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Nel Cinquecento
ma il loro raggio di diffusione – grazie all’arte della stampa – si allarga enormemente; ora le opere di maggior successo
vengono pubblicate in migliaia di copie, spesso ristampate in più edizioni, corredate di apparati illustrativi sempre più
raffinati. Quello che nel Quattrocento era stato un interesse coltivato da pochi cultori si trasforma così gradualmente
in un fenomeno di costume. Cambiano gli interlocutori: gli autori dei trattati non si rivolgono più a una ristretta
cerchia di eruditi, bensì a un pubblico molto più vasto in cui i pratici del mestiere vanno ritagliandosi uno spazio
sempre più cospicuo. Conseguentemente cambiano anche gli obiettivi di chi scrive; lo scopo non è più tanto quello di
reclamare la dignità culturale di un’attività poco considerata, quanto quello di accreditarsi come punti di riferimento in
un mondo – quello di chi si interessava di architettura – sempre più frequentato e competitivo. Non ce n’è forse
testimonianza più eloquente delle raffigurazioni stampate sui frontespizi dei libri pubblicati a cavallo fra Cinque e
Seicento, dove gli autori non disdicono esibirsi in tutto l’orgoglio della loro ritrovata centralità. Li vediamo far
capolino sotto cornici magniloquenti, compiaciuti di potersi definire «architetti» e di presentarsi attorniati da quegli
stessi strumenti di mestiere – squadra, riga, compasso – che già i capomastri medievali avevano usato effigiare sulle
proprie lapidi, ma che ormai risultano investiti di tutt’altro significato.
7. L’antico come profezia
Per gli architetti del Quattrocento e del primo Cinquecento, desiderosi quanto i loro committenti di far “rinascere” e
di superare la grandezza dell’arte antica, la conoscenza del linguaggio classico era frammentaria e talvolta incerta. Il
sistematico confronto fra i testi latini (soprattutto il De Architectura di Vitruvio), le interpretazioni degli umanisti e il
rilievo delle rovine romane accertarono progressivamente le declinazioni del lessico e le modalità costruttive
“all’antica”. Tale processo è rammentato da Leon Battista Alberti (1404-1472) nel Libro sesto del suo trattato De Re
Aedificatoria.
Questo sforzo di ricognizione e di recupero tecnico, tipologico e lessicale, finalizzato a ricomporre un’architettura
«modernamente antica», secondo la definizione che Giorgio Vasari darà dell’opera di Giulio Romano, si inceppa
quando si misura con l’architettura religiosa, per la quale non esistevano prototipi cui ispirarsi: l’età classica forniva solo
esempi di templi pagani, spazialmente e simbolicamente inadatti alle liturgie cristiane. Nei primi secoli del
cristianesimo era stato adattato al nuovo culto l’impianto antico basilicale che, dotato di una copertura a capanna, era
stato trasformato da edificio civile pubblico a chiesa cristiana. Questa aporia emerge anche dall’intercambiabilità fra i
termini “tempio” e “chiesa” nel vocabolario rinascimentale, che rivela la deliberata appropriazione delle spoglie del
mondo pagano, ma anche il debito che la nuova civiltà aveva nei suoi confronti. Uno dei problemi progettuali più
spinosi era, per esempio, quello delle facciate delle nuove chiese, che stentavano a trovare una formulazione capace di
coniugare il lessico classico con gli spazi e i simboli della liturgia cristiana. Sarà proprio Alberti il primo a offrire
soluzioni geniali a questo problema.
Leon Battista Alberti (1404-1472)
La prima architettura albertiana attestata con certezza è un intervento su una
preesistenza. Intorno al 1450 Sigismondo Pandolfo Malatesta, audace condottiero e
signore di Rimini, affidava a Leon Battista il completamento della trasformazione,
avviata da qualche anno, della medievale Chiesa ad aula di San Francesco nel proprio
mausoleo dinastico: il Tempio Malatestiano. In linea con le sue idee di rispetto e
conservazione delle architetture del passato, Alberti decise non di demolire ma di
“rivestire” l’edificio preesistente con un guscio in pietra istriana. Una medaglia bronzea realizzata
da Matteo de’ Pasti è l’unica testimonianza del progetto originario: opposta alla facciata, che si
eleva su due registri di diversa larghezza, si sarebbe dovuta erigere una grande cupola semisferica,
ispirata a quella del Pantheon, che avrebbe coronato la conclusione della navata, prefigurando una
tipologia mista (centrica e longitudinale) confrontabile con la fiorentina Cattedrale di Santa Maria del Fiore, da poco
compiuta. Il fronte principale risulta ricalcato, nel registro inferiore, da un arco trionfale: la parete è tripartita da
semicolonne scanalate; il campo centrale, più ampio, è contrassegnato dal profilo di un fornice, all’interno del quale è
ritagliato il portale d’ingresso; nei campi laterali due fornici minori ciechi si innalzano su un alto basamento continuo.
ispirazione probabilmente dal vicino Arco di Augusto, inglobato nelle antiche mura di Rimini, del quale
Alberti traeva
riprendeva vari elementi. La parte superiore della facciata poneva un problema più complesso, dato che doveva
dissimulare il profilo a doppio spiovente della chiesa medievale, accordandosi al tempo stesso al ritmo dell’arco
trionfale inferiore. Conosciamo la soluzione immaginata da Alberti attraverso la medaglia di Matteo de’ Pasti, poiché
la facciata non è stata completata: le linee verticali del campo centrale dovevano essere riprese nel registro superiore da
un arco su pilastri, affiancato da due semifrontoni curvi per raccordarlo al registro inferiore – un disegno ispirato alla
tradizione delle chiese tardogotiche di Venezia e della terraferma veneta.
Solo uno dei fianchi laterali della chiesa è stato rivestito con il nuovo paramento “all’antica”: al di sopra del basamento,
che prosegue quello ai lati della facciata principale, la parete è cadenzata da arcate su pilastri modellate sulla struttura
interna del Colosseo, il cui ritmo è congegnato in modo tale da non ostruire le finestre gotiche.
Dopo questa esperienza, Alberti tornava a Firenze, dove realizzava una serie di
opere commissionate dal mercante Giovanni Rucellai (1403-1481), tra le quali è il
completamento della facciata, iniziato nel 1460, della Basilica trecentesca
domenicana di Santa Maria Novella. Qui Alberti era chiamato a configurare le
parti mediana e superiore, legandole al registro inferiore già esistente, scandito da
specchiature ad arcatelle marmoree bicrome che incorniciavano nicchie ad archi
ogivali, dove erano incassati sei sarcofagi gentilizi, intervallati dalle due porte
laterali. Adottando la policromia lapidea, egli intrecciava un vivace dialogo con la tradizione medievale locale (si pensi
alla facciata a due registri di San Miniato al Monte), senza rinunciare all’inserimento di intere parti desunte
dall’Antico. Tra queste spicca il portale centrale che, affiancato da eleganti pilastri angolari scanalati, ricalca quello del
Pantheon. Quattro semicolonne alludono a un portico inglobato nello spessore della parte inferiore della facciata, che
da esse viene tripartita e che è serrata alle estremità da robusti pilastri dal fusto vergato da fasce orizzontali bicrome.
Al di sopra dell’attico, ritmato da partiture geometriche lisce e policrome, si eleva il registro superiore, che imprime
sulla parete la traduzione “bidimensionale” del sintagma del fronte templare classico tetrastilo. Ai lati, due grandi
volute doppie, modellate sui contrafforti della lanterna di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi (1377-1446) e
Michelozzo (1396-1472) raccordano obliquamente i due registri della facciata: un dispositivo di dissimulazione del
tetto a capanna che avrà grande successo nell’architettura rinascimentale.
Sul finire degli anni Cinquanta Alberti era a Mantova, alla corte del marchese Ludovico Gonzaga che, non
diversamente da altri signori del tempo, aspirava a un ambizioso piano di Renovatio urbis ispirato all’Antico. A Leon
Battista affidava il progetto di due edifici religiosi: la chiesa votiva dedicata a san Sebastiano, all’estremità meridionale
della città, e la ricostruzione nel cuore urbano del Santuario di Sant’Andrea, dove si conservava dal IX secolo la
venerata reliquia del Preziosissimo sangue di Cristo.
Il progetto originale di Alberti per la Chiesa di San Sebastiano, probabilmente
risalente al 1460, è forse trascritto in un disegno di Antonio Labacco
raffigurante la pianta e uno schizzo del prospetto: la chiesa, concepita come un
moderno Pantheon, era a pianta centrale (una croce greca con i bracci absidati)
preceduta da un pronao e sovrastata da una grande cupola semisferica conclusa
da una lanterna; il prospetto con un grande portale centrale veniva coronato da due timpani sovrapposti. Molti di
questi riferimenti all’Antico scompaiono nella chiesa realizzata, completata diversi anni dopo la morte di Alberti; in
particolare, la facciata è contrassegnata da una serie di dissonanze che spezzano l’armonia del dialogo con i modelli
classici. Il fronte templare tetrastilo è declinato in una parete muraria, scandita da un ordine gigante di quattro
allungate paraste pseudo-tuscaniche che sorreggono un’alta trabeazione, interrotta al centro da una finestra coronata
da un arco a tutto sesto, ritagliato nel timpano.
La ricostruzione della Chiesa medievale di Sant’Andrea, nel centro di Mantova, era nelle
intenzioni di Ludovico Gonzaga almeno dal 1460, ma è solo un decennio più tardi che
l’idea inizia a concretizzarsi. Il primo progetto di Alberti, in sostituzione di quello
precedente di Antonio Manetti, è del 1470: una grande navata con cappelle laterali è
coperta da una volta a botte a lacunari “all’antica”. Il modello di quest’architettura sembra
avvicinarsi alle grandi basiliche romane tardoantiche, come quella di Massenzio e
Costantino. classico,
L’imponente corpo di facciata reinterpreta in una struttura muraria il pronao
combinando in modo spregiudicato il sintagma dell’arco trionfale a tre fornici – già impiegato nel Tempio
Malatestiano – con quello del fronte templare tetrastilo. Lo spazio di mediazione tra esterno e interno è coperto da
una volta a botte cassettonata centrale affiancata da due volte minori laterali disposte ortogonalmente ad essa, sul
modello delle strutture termali antiche. Il ritmo dinamico della facciata, dato dall’alternanza di campate maggiori e
minori tipica dell’arco trionfale (la cosiddetta “travata ritmica”), articola anche le pareti della navata, creando – come
nei templi classici – uno stringente legame strutturale e sintattico tra esterno e interno dell’edificio, in modo tale che la
facciata anticipa il modulo strutturale interiore.
Don