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LA PESTE IN PETRARCA
Quando la peste iniziò a mietere vittime Petrarca si trovava in Italia e tra i morti ci fu
la sua amata Laura. Il poeta afferma che la morte in un attimo distrugge ciò che si è
costruito nella vita e arriva a pensare che solo la fede può dare un minimo di
conforto.
La peste è il motivo per il quale e per mezzo del quale il Canzoniere si sviluppa. La
terribile epidemia determina la sofferenza del poeta che, vedendosi privato della sua
musa, esprime all’interno di esso sentimenti che oscillano tra la gioia per la vita di
Laura e il dolore per la sua morte. Con la peste il poeta non perde soltanto l’amata,
ma anche il suo caro amico Giovanni Colonna, al quale dedicherà il sonetto 269.
Petrarca osserva come i segni della malattia rimangono nell’aria e come chi è ancora
in vita riporta la morte sul volto e, dopo questa esperienza, i temi della morte sono
più frequenti tanto da portare l’autore a concentrarsi sul presente poiché il futuro
sembra sempre più oscuro. La ricezione che assume la peste nell’animo del poeta è
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evidente nell’incipit delle Epistolae Familiares, raccolta di lettere inviate a parenti e
amici, all’interno della quale parla della sua esperienza di fronte all’epidemia.
La peste porta a non avere più fiducia, mettendo tutto in discussione, anche la
religione.
LA PESTE IN MANZONI
Manzoni scrive i Promessi sposi nel 1827 in cui descrive la peste che arrivò a Milano
nel 1629 a causa della guerra di successione del trono di Mantova. I Lanzichenecchi
vennero mandati dal ducato di Venezia per allargare il loro dominio e furono proprio
coloro che portarono la malattia (gli untori).
Manzoni a differenza di Petrarca e di Boccaccio visse la peste da esterno perché
racconta la peste del 1629 (200 anni prima della sua nascita). Leopardi invece
affronterà la tematica della malattia avendo vissuto l’esperienza ottocentesca del
colera. Leopardi vive la peste, riconosciuta nel colera, il male a lui contemporaneo,
diverso da quello trattato dal coevo Manzoni, che a tale epidemia non accenna.
La peste nei Promessi Sposi viene affrontata nei capitoli XXXI e XXXII. La loro natura in
parte storiografica e in parte romanzesca è nota al Manzoni, che vuole offrire ai suoi
lettori un quadro privo di lacune.
Manzoni riflette sul come le masse vivessero un delirio che non gli consentisse di
vivere la realtà dei fatti, inducendolo solo a delle illusioni che consolavano con più
facilità. Il regno della peste è un regno di caos, di disordine, personificato dagli orribili
monatti, coloro incaricati di trasportare nei lazzaretti i malati o i cadaveri.
Solitamente i monatti erano persone guarite dalla peste e quindi immuni ad essa, e
loro erano il risultato dell’indifferenza collettiva poiché entravano nelle case altrui
minacciando e rubando.
Manzoni spera che l’umano possa redimersi. Per l’autore il terrore è la
deresposabilizzazione provocata dalla peste, che rompe i freni inibitori e fa prevalere
il male sul bene.
Per Manzoni tutto quello che è umano, quindi creato da Dio, è degno di storia, anche
un argomento così orribile come la peste. La peste è una punizione divina
conseguenza della colpa dell’umanità che viene interpretata come Provvidenza
perché ha agito da “scopa” spazzando via i malvagi come don Rodrigo. Il Male non è
interpretabile come punizione divina e nemmeno come prova da superare,
corrisponde invece alle ragioni che la mente umana non può ricostruire; il Dolore è
utile per la salvezza dell’anima; il Lieto Fine sta nella soluzione dell’intreccio e
nell’aver superato esperienze insolite.
La Provvidenza permette al debole la redenzione e il riscatto dall’oppressione, a patto
che sia lui a interrompere il circolo di sangue non rispondendo alla violenza con altra
violenza.
Manzoni lascia un profondo messaggio: la fiducia nella giustizia divina come mezzo di
ribellione alle logiche della violenza che alimentano lo spettro del male sulla storia
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Della Provvidenza l’autore coglie l’aspetto individuale della grazia, infatti nel romanzo
la colpa è l’occasione in cui la grazia si può manifestare nella forma della conversione.
LA PESTE IN LEOPARDI
Leopardi nel suo Zibaldone sviluppa riflessioni personali in forma quasi privata sul
tema della peste. La malattia è intesa dal poeta come male comune a tutta l’umanità
che colpisce qualsiasi rango sociale, deturpa e rovina tutto ciò che incontra.
Tra il 1819 e il 1823 Leopardi passa dalla fase di pessimismo storico ad una fase di
pessimismo cosmico. Nella prima fase il poeta crede che il dolore sia il frutto negativo
dell’evoluzione storica perché essa comporta lo sviluppo del sapere razionale (in
questa fase la Natura è benigna perché prova pietà per l’uomo e gli fornisce
l’immaginazione). Nella seconda fase, invece, ribalta la concezione della Natura che
da benigna diventa matrigna perché essa è la causa del male che la vita riserva
all’uomo. Il poeta arriva così alla conclusione, nella fase di pessimismo cosmico, che
l’umanità non potrà mai essere pienamente soddisfatta e non potrà mai quindi
provare un vero piacere.
Il poeta sostiene che i mai sono necessari e perciò si appresta una situazione di
benessere inteso come assenza di malattia. La continuità dei piaceri porterebbe
all’abitudine, nemica del fremito che procura il godimento (la felicità). La noia, il
tedio, provoca malessere e inquietudine.
La natura attraverso la peste esplode nell’uomo e tale analogia si trova nella Ginestra.
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