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DELL’ESPOSIZIONE A CVM
Innanzitutto, c’è da dire che il tribunale ha usato con cautela le risultanze
epidemiologiche. Pertanto, a fronte di un impianto accusatorio fondato su studi
epidemiologici attuati vengono ritenute utilizzabili soltanto le leggi scientifiche
fortificate da altre indicazioni epidemiologiche riferite ad un ampia popolazione di
individui o da studi di laboratorio. In questo modo il giudice evita il rischio di un
accertamento circolare e ripetitivo qual è quello che pretende di trarre dall’evidenza
empirica degli eventi lacui eziologia deve essere verificata, la prova dell’eziologia
medesima. Non può essere la descrizione dell’evento a testimoniare il fondamento
scientifico dell’ipotesi causale, bensì deve essere il fondamento scientifico dell’ipotesi
causale a sostenere l’attribuzione obiettiva dell’evento all’autore della condotta. Il
tribunale ritiene dunque ricevibili soltanto le leggi scientifiche che definiscono un
rapporto di consequenzialità tra Cvm e sindrome di Raynaud e l’angiosarcoma epatico;
così come ritiene scientificamente comprovato il manifestarsi dell’angiosarcoma sia
preceduto da un significativo periodo di latenza (12-34 anni, con latenza media di 22
anni), pertanto i casi particolari presentati dal PM vengono correlati a esposizioni
avvenute non oltre la fine degli anni 60 quando alcune mansioni erano svolte a
contatto con dosi di Cvm ben più elevate di quelle sufficienti ad innescare la
patogenesi. Si ritiene scientificamente confermata la tesi che il cvm ( a quelle dosi )
sia un cancerogeno soltanto iniziante. Il processo tumorale quindi non viene aggravato
da ulteriori esposizioni. Ciò significa che sono causalmente rilevanti solo le condotte di
coloro che erano dirigenti negli anni delle prime esposizioni. Le indicazioni
epidemiologiche che sorreggono queste conclusioni vengono ritenute attendibili
perché numerose e univoche e condivise dalla comunità scientifica e confermate da
studi sperimentali. Studi che descrivono alcuni anelli casuali tipici rilevabili in sede
autopica, e differenti da quelli che segnalano differenti origini e differenti patologie.
Inoltre, secondo la convinzione del giudice, l’angiosarcoma e la sindrome di Raynaud
possono derivare soltanto da esposizione a cvm e da poche altre cause alternative
tutte note.
È facile escludere l’intervento in concreto di queste ultime così da concludere
positivamente l’accertamentodella causalità individuale. Al contrario, certe frequenze
presentate dai consulenti del PM a dimostrazione dell’associazione tra Cvm e tumore
polmonare, cirrosi epatica epatocarcinomi distinti dall’angiosarcoma vengono ritenute
inutilizzabili a causa della loro inadeguatezza strutturale a sostenere l’ipotesi della
causalità in concreto o per incoerenze interne e limiti di metodo perlopiù testimoniati
dalla mancata condivisione, o dall’aperto rigetto, nella comunità scientifica di
riferimento. Si denunciano evidenze non univoche nei diversi studi; contraddizioni
nelle relazioni dei consulenti, mancanze di credibili conferme di laboratorio, ruolo
elevato e non ponderabile di fattori di confondimento. Quest’ultimo aspetto suggerisce
un’ulteriore osservazione: la natura multifattoriale di alcune patologie, prima ancora
che complicare la verifica della causalità individuale,se non adeguatamente ponderata
può invalidare lo studio epidemiologico e dunque inficiare la prova della stessa
causalità generale. Per tale ragione, il Tribunale di Venezia, nelle sue enunciazioni
astratte in punto di causalità non attribuisce importanza all’esclusione di decorsi
alternativi quale criterio per l’accertamento delnesso condizionalistico in concreto.
LA PROVA DELLA CAUSALITA’ INDIVIDUALE
Abbiamo già sottolineato che il tribunale effettua un accertamento della causalità
individuale sufficientemente rigido, infatti:
1. procede a valorizzare elementi riscontrabili nel caso concreto e corrispondenti
alle specificità del decorsocausale descritto nella legge scientifica di riferimento.
2. e pretende che la pubblica accusa escluda oltre ogni ragionevole dubbio
l’incidenza di spiegazioni causalialternative.
Così, per esempio, se ritiene insostenibile l’ipotesi di un nesso causale tra esposizione
professionale e tumore ai polmoni è anche perché i 12 insaccatori che avevano
contratto la malattia avevano tutti fumato oltre 20 sigarette al giorno per 30/40 anni.
Rispetto agli operai deceduti per angiosarcoma la CAUSALITA’ INDIVIDUALE viene
affermata specialmente perché e sopratutto quando l’esame autoptico evidenzia i
precursori tipici della patologia direttamente associabili all’esposizione al CVM. Avute
queste conferme ‘’ positive ‘’ il giudice non si attarda ad escludere possibili decorsi
alternativi ritenendo già raggiunta una conferma oltre ogni ragionevole dubbio.
IL TEMA DELLE CONCAUSE
C’è da aggiungere però che il PM aveva percepito come l’elevata incidenza
dell’anamnesi di molte vittime ( es. malati di cirrosi) di fattori causali scientificamente
noti ( come fumo e alcol) potesse in qualche modo oscurare il possibile ruolo
eziologico dell’esposizione al CVM. Dunque per aggirare l’ostacolo aveva tentato di
dimostrare come in ogni caso l’esposizione al CVM potereste indurre o comunque
potenziare l’efficacia di quelle differenti fonti di produzione dell’evento. In poche
parole il PM provava a ridescrivere alla stregua di una relazione tra concause quella
che appariva essere, invece, una contrapposizione tra spiegazioni alternative
dell’evento. Anche questa impostazione viene smentita dal tribunale perché
l’ipotizzata concausalità non è sorretta da adeguati riscontri scientifici. Più
precisamente, la circostanza che in certe indagini autoptiche fossero state evidenziati
elementi riconducibili tanto alla fibrosi che ai precursori della cirrosi e
dell’epatocarcinoma non necessariamente testimoniava una sinergia tra fattori
patogeni di due decorsi causali alternativi autonomamente in atto. E come già è stato
detto, mancando il supporto di una legge scientifica, nessuna inferenza causale può
essere tratta dalla mera osservazione del dato empirico processualmente rilevante.
Nonostante la correttezza della conclusioni, il tribunale azzarda tuttavia
un’affermazione di principio discutibile nella sua perentorietà, secondo la quale in
maniera della prova che un fattore agisce come causa non v’è la possibilità, per altro
fattore, di assumere la qualità di concausa, dal momento che nel nostro ordinamento
la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se
non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste
di concausa. L’asserto viene criticato nella sentenza d’appello, e poi dalla Cassazione.
In realtà, un certo fattore può non essere in sé per sé causa, e però costituire,
elemento necessario di un complesso sufficiente di concause, anche per questa via
assumendo il ruolo di condicio sine qua non penalmente rilevante.
UN PUNTO DI NON RITORNO
Il processo al petrolchimico di Porto Marghera segna una sorta di punto di non ritorno.
La discrasia tra causalità su popolazione ( tipica dell’epidemiologia) e causalità
individuale ( tipica del diritto) impedisce di fornire una risposta ai casi in cui sia
provato che delle persone sono morte a causa dell’esposizione, ma non è possibile
stabilire in modo univoco la loro identità. Dunque cosa occorre fare dunque per
superare questa situazione? Si va a delineare il concetto di accertamento alternativo
che sottolinea che il nesso può ritenersi esistente quando è certo che la condotta
dell’imputato ha causato un danno ma non è possibile individuare in modo certo le
vittime. Impostazione che però non ha incontrato fortuna perché è parsa un modo
sofisticato per scardinare, nei fatti, garanzie penalistiche fondamentali: eppure la
qualità delle motivazioni che l’accompagnavano avrebbe meritato una maggiore
attenzione criticoscientifica, invece che un’istintiva reazione di rigetto. Vi è poi l’ipotesi
di ricorrere a figure, eventualmente già esistenti, di reati di pericolo contro l’incolumità
pubblica, o ancora la proposta, de iure condendo, di predisporre figure di reato
rispondenti ad una ratio di precauzione ed attentamene articolate sul paradigma del
rischio.
CASO DEL PETROLCHIMICO PORTO MARGHERA—> ESPOSIZIONE A
SOSTANZE TOSSICHE E COLPA Riprendendo il caso, gli imputati sono stati
chiamati in giudizio per aver colposamente procurato la morte o le lesioni gravi di un
buon numero di lavoratori specialmente fra gli autoclavisti e gli insaccatori impegnati
negli stabilimenti del Petrolchimico. Tali eventi, a loro volta, si sono prodotti in
conseguenza dello sviluppo di una serie di patologie riguardanti il fegato e altri organi
vitali in qualche modo correlabili all’esposizione alle sostanze tossiche del Cvm
trattate nei reparti della Montedison.
Agli imputati titolari di cariche di amministrazione o di controllo nell’esercizio delle
attività d’impresa nel periodo compreso fra gli anni 60 e la fine degli anni 90 del
secolo scorso è stato contestato di non aver tempestivamente apprestato le
necessarie misure di sicurezza con cui proteggere i lavoratori più esposti al rischio di
subire gli effetti nocivi delle sostanze tossiche. Il problema della responsabilità colposa
degli imputati si è posto con particolare insistenza per l’attribuzione della morte dei
dipendenti colpiti da angiosarcoma epatico, tenuto conto che, da un lato, per gli eventi
che hanno interessato organi diversi dal fegato non è stata ritenuta l’integrazione del
nesso causale ‘’ oltre ogni ragionevole dubbio’’, perciò non si è arrivati a discutere di
una loro attribuzione per colpa, mentre dall’altro lato, la contrazione delle patologie
epatiche non letali ( come ad esempio la sindrome di Raynaud) da parte dei lavoratori
non avrebbe comportato per gli imputati responsabilità penale, essendo nel frattempo
maturata la prescrizione per i reati di lesione grave e colposa.
Sul tema della colpevole attribuzione agli imputati della morte dei lavoratori deceduti
in conseguenza dell’angiosarcoma epatico le soluzioni cui sono giunti i giudici nel
corso del procedimento appaiono contrarie: infatti mentre il tribunale di Venezia ha
ESCLUSO gli estremi per rimproverare le condotte degli imputati approdando ad un
verdetto d