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Alessandro Arbo - Musica nel museo. Riflessioni su un tema di Gadamer*
*Gadamer: filosofo tedesco, considerato uno dei maggiori esponenti dell'ermeneutica*
filosofica grazie alla sua opera più significativa, Verità e metodo. È stato allievo di Paul
Natorp e Martin Heidegger
Ermeneutica: arte o scienza dell’interpretazione del testo; all’inizio considerata ausiliare
rispetto alla filologia, teologia o giurisprudenza, nel Romanticismo si intravede
nell’ermeneutica qualcosa di più profondo e autonomo come sforzo di comprensione che va
molto al di là del testo e ricostruisce, con una sorta di congenialità, la mens auctoris. Per
Dilthey l’e. è la scienza dell’arte dell’interpretazione e concerne quelle manifestazioni della
vita spirituale che hanno trovato l’espressione più compiuta e conclusiva nello scritto. In tal
senso l’e. ha una funzione centrale e portante nelle scienze dello spirito, il cui oggetto può
esser colto adeguatamente solo attraverso un’interpretazione che realizzi in modo unitario e
intuitivo il nesso tra vita, espressione e ‘comprensione’
In uno dei saggi scritti da Alessandro Arbo nel suo libro “Il suono instabile”, si articola un
discorso sul modo in cui la teoria ermeneutica si applica all’interpretazione dell’opera
musicale e su come il distacco dell’istituzione museale abbia portato a una serie di rapporti,
opposizioni e implicazioni circa il problema della temporalità nella musica, una riflessione
soprattutto novecentesca. In particolare, il tema del distacco del museo viene ricordato sin
dalle prime pagine con il riferimento all’opera più importante di Gadamer, Verità e metodo, in
cui egli paragona la disposizione astratta, distaccata dalla realtà delle opere in un museo al
concerto organizzato dal circolo musicale o sala pubblica che si articola su una serie di
monumenti del passato. Gadamer scrive infatti che in un museo l’accostamento di oggetti che
provengono da mondi diversi provoca uno sradicamento, uno spostamento dell’arte
dall’ambito dell’esperienza, un processo che si può riconoscere già in Schiller con la
“coscienza estetica”. Il filosofo sosteneva che grazie a una forte capacità di astrazione si
potesse cogliere l’apparenza dell’arte in modo disinteressato: l’apparenza estetica si può
sviluppare nell’uomo a tal punto da svincolarsi non solo dalla morale, ma anche dai bisogni e
dai doveri, conciliando tutto in un ideale di bellezza superiore.
Questo atteggiamento lo si potrebbe associare all’ “emancipazione” delle attività musicali fra
700 e 800 quando, nel periodo di massima affermazione dello stile classico, l’istituzione del
concerto qualificava l’autonomia della musica strumentale, allora iniziata ad essere
considerata come pura o assoluta, ponendo così alcune premesse per l’esercizio ermeneutico.
Ma è chiaro come isolando il presunto lato estetico delle opere, collocandole in una galleria
ideale tendenzialmente astoria, la sala di concerto le sottrae al contatto con il presente,
rischiando di isolare il prodotto artistico dalle capacità di giudizio personali per subordinarlo
alla supremazia del riconoscimento ufficiale. Come in un museo così durante un concerto, al
pubblico viene in un certo senso concesso un atteggiamento assuefatto, più facilmente
distraibile, senza davvero comprendere il senso di quello che si vede o si ascolta.
Tuttavia, non si può imputare in maniera così estrema il disfacimento del rapporto con l’opera
alla sala da concerto e al teatro. Infatti, già durante l’800 si promuove una forma di
partecipazione più diretta e concentrata allo spettacolo musicale: il “religioso” silenzio, che di
per sé esprime una forma di rispetto. Secondo Gadamer, la sala da concerto realizza una
condizione preliminare e indispensabile a un autentico incontro con l’opera: la chiara
percezione, intesa come “prendere per vero”, da parte del soggetto interpretante. Questa
condizione in genere non è contemplata con la musica di consumo, poiché si ha una
percezione distratta che non permette di cogliere l’individualità dell’opera.
Dall’altro lato però Gadamer ritiene che ascoltare musica leggera sia un’esperienza più
significativa rispetto a quella delle sale da concerto. Questo perché l’esperienza è legata ed
emozioni della comunità giovanile, fra cui la commozione, l’entusiasmo, il vissuto; in questo
modo si ha un gruppo sociale che si riconosce nell’opera stessa, e così la musica leggera
diventa uno strumento non solo di incontro ma anche di mutuo riconoscimento. Essa esprime
lo scorrere del tempo unicamente tramite eventi sonori, diventa specchio di un’interiorità non
intaccata dallo spazio.
Ecco come la musica identifica un principio messo in campo dall’ermeneutica nello spiegare
l’incontro con l’opera d’arte in genere: la temporalità. Una questione che appare centrale
anche in Heinrich Besseler, che nei suoi saggi affronta il problema nell’indicare
esplicitamente una forma “originaria” della relazione con l’opera, una forma che precede e
supera, esistenzialmente e antropologicamente, l’esperienza del concerto. E’ il tema della
ricerca svolta nel 1925, sotto la guida di Heidegger, su alcuni aspetti fondamentali
dell’ascolto musicale, a cui poi, trent’anni più tardi, l’autore affermerà che questa forma
“originaria” è l’attiva relazione della musica nell’ambito di una comunità. Allontanandosi
sempre dalla ricezione “museale” della prassi concertistica, Besseler fa notare come feste e
ricorrenze comunitarie costituiscano la “musica a misura della vita di relazione”, che vive
nell’attivo interscambio tra i suoi portatori. Riecheggia così una sorta di nostalgia per un
mondo greco inteso come modello di una piena partecipazione allo spirito della tragedia;
Gadamer e Besseler, rimanendo fedeli al punto di vista di Heidegger, si ritrovano nel punto
secondo cui la musica va ripensata in base al suo radicarsi nel mondo dei rapporti quotidiani
(la “quotidianità” di Heidegger, l’Esserci nell’ “innanzitutto e per lo più”), e così vengono
considerate più originarie quelle esperienze musicali prossime alla danza, ma anche al jazz
improvvisato, dove la relazione attiva con la musica si esprime nel modo più emblematico.
Essenzialmente si passa dal museo all’ambiente, che permette di acquisire quell’esperienza
invece sottratta all’astrazione della società moderna. Anche Adorno denunciava una perdita
di senso nel rapporto con le opere, secondo lui distaccate dalla prassi sociale e divenute
oggetti di pura contemplazione, astratte e separate dall’ambiente reale. E secondo lui, il modo
per porre fine a questa pura adorazione è uno straniamento radicale utilizzando gli strumenti
di critica e soprattutto dell’interpretazione, liberando così l’opera dai luoghi comuni, dalle
venerazioni, dagli eccessi frutto della memoria storica che hanno finito per distorcere la sua
immagine. Adempiendo pertanto a un dovere nei confronti della cosa, si riduce la distanza fra
presente e passato, un compito portato a termine proprio dal pensiero critico e
dall’ermeneutica. Infatti, un’interpretazione indugia sulla cosa, evita di “consumarla” come
un prodotto socialmente consolidato, osserva Adorno.
A fare da ponte tra la prospettiva storica dell’800 favorevole al museo, e la critica della
ricezione museale nelle estetiche novecentesche, sono le filosofie di vita: in base al concetto
che la vita è ciò che sfugge e che si tratta di riafferrare (ad esempio le ricostruzioni delle
“esperienze vissute” che reggono le forme artistiche del passato, oppure l’ascolto liberato
dalle rigidità concettuali del dramma musicale), si vede come il museo diventi un ostacolo,
poiché esso in un certo senso si trasforma in un luogo di morte dell’arte, essendo che espone
prodotti “spenti”, serializzati, meccanizzati. Ancora una volta torna l’importanza del dialogo
tra l’interprete e l’opera, che secondo Gadamer è fondamentale per la libera contemplazione
della bellezza. Dialogo che nella musica si instaura proprio nell’esperienza dell’ascolto, che
per Gadamer vuol dire percepire con esattezza quanto si presenta all’orecchio: facendo
riferimento ad Heidegger, il “guardare”, il “percepire” nell’esperienza estetica si traduce nel
“cogliere come”. In questo caso “vedere significa articolare nei dettagli”, un procedimento
che troverà poi sviluppo nell'interpretazione; difatti la musica e il linguaggio sono considerati
in base all’articolarsi della comprensione, che per Gadamer è presente anche quando si
ascolta musica “pura”, priva cioè di contenuti oggettivamente significanti. Per Gadamer, il
comprendere mantiene un rapporto con la significatività, e l’indeterminatezza di questo
rapporto è specifica di quel tipo di musica. Questo perché “la percezione coglie sempre un
significato”.
Ma cosa significa qui “comprendere” o “interpretare”? Bisogna partire ancora una volta da
Heidegger. Egli afferma che una delle peculiarità dell’Esserci è quella di presentarsi come un
essere-interpretante, che non può sottrarsi alla condizione per cui l’esperienza viene colta
come possibilità all’interno del circolo della comprensione, e quest’ultimo è un fenomeno
radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, appartiene alla struttura del senso. Alla
comprensione, poi, è cooriginaria la situazione emotiva: ogni fenomeno, ogni percezione non
può presentarsi in modo neutrale, se non per esplicita (non sempre possibile) intenzione.
Questo perché l’orecchio in condizioni normali percepisce un suono già “orientato”, e lo
accompagna con “una certa comprensione”. Da qui si comprende come non può esistere un
ascolto scevro da promesse nell’esperienza dell’ascoltatore durante il risuonare della musica,
trovandosi l’orecchio già “gettato” in una certa situazione: l’ascolto, insomma, non può
essere mai disinteressato, esso è inevitabilmente condizionato dall’apertura di un certo
orizzonte di senso.
Da quanto scritto sopra si può arrivare a concludere che la conoscenza della musica come
fenomeno non verrà impostata come