si uccidono poiché avevano fatto voto segreto di morire
tutte insieme; solo Oizia rimase all'oscuro della morte di Ctonia e dunque non si suicidò.
Riportata la vittoria, Erettéo uccise Eumolpo in fuga, ma Poseidone lo punì aprendo la terra
sotto i suoi piedi con un colpo di tridente e facendolo precipitare nell'Acropoli;
5- Supplici: Evadne si getta sul rogo del marito Capanéo, morto in battaglia. La donna compare
all’improvviso su una roccia e presso la pila funebre del marito ricorda, cantando, il momento
delle nozze: "Sono venuta dalla casa come una baccante in delirio, alla luce del rogo e alla
φίλοι
tomba cercando per dare fine alla mia vita; è una morte dolcissima morire coi che sono
morti; per la gloria mi getterò sul rogo con un salto […]. Mi unirò allo sposo ponendo la mia
carne accanto alla sua […]; lo sposo si è consumato e con lui il cuore innocente di quella nobile
sposa che io sono". Evadne va incontro alla morte adornata a festa (come aveva fatto Alcesti) e
ἀρετή:
immagina la sua morte quasi come una vittoria sulle altre donne, in quanto ad "Per me il
mio sposo che brucia con me è una gioia".
SECONDO STASIMO (vv. 435-475)
Mentre Admeto esce di scena insieme ai due figli, il canto dei coreuti accompagna il trapasso di Alcesti
δαίµων,
alle case "senza sole" (v. 437) di Ade non appena ella è morta e non appena diventa un uno
"spirito beato". Il coro intona nei suoi confronti una vera e propria lode degna di gloria futura e
χαίρουσα µοί
l'attacco (v. 436), con cui le augura di abitare lieta nella dimora degli inferi, ripete una
formula che si trova anche nel XXIII canto dell'Iliade di Omero, dove viene utilizzata da Achille per
congedarsi dal defunto amico Patroclo; il ricordo del verso omerico appare piuttosto significativo
poichè, come Patroclo nel corso degli eventi assume il ruolo di "sostituto rituale" di Achille
rimpiazzandolo sul campo di battaglia e morendo al suo posto, così Alcesti diviene la "sostituta rituale"
che la morte accoglie al posto di Admeto; inoltre, così facendo, Alcesti viene inscritta nel registro
eroico, comportando uno slittamento di generi, visto che il modello di morte eroica è normalmente
tipico dell'uomo: infatti, ella diviene la migliore delle donne e il tipo di gloria che procura il suo
sacrificio scivola in una dimensione maschile; di contro, Admeto viene attratto nella dimensione del
femminile, che vuol dire debolezza, corpo, gesto ignobile; quest'ultimo sembra quasi regredire da re del
paese quale è alla condizione di adolescente.
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