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La giurisprudenza è suddivisa nei sistemi di common law e civil law. Nei sistemi di common

law, quando un giudice si pronuncia su una determinata questione, la decisione ha valore di

precedente e svolge una funzione creativa, poiché può dare origine a nuove regole; le

decisioni hanno in linea di principio valore vincolante per i casi successivi. Nei sistemi di civil

law, come in Italia e in altri ordinamenti europei non anglosassoni, la capacità di creare

norme non spetta alla giurisprudenza: i giudici sono soggetti alla legge e il loro compito non

è quello di creare nuove regole, ma di interpretare le disposizioni legislative. Le decisioni

giudiziarie, quindi, non hanno valore vincolante, ma forniscono orientamenti interpretativi.

common law (Inghilterra): quando il giudice emana la sentenza, questa ha valore di

precedente. La giurisprudenza ha una funzione creativa perché può creare delle regole

(nomo genetica)

civil law: i giudici possono solo interpretare le norme e le sentenze non hanno potere

vincolante

Il diritto privato si caratterizza per la regolazione dei rapporti tra soggetti che si trovano

tendenzialmente su un piano di parità; le regole rispettano l’autonomia dei soggetti e la loro

libertà negoziale. Il diritto pubblico, invece, si distingue per la supremazia di un soggetto (P.

A.) sull’altro, alla quale i cittadini risultano assoggettati e subordinati. Due istituti emblematici

sono il contratto, tipico del diritto privato, e l’espropriazione, tipica del diritto pubblico.

Il diritto privato è considerato diritto comune, costituito da regole che trovano applicazione in

assenza di una disciplina speciale. Anche la Pubblica Amministrazione ricorre spesso agli

strumenti del diritto privato, ma solo alcuni enti pubblici si possono avvalere degli strumenti

del diritto pubblico.

Nell’articolo 118, comma 4, della Costituzione, viene enunciato il principio della sussidiarietà.

Questo principio prevede che gli enti pubblici favoriscano in primo luogo perché i privati

eseguano attività di interesse generale. Se i soggetti privati non dovessero perseguire

queste attività allora interverrebbe lo Stato.

Nella Costituzione italiana si trovano due principi fondamentali: il principio di uguaglianza

formale, sancito nel primo comma dell’articolo 3, secondo cui tutti i cittadini sono uguali

davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e

condizioni personali o sociali; e il principio di uguaglianza sostanziale, previsto nel secondo

comma dello stesso articolo, che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine

economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il

pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione

politica, economica e sociale del Paese.

Il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità

sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione,

opinioni politiche e condizioni personali o sociali. Questo rappresenta il principio di

uguaglianza formale, che, a differenza di quanto avveniva nel regime fascista, significa che

non sono ammesse discriminazioni. La vita matrimoniale, ad esempio, implica responsabilità

e impegni reciproci: eventuali differenze tra i coniugi devono essere ragionevoli e non

discriminatorie.

Il secondo comma enuncia invece che, poiché alla nascita non siamo tutti nelle stesse

condizioni, è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale

che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo

della persona e la partecipazione di tutti alla vita politica, economica e sociale del Paese.

Questo è il principio di uguaglianza sostanziale, che si traduce in azioni concrete volte a

ridurre le situazioni di disuguaglianza. Tuttavia, l’applicazione di tale principio può

comportare anche una limitazione dell’autonomia dell’individuo, poiché lo Stato interviene

per correggere gli squilibri. Un esempio è rappresentato dalla legge 392/1978, nota come

legge sull’equo canone, che fissava un limite al canone di locazione degli immobili. Tale

legge, nata per affrontare il problema dell’alloggio e impedire che i locatori imponessero

canoni troppo elevati, è stata successivamente in parte abrogata, ma resta un esempio

significativo di intervento volto a realizzare l’uguaglianza sostanziale.

Le regole giuridiche nascono da specifiche fonti del diritto, che sono strutturate secondo una

gerarchia.

1. Costituzione: è la fonte suprema dell’ordinamento, non può essere contraddetta da

nessun’altra norma. È stata promulgata nel 1947 ed è entrata in vigore il 1° gennaio

1948; deriva dall’incontro di diverse componenti ideologiche (liberale, cattolica e

socialista). La Costituzione può essere modificata solo attraverso un procedimento

complesso e aggravato, che può prevedere un ricorso ad un referendum.

2. Leggi ordinarie e atti aventi forza di legge: le leggi ordinarie sono approvate da

Camera e Senato, in un sistema di bicameralismo quasi perfetto. Gli atti aventi forza

di legge sono emanati dal Presidente della Repubblica su iniziativa del Governo.

○ Decreti-legge (art. 77 Cost.): adottati dal Governo in casi straordinari di

necessità e urgenza; devono essere presentati subito alle Camere, che entro

60 giorni devono convertirli in legge, altrimenti decadono.

○ Decreti legislativi (art. 76 Cost.): emanati dal Presidente della Repubblica

sulla base di una legge delega approvata dal Parlamento, che fissa le

materie, i principi, i criteri direttivi e il termine entro il quale il Governo deve

esercitare la delega.

○ Controllo di costituzionalità: se una legge ordinaria è sospettata di essere

incostituzionale, il Presidente della Repubblica può rinviarla alle Camere per

una nuova deliberazione; se le Camere la riapprovano, il Presidente deve

comunque promulgarla. Tuttavia, anche dopo l’emanazione, può emergere la

sua incostituzionalità: in tal caso la Corte costituzionale valuta la conformità o

la difformità rispetto alla Costituzione e, se la dichiara incostituzionale, la

legge perde efficacia.

3. Regolamenti: sono atti normativi adottati dal Governo senza l’intervento del

Presidente della Repubblica. Possono avere carattere generale e riguardano materie

non coperte da legge. Possono essere:

○ regolamenti governativi, emanati dal Consiglio dei ministri;

○ regolamenti ministeriali, adottati dai singoli ministri.

Durante la pandemia di Covid-19, ad esempio, i DPCM (decreti del

Presidente del Consiglio dei ministri) furono molto discussi dai

costituzionalisti. I regolamenti sono subordinati alle leggi: se contrastano con

esse, un giudice può disapplicarli.

Tutti i provvedimenti legislativi sopra indicati (Costituzione, leggi, decreti,

regolamenti) rientrano nelle fonti normative scritte.

4. Consuetudini: non sono atti normativi, ma fatti, e derivano da due elementi:

○ la costante e uniforme ripetizione di un comportamento da parte di una

collettività (elemento oggettivo) (usus),

○ la convinzione che tale comportamento sia giuridicamente obbligatorio o

lecito (elemento soggettivo) (opinio iuris et necesitates).

Prima dell’800 le consuetudini avevano un ruolo fondamentale, perché i

codici erano complessi e spesso inadeguati: la ripetizione costante di pratiche

sociali creava regole non scritte, la cui “scrittura” non era altro che la

documentazione di una norma già esistente.

Il diritto privato si caratterizza per la presenza di un atto formativo particolarmente lungo e

complesso: il Codice civile, promulgato con regio decreto dal Re d’Italia ed entrato in vigore

il 16 marzo 1942, in un periodo in cui l’Italia era ancora sotto il regime fascista ed impegnata

nella Seconda guerra mondiale. Si parla spesso della “funzione bellica” del codice, poiché

nacque in un contesto storico particolare; pochi anni dopo, con la promulgazione della

Costituzione repubblicana (1948), si pose il problema della coesistenza tra i due testi. La

coesistenza è stata possibile perché il Codice civile è un atto normativo con una bassa

componente politica e un’alta componente tecnica: le sue norme hanno lo scopo di

regolare la vita economica e sociale, favorire un’allocazione efficiente delle risorse,

disciplinare l’attività economica e permettere la coesistenza di interessi contrapposti. Solo

alcune parti del codice erano in contrasto con la Costituzione, in particolare quelle relative

alla famiglia; infatti, l’articolo 29 della Costituzione sancisce l’uguaglianza morale e giuridica

dei coniugi, superando l’impostazione patriarcale contenuta nel codice originario.

Il Codice civile italiano del 1942 è generalmente considerato un buon codice anche perché

redatto da giuristi molto competenti, nonostante il contesto politico del regime. Esso si ispira,

tra le altre fonti, al Code civil napoleonico del 1804, che aveva avuto il merito di unificare

in Francia una normativa disomogenea e caotica.

In origine esistevano due codici separati: il Codice civile, destinato a regolare i rapporti tra

privati in generale, e il codice di commercio, che disciplinava le attività commerciali e

imprenditoriali. Questa duplicità fu seguita anche in Italia, dove il codice di commercio del

1808 (ispirato a quello francese) venne sostituito nel 1882 da un nuovo codice, più moderno

e sistematico. Nel corso del Novecento maturò l’esigenza di una riforma più ampia e si

decise di unificare i due codici: la fusione, avvenuta sotto il regime fascista (probabilmente

per volontà di Mussolini, in quanto i due codici rappresentassero l’ideologia di una società

frammentata.), diede origine all’attuale Codice civile unico del 1942, che contiene anche la

disciplina delle imprese e delle società, in precedenza regolate dal codice di commercio.

Il giurista Ascarelli ha osservato che il codice di commercio si caratterizzava per il suo

dinamismo, essendo volto a regolare attività economiche in continua trasformazione, mentre

il Codice civile tradizionalmente aveva la funzione di proteggere la proprietà e i diritti

acquisiti. Un esempio emblematico è la disciplina del possesso di buona fede: se un

oggetto, ad esempio una penna, viene rubato e successivamente venduto a un acquirente

che ignora la provenienza illecita, l’acquirente ne diventa comunque proprietario. Questo

principio mira a tutelare la certezza dei traffici giuridici e il regolare svolgimento delle

relazioni economiche.

Quando vengono abrogate norme contenut

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Scienze giuridiche IUS/01 Diritto privato

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