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CAPITOLO 8: L’UOMO CON LA MACCHINA DA PROSA

Se James Joyce avesse potuto indicare un capitolo dell’Ulisse da leggere per racchiudere l’intero lavoro,non

avrebbe avuto esitazioni: era il penultimo capitolo dell’opera,”Itaca”, il suo preferito, perché Joyce era consapevole

che quell’episodio avrebbe rappresentato la controfirma al “passaporto per l’eternità” che avrebbe condiviso col suo

personaggio principale, Leopold Bloom.

Un piccolo mistero si nasconde in questo episodio che Joyce, sempre nella lettera di febbraio all’amico inglese,

annuncia sì di stare scrivendo “nella forma di un catechismo matematico”, ma solo per risolvere gli eventi cosmici,

fisici e psichici, così da consentire al lettore di venire a conoscenza dei fatti narrati nel modo più crudo e freddo,

proprio nel momento in cui Bloom e Stephen si sarebbero trasformati in corpi celesti.

La questione per Joyce divenne sempre più chiara; nello stesso anno in cui sarebbe uscita l’opera, i due capitoli

conclusivi finirono con l’essere scritti in parallelo per poi rinnegare quello che sarebbe stato l’ordine di apparizione

nel libro. Confidò che l’episodio di Itaca è la vera e propria conclusione, dal momento che Penelope non ha inizio né

centro né fine. L’atemporalità dell’ultimo episodio aveva caricato il penultimo della responsabilità di un finale, e non

è un caso che, mentre Penelope era già sul banco del tipografo, Joyce continuasse a lavorare su “Itaca”.

Quel procedimento catechistico crudo e freddo, doveva farsi carico di accompagnare Bloom nel sonno, per disporlo

all’incontro ad una nuova incarnazione, con la piena assunzione del suo destino ulissico.

Siamo ben oltre il dormiveglia di Molly; siamo nella parola che sfugge in tutte le direzioni per creare mondi. Da

qualsiasi lato lo si prenda, questo capitolo finisce sempre col surriscaldarsi nel giro di pochissime battute. Nell’Ulisse

non è importante la forma ma l’ossatura della narrazione; è infatti lo scheletro la parte del corpo cui l’episodio

rimanda, ed è dunque all’osso, a quello dell’opera che l’autore ci invita a guardare; uno scheletro di cui siamo

chiamati a farci carne (quello che Dziga Vertov chiedeva agli spettatori al di là dello schermo). Lo stile dell’episodio

con il suo susseguirsi di domande e risposte, è per davvero ridotto all’osso, a differenza dei primi due capitoli

dell’ultima sezione dell’Ulisse: da un lato, in Eumeo, abbiamo l’indiretto a libertà vigilata del contabile; dall’altro, in

Itaca, il “catechismo impersonale”.

L’impersonalità estrema della tecnica adottata richiama la formazione tomistica di Stephen, sicché siamo certi che

nel “Nostos” si susseguono: un capitolo quasi direttamente scritto dal Padre, un altro che segue i procedimenti di

pensiero del Figlio e l’ultimo che è la vera e propria Pentecoste della Santa Sapienza. Ma la tecnica “a

domanda-risposta” di “Itaca”, incrocia anche la propensione di Bloom per i libri di divulgazione scientifica,

confermando quel sentore di 700.

L’espediente formale prescelto procede quasi uno sbadiglio alla volta e si sa quanto sia contagioso se si ritrova in

gruppo; ma lo sbadiglio ci consente d’inquadrare in primo piano la macchina, perché mette allo scoperto le tecniche

in opera nella civiltà del libro.

L’acquisizione critica che ne deriviamo è che la macchina da prosa della cultura tipografica poteva essere lo

scheletro dell’Ulisse.

Quanto all’annusata del nostro uomo-medium subito dopo essersi tolto i calzini, per sentire “l’odore della carne

viva”, qui Joyce ci insegna che bisogna inalare le proprie stesse carni per riconoscersi quelli di sempre.

L’inseguimento (nella mente di Bloom) dell’acqua necessaria a riempire il pentolino in cui scaldarla per potersi

radere, occorrerà a portarci alle fonti del fiume Liffey, sulla rampa di lancio del Finnegans Wake. Quello che stiamo

accompagnando a letto, quasi fino a rincalzargli le coperte è per davvero l’uomo tipografico per eccellenza, così

come Odisseo era l’uomo-canto.

È solo un caso che il 1904 sia l’anno in cui Ambrose Fleming sperimenta per la prima volta le sue valvole a due

elettrodi, che avrebbero poi consentito, tramite telefono, la propagazione a distanza della voce umana. Lo è però

meno che l’anno stesso in cui Joyce continuava ossessivamente a lavorare su “Itaca” risulti essere quello del più

intenso dibattito pubblico sui futuri destini di un medium che prefigurava il diffondersi di suoni e parole verso

destinatari multipli.

In quel letto Bloom entra con reverenza, però è consapevole che entrarci significa inserirsi, ogni volta

rispettivamente primo e ultimo, in una serie che comincia e si ripete all’infinito. Il lenzuolo se in quel momento si

manifesta al contatto fresco di bucato è perché è stato scelto per Boylan, e presenta qua e là qualche briciola che

Bloom spazzerà via sorridendo. Ce ne saranno tante di briciole anche nella carrozza che aveva trasportato il corpo

di Dignam; qualcuno forse ci aveva fatto un pic-nic o chissà che cos’altro.

La linea degenerativa che abbiamo visto affiorare in Bloom dopo ogni incontro (sia pure casuale) col giovane

Dedalus, condurrebbe a capire il duumvirate cos’è: non un semplice passaggio di consegne ma una palestra

psichica da cui trarre un insegnamento.

Bisogna essere in tre, riflette Bloom, per fare una coppia che è sempre una coppia e mezzo. Bloom chiede a Stephen

di passare la notte da lui. Dalle parti di Eccles Street Bloom scavalca l’inferriata del seminterrato per entrare in

cucina e darsi da fare per accendere l’illuminazione a gas. In quel preciso momento Stephen potrà vedere

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attraverso i vetri trasparenti della cucina, l’immagine di quell’uomo che scruta il buio con una candela in mano. Le

due sagome in nero dell’Ulisse, finalmente si specchiano.

Il compito di Bloom è di tenere impegnato Stephen perché in quel giorno dei giorni non incontri una donna.

A che cosa si è ridotto quell’incontro del 16 giugno del 1904, che fu per James così significativo da renderlo “uomo”,

e gli bastò una mano? A nient’altro che a un “collasso”, quella mano di donna si è ridotta a una nuvola, il cui transito

schiaccia il personaggio al suolo. Su Stephen pende la minaccia di divenire a sua volta Amleto.

E ora che siamo giunti alle prime ore del venerdì 17 giugno, Bloom offre a Stephen una donna che nel reale è già la

sua donna. Nell’atto di separarsi, usciti di casa, i due rimirano le stelle e Bloom comincia un’ampia meditazione

sull’universo. Le stelle rimangono lì a farsi guardare; ecco come Bloom e Stephen (come tutti i personaggi

intrappolati in un medium) diventano stelle. Non c’è personaggio che non sia morto da un pezzo. Poi però succede

qualcosa in quel giardino, per iniziativa di Stephen i due fanno pipì insieme, come quella coppia di cani randagi

sulla spiaggia di Sandymount.

Qui appare un segno luminoso, una lampada a olio che si manifesta al secondo piano della casa di Eccles Street,

attirando lo sguardo di Bloom e Stephen: è Molly, la loro donna. I due smettono d’improvviso le loro chiacchiere

restando in “silenzio”.

Dedalus scompare come un fantasma e non sapremo più nulla di lui,si incammina verso una non precisata terra

d’origine celeste, dove magari è tornato ad aspettarlo l’artefice. Bloom rientrato in casa, dopo essere stato indotto

da quella separazione a pensare agli amici defunti, è scosso e non è più lo stesso. Batte la testa contro lo spigolo di

un mobile da poco spostato e s’imbatte nello spartito del tradimento.

Bloom avrà tempo di ricorrere alle sue strategie diversive, che Bloom utilizza già nella vita vigile ma che qui

occorrono come risultato “riposo profondo e rinnovata vitalità”.

Nell’atto di farsi la barba il nostro uomo comune, metterà in mostra “nella sua mano” la sua comprovata natura

“bisextine”. Il tutto avviene quando Bloom scorge quattro frammenti poligonali numerate: 8 87,8 86, le due ricevute

dell’agenzia ippica strappate da Boylan,che aveva puntato sulla puledra francese Sceptre e convinto a Molly a fare

altrettanto. Non è una questione di coincidenze: il tutto era cominciato con la commedia degli equivoci che chiude i

“Lotofagi”, quando Bloom aveva detto a Lyons che gli aveva chiesto di dare un’occhiata alla pagina dedicata al

concorso ippico e di tenersi pure il giornale dal momento che stava giusto per buttarlo via. Ma invece di ringraziarlo

e di prendersi il quotidiano, Lyons aveva respinto quest’ultimo con le mani e gli aveva risposto: “I’ll risk It”. Lo

voleva buttare Bloom quel giornale e così facendo ha annunciato al mondo il vincitore del giorno dei giorni.

Il nostro uomo dovrà affrontare un’ultima prova, la peggiore, se vorrà veramente disperdersi nel sogno. Il primo dei

due cassetti chiusi a chiave, Bloom lo doveva per forza aprire, è una necessità. Li ci ripone le lettere di Martha

Clifford, insieme a un paio di immagini pornografiche a sfondo esotico ed ecclesiastico.

Ma perché aprire il secondo? Quello doveva restare chiuso. Ne esce fuori il suo atto di nascita in cui è stato

registrato col nome di Leopold Paula Bloom; poi escono fuori: la polizza assicurativa per la figliola, il libretto

bancario, ricevute per l’acquisto di un lotto tombale, un ritaglio del giornale con l’annuncio dato pubblicamente da

Rudolph Virag di aver cambiato nome, un libro con un vecchio paio d’occhiali, una fotografia dell’hotel gestito dal

padre e infine una busta da lettera indirizzata “al mio caro figlio Leopold”. Il clima dell’episodio s’arroventa in un

attimo. Il padre aveva ricevuto da una settimana il suo responso medico, rivelando una malattia che ignoriamo ma

che dai sintomi di demenza è difficile non connettere.

A che cosa sarebbe servito a un uomo, combattere contro una vecchiaia che lo avrebbe ridotto a dipendere dagli

altri e anche da figlio essendo già vedovo dell’amata moglie? A niente.

E poi gli brilla qualche frase frammentata, come la raccomandazione di prendersi cura del vecchio cane Athos.

Aveva comprato una paglietta il suo ultimo giorno Rudolph divenuto Bloom. Il figlio non aveva avuto il cuore di

vedere il suo cadavere. Il povero Bloom, che adesso richiude quel cassetto, ci ha incontrato il suo destino. Bloom con

l’immagine ancora della paglietta del padre nella me

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Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/14 Critica letteraria e letterature comparate

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