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DAI GLOSSATORI AI COMMENTATORI
In ambito giuridico, questo periodo di transizione è segnato dal passaggio dalla glossa al commento. La glossa, tipica del periodo
precedente, era uno strumento di sistematizzazione teorica del Corpus iuris civilis, finalizzato alla comprensione e al recupero del
diritto romano. Il commento, invece, rappresenta un nuovo metodo interpretativo, più pratico e aderente alla realtà concreta.
Esso nasce per rispondere alle esigenze di una società in rapido mutamento, in particolare nei contesti urbani dei comuni italiani
e francesi.
I commentatori – giuristi attivi nel XIV secolo – si distaccano dall’approccio puramente esegetico dei glossatori. Utilizzano il
diritto romano non come un corpo normativo da venerare, ma come uno strumento da adattare e piegare alle necessità della
società. Il diritto diventa flessibile, capace di rispondere alle trasformazioni politiche ed economiche. I commentatori si
concentrano in particolare sul diritto municipale e sugli statuti locali, che regolano concretamente la vita dei comuni.
Questo nuovo metodo trova la sua origine nella Scuola di Orléans, fondata dal glossatore Piacentino, ma si sviluppa
compiutamente in Italia con la nascita del mos italicus, un approccio pragmatico allo studio del diritto romano, attento alle
esigenze locali e alle applicazioni pratiche. In questo contesto si inseriscono anche i cosiddetti Postaccursiani, giuristi che si
pongono a cavallo tra glossa e commento, avviando una riflessione più concreta sul diritto attraverso la stesura di trattati giuridici
tematici.
Tra i trattati più significativi vi sono: Il Tractatus de ordine iudiciario di Guglielmo Durante, sul diritto processuale; le
Quaestiones statutorum di Alberto da Gambino, sul rapporto tra ius commune e iura propria; il Tractatus de maleficiis, che
segna la nascita del diritto penale come ramo autonomo.
Con i commentatori si compie un ulteriore sviluppo: il sistema delle fonti del diritto si struttura in modo complesso. Il ius
commune – cioè il diritto romano e canonico – diventa sussidiario rispetto ai diritti locali: viene applicato quando non esistono
norme statutarie, ma con la consapevolezza che può essere adattato ai nuovi bisogni della società.
I CONSILIA E LA COMMUNIS OPINIO
Tra i grandi protagonisti di questa stagione giuridica vi è Bartolo di Sassoferrato, massimo esponente del commento e fondatore
del cosiddetto bartolismo. Le sue opinioni sono talmente autorevoli da acquisire un valore normativo: diventano vere e proprie
fonti del diritto, utilizzate dai giudici in caso di vuoti normativi.
Con Bartolo nasce anche la figura del giurista-consulente, capace di influenzare direttamente la prassi giudiziaria. I consilia –
pareri legali richiesti da magistrati o dalle parti in causa – si diffondono rapidamente e segnano la nascita di una vera e propria
cultura forense.
Esistono due tipi principali di consilia:
1. Consilia sapientis iudiciarum: sono i pareri dati ai magistrati podestarili, spesso in vista di un giudizio sul loro operato
alla fine del mandato (tribunale del sindacato popolare);
2. Consilia pro veritate: sono i pareri richiesti dalle parti private per predisporre una difesa giuridica efficace.
Con la stampa del XV secolo, i consilia vengono raccolti e diffusi, diventando un’importante fonte dottrinale in tutta Europa.
Nasce così la communis opinio doctorum, l’opinione comune dei giuristi, che comincia a vincolare i giudici. Secondo Baldo degli
Ubaldi, ignorare questa opinione era un atto di temerarietà giuridica: la dottrina assume così una forza normativa pur non
essendo legge.
Questo sistema, fondato sulla prassi, sulla consulenza e sull’interpretazione dottrinale, pone le basi per il diritto moderno, dove
il precedente giurisprudenziale e la dottrina diventano elementi centrali della costruzione giuridica.
MOS ITALICUS E COMMENTO
Il mos italicus, affermatosi nella seconda metà del Trecento, rappresenta un’evoluzione del metodo di studio e applicazione del
diritto romano, che pur mantenendo formalmente inalterata la struttura del diritto comune (basato sul Corpus Iuris Civilis e
sull’uso delle categorie romanistiche), modifica radicalmente il ruolo del giurista e il suo atteggiamento verso la realtà. Il
cambiamento non è sostanziale dal punto di vista metodologico — si continua a partire dal testo romano, si citano le fonti, si
argomenta in termini romanistici — ma è profondo dal punto di vista dell’intenzionalità: il giurista del Trecento, il
commentatore, è immerso nella realtà concreta, interpreta e piega il diritto romano alle esigenze della vita comunale, delle
consuetudini locali, degli statuti. A differenza dei glossatori che cercavano una sistemazione teorica, i commentatori usano il
diritto romano come strumento pratico per risolvere conflitti, amministrare giustizia e governare la città.
La differenza tra glossa e commento non sta tanto nella tecnica (entrambe sono forme di interpretazione), ma nella finalità: la
glossa chiarisce il testo, mentre il commento lo rilegge criticamente alla luce del presente, lo adatta, lo trasforma.
Questo atteggiamento nasce da una nuova coscienza del diritto come fenomeno vivo, storico, legato al contesto sociale ed
economico. Non è un caso che questi giuristi si confrontino spesso con gli statuti municipali, con il diritto processuale e penale,
con i rapporti tra diritto comune e iura propria.
Nel Trecento, con il consolidarsi dei comuni in Italia e l’emergere delle monarchie assolute altrove in Europa, il diritto — e con
esso il ruolo del giurista — cambia profondamente. Non siamo più nell’epoca del giurista-filologo che, come i glossatori, si dedica
allo studio dei testi per spiegarli nei margini (glossae), quanto piuttosto nell’epoca del giurista-operatore sociale, politico,
consulente del potere. La figura del giurista si istituzionalizza, esce dall’università per entrare nella pratica del governo e della
giurisdizione. Il mutamento del metodo — da esegetico a logico-sistematico — riflette questo cambiamento di funzione: il diritto
non si studia più solo per conoscere, ma per applicare e risolvere problemi reali. Il Corpus iuris civilis diventa la base di un diritto
che si adatta, che integra gli statuti comunali, le consuetudini e le esigenze del potere politico nascente. Il giurista è ora
strumento tecnico dell’amministrazione, come accadrà poi anche negli stati assoluti. Questa trasformazione della figura del
giurista anticipa un’idea moderna di diritto come sistema funzionale, piegato alle esigenze della società e del potere, non più
contemplato come corpus dogmatico immutabile.
BARTOLO DA SASSOFERRATO E IL BARTOLISMO
Tra i commentatori fondamentali spicca Bartolo da Sassoferrato, il cui pensiero dà origine a un vero e proprio indirizzo di studi: il
bartolismo, insegnato in diverse università.
Bartolo è un giurista profondamente inserito nella sua realtà storico-politica, al punto che il suo lavoro mira a legittimare,
riconoscere e formare l’assetto politico e governativo delle istituzioni a lui contemporanee, in particolare i comuni dell’Italia
settentrionale, divenuti nel frattempo signorie. Pur utilizzando categorie giuridiche classiche già impiegate dai suoi
predecessori, Bartolo le rielabora in chiave nuova. Sebbene il suo pensiero si muova ancora all’interno delle categorie
giuridico-medievali, Bartolo non abbandona la tradizione, che conserva auctoritas, ma ne rielabora i contenuti, adattandoli a
fini nuovi
—concetto di “iurisdictio”
Il grande merito di Bartolo è quello di ridefinire la nozione di iurisdictio. Nella sua opera, essa non è più concepita come facultas
concessa da un’autorità superiore (come l’Imperatore), ma come espressione dell’autogoverno della comunità. Ogni civitas
possiede una giurisdizione autonoma, che non riconosce alcuna autorità superiore al proprio interno (superiorem non
recognoscens), analogamente a quanto riconosceva la bolla Per venerabilem al re nel suo regno. In questo quadro, lo statuto
comunale non è più una concessione imperiale (come stabilito dalla Pace di Costanza), ma una manifestazione della iurisdictio
propria della comunità. Bartolo, con raffinati sofismi giuridici, sovverte le categorie feudali e centralistiche, fondando una
concezione democratica e funzionale del potere.
—concetto di “potere”
Scrive un importante trattato sul potere pubblico, considerato fondamentale perché sistematizza concetti centrali e fornisce la
base teorica per i futuri sviluppi del pensiero sul potere assoluto. Per Bartolo, sotto l'influenza delle dottrine conciliariste, il
potere non appartiene al sovrano ma è in capo alla civitas, intesa come ente istituzionale che rappresenta il popolo. Il popolo
conferisce tale potere al proprio sovrano attraverso il consilium civitatis, un’assemblea rappresentativa analoga al concilio della
Chiesa. Così come il concilio può togliere il potere al papa, la comunità civile può revocare il mandato al proprio governante.
Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, infatti, muta quindi il concetto di potere in relazione alla sua titolarità: il
popolo non è più semplice destinatario del potere, ma soggetto istituzionale titolare dello stesso. Il potere pubblico diventa
così originario in capo al popolo.
—concetto di “aequitas”
Un altro concetto centrale nella dottrina bartoliana è l'aequitas: essa non è semplicemente la clemenza del giudice, ma diventa
strumento di creazione del diritto, riservato al giurista competente. La sua funzione è garantire l’adeguamento del diritto ai fini
dell’ordinamento. Per Bartolo, l'equità è orientata alla pubblica utilità, che è sacra (publica utilitas est sacra, come riportato
nella glossa De verborum significatione). Il giurista e l’amministratore devono agire secondo giustizia naturale e necessità, in
quanto la vera titolare della iurisdictio è la comunità, non il singolo detentore del potere. Nel pensiero di Bartolo, l’aequitas
diventa un parametro di giustizia finalizzata, cioè legata agli scopi dell’ordinamento. Non è più uno strumento per legittimare
poteri precostituiti, ma serve a giustificare giuridicamente i fini dell’ordinamento stesso. Da ciò consegue che stabilire norme in
contrasto con tali fini è illegittimo: il potere che si allontana dagli scopi dell’ordinamento è ingiusto. L’illegittimità risiede in ciò
che non è utile o che il popolo non considera utile al proprio governo. Il potere assume quindi una connotazione eminentemente
pratica e si esercita “necessitate”, cioè per necessit&a