RELIGIOSA E RELIGIOSO-CULTURALE
Secondo l’art. 20 della Costituzione, sarebbe difficile sostenere che le garanzie costituzionali pensate
per le religioni tradizionali valgano solo per esse.
È più giusto pensare che queste garanzie vadano estese anche a forme di religiosità nuove, dinamiche,
e magari stravaganti, in base al principio di ragionevolezza.
Un elemento fondamentale è la tutela dell’identità, che è legata:
• al valore della persona,
• al pluralismo democratico,
• e riguarda non solo i singoli, ma anche i gruppi collettivi.
In generale, il bisogno di identità collettiva è collegato alla tutela della persona e quindi va promosso e
protetto (art. 2 Cost.).
Questo vale ancora di più per i gruppi religiosi, dove:
• la religione agisce come collante identitario,
• e ha un legame forte con la cultura, capace di influenzare tutta l’esperienza sociale e
giuridica degli individui.
In queste situazioni, il rapporto tra individuo e gruppo religioso è diverso da quello che esiste nei gruppi
non religiosi. Perciò, lo Stato deve rispondere in modo adeguato, creando tipi giuridici che riconoscano
e tutelino questa specificità.
Nel caso delle confessioni religiose tradizionali, questo è possibile grazie:
• alla libertà di autorganizzazione,
• e agli accordi bilaterali con lo Stato.
Ma è importante sottolineare che anche soggetti religiosi non confessionali (cioè non legati a una
confessione precisa) possono rivendicare la tutela della loro identità religiosa collettiva, anche se
espressa in modo implicito o diffuso.
Questa è una prima forma di differenziazione normativa interna al fenomeno religioso. Deve essere
calibrata in base a come il soggetto si presenta e a quanto è forte il suo elemento religioso.
In questi casi, si può applicare in modo adattato e bilanciato un principio già presente negli accordi con
la Chiesa cattolica: secondo l’art. 7, comma 3 dell’Accordo del 1984 (legge n. 121/1985), gli enti religiosi
riconosciuti possono svolgere anche attività diverse, ma devono farlo nel rispetto della loro struttura
e finalità religiose.
Anche se questo principio nasce in un contesto concordatario (quindi formale e legato alla Chiesa
cattolica), le esigenze che tutela possono valere anche per soggetti religiosi diversi:
• non confessionali,
• senza legami formali con una confessione,
• oppure con finalità religiose non tradizionali e espresse in modo più flessibile.
Quindi, questo principio potrebbe assumere un valore più generale, in base al modo specifico in cui si
manifesta l’elemento religioso. 18
Alla base c’è l’idea che il fattore religioso meriti una disciplina diversa, perché appartiene a un ordine
“altro” rispetto a quello statale. Ma questo non significa che debba esserci sempre una forma
confessionale precisa.
In sostanza, la tutela dell’identità organizzativa di un gruppo religioso non è riservata solo alle
confessioni religiose. Può riguardare anche altri soggetti per cui la religione è vissuta in modo diverso,
ma altrettanto importante dal punto di vista identitario.
16. L’ACCESSO ALLE MISURE PROMOZIONALI E DI SOSTEGNO DELLA
LIBERTÀ RELIGIOSA
La questione dell’accesso ai benefici (economici e giuridici) a sostegno della libertà religiosa è più
complessa.
Questi benefici sono previsti dagli artt. 3, comma 2, e 19 della Costituzione e sono collegati alla natura
religiosa dell’ente.
In alcuni casi, un gruppo nasce proprio dalla condivisione della fede e dei suoi valori. Questa
convergenza ideologica è così forte da:
• diventare la ragione stessa dell’esistenza del gruppo,
• e condizionare il suo modo di organizzarsi e di porsi davanti allo Stato.
In questi casi, la richiesta principale del gruppo è avere libertà e autonomia, cioè spazi di azione sociale
e giuridica coerenti con la propria identità religiosa.
Ma in altri casi, ciò che lo Stato valuta non è tanto l’identità religiosa in sé, quanto le azioni concrete
che il gruppo compie. In particolare, quelle che servono a realizzare i fini comuni e che, in base alla loro
utilità sociale, possono meritare sostegno giuridico o finanziario.
Anche in questi casi, le azioni del gruppo si ispirano alla fede, ma la valutazione dell’ordinamento
riguarda più l’attività oggettiva che non la religiosità complessiva del soggetto.
La differenza tra le due situazioni è sottile ma importante:
• nella prima, conta il soggetto (cioè il gruppo in sé);
• nella seconda, conta l’attività svolta.
A volte è difficile distinguere le due cose, perché sono collegate. Però, dal punto di vista giuridico e
normativo, si tratta di due logiche diverse, che richiedono criteri di valutazione diversi.
Molti studiosi ritengono che:
• in passato, era accettabile una disciplina giuridica basata sui soggetti, perché erano pochi,
conosciuti e simili alla cultura dominante;
• oggi, per evitare discriminazioni, la legge dovrebbe guardare non ai soggetti, ma alle attività
svolte, perché queste sono più oggettive e meno influenzate da giudizi di valore.
Un esempio storico di eccessiva attenzione al soggetto religioso si trova nell’art. 29, lettera h) del
Concordato del 1929, dove si dice che il fine religioso o di culto è equiparato ai fini di beneficenza e
istruzione, ma solo per i soggetti legati alla Chiesa cattolica.
Questa norma: 19
• dava valore pubblico alla religione, ma solo in forma cattolica;
• favoriva la fusione tra Chiesa e Stato;
• e aveva una forte impronta discriminatoria.
Anche se oggi questo principio è stato ridimensionato, è stato ripreso nell’Accordo del 1984, ma dovrà
trovare nuove giustificazioni coerenti con la Costituzione.
Questo esempio dimostra che:
• negli anni si è sentito il bisogno di definire meglio per legge il fine di religione e di culto,
• ma oggi il valore del fine religioso si misura soprattutto in base alle attività svolte,
• e non deve più essere usato per dare patenti generali di religiosità soggettiva.
tutto questo ci fa capire che:
• il modo in cui si intende il “fine religioso” ha grandi conseguenze sistematiche;
• le soluzioni giuridiche non sono mai neutrali, ma rispecchiano scelte politiche e di valore;
• e quindi non conta tanto lo strumento giuridico, ma come lo si usa.
17. L'INADEGUATEZZA DEI CRITERI TRADIZIONALI E LA NECESSITÀ DI
UN NUOVO APPROCCIO PER QUALIFICARE I FENOMENI RELIGIOSI
COLLETTIVI
Anche se rappresenta un passo avanti rispetto al criterio soggettivo (basato solo sull’intenzione del
soggetto), il criterio oggettivo-materiale usato per dedurre se un'attività ha un fine religioso o di culto
presenta comunque problemi importanti, che oggi richiedono una revisione da parte del diritto e della
dottrina.
Infatti, anche se questo criterio può sembrare neutro, in realtà la scelta di quali attività ritenere
"religiose" è una scelta di valore, non un semplice dato oggettivo. Non si tratta solo di registrare un
fatto, ma di prendere una posizione giuridico-politica. Dire che un’attività ha significato religioso
significa valutare e preferire un certo legame tra attività e finalità religiosa, escludendone altri che
potrebbero essere ugualmente validi.
Per chiarire meglio, è utile ricordare che il riconoscimento del fine religioso-cultuale può avere due
funzioni distinte:
1. Limitare la rilevanza civile del legame tra un ente e la confessione religiosa di appartenenza.
In questo caso, la deduzione oggettiva del fine serve a delimitare le aree in cui lo Stato
riconosce la libertà delle confessioni di gestire il proprio patrimonio. È un modo per attuare
il principio di autonomia delle confessioni religiose, ma senza che lo Stato debba
promuoverle direttamente (tranne nel caso in cui si tratti di attività equiparabili a
beneficenza o istruzione).
2. Accedere alle misure di promozione pubblica, previste ad esempio dall’art. 3, comma 2,
della Costituzione. Qui il fine religioso serve non per qualificare il soggetto, ma per stabilire
quali attività meritano sostegno pubblico. In questo senso, è una scelta politica che
stabilisce priorità sociali e decide quali interessi valorizzare.
In sostanza:
• Quando lo Stato promuove certe attività legate alla religione, non basta dire che un ente è
religioso: si guarda piuttosto alle attività concrete e ai fini che realizzano. 20
• Si dovrebbe quindi distinguere meglio tra profilo soggettivo (chi è l’ente) e profilo oggettivo
(che cosa fa).
• Inoltre, il profilo oggettivo dovrebbe essere più flessibile, usando categorie giuridiche
dinamiche.
18. PARTE SECONDA: SOGGETTI RELIGIOSI, FINI RELIGIOSI E INTERESSE
GENERALE – PRINCIPI, VARIABILI E CRITICITÀ
Tutte queste riflessioni trovano conferma nei cambiamenti attuali nei rapporti tra pubblico e privato,
con l’affermazione del Welfare sussidiario e della cosiddetta economia civile e del Terzo settore.
Questi cambiamenti incidono profondamente anche sui soggetti religiosi, aprendo nuove possibilità per
attuare il potenziale innovativo dell’art. 20 della Costituzione.
Infatti, il divieto di discriminazione per gli enti religiosi e l’evoluzione del Welfare si influenzano a
vicenda e generano anche problemi concreti.
19. LA REINTERPRETAZIONE DELL’ART. 20 COST. ALLA LUCE DEL
PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
Vediamo ora il rapporto tra il fine religioso-cultuale, riconosciuto dalla Costituzione, e il principio di
sussidiarietà (art. 118, comma 4, Cost.).
• L’art. 20 Cost. impedisce discriminazioni verso enti religiosi.
• L’art. 118, comma 4, Cost. riconosce il ruolo attivo di cittadini e formazioni sociali (quindi
anche enti religiosi) nel perseguire interessi generali.
Quindi, l’inserimento degli enti religiosi nel circuito della sussidiarietà appare logico e automatico, se
essi agiscono in settori di utilità sociale.
Questa riscoperta dell’art. 20 non è casuale: secondo alcuni studiosi, si tratta del riconoscimento
costituzionale del ruolo che le religioni già svolgono nella coesione della società. In altre parole, la
politica ha in parte abbandonato certe funzioni, lasciandole alle religioni che, con le loro dottrine e
prassi, le mantengono vive nella società.
Ma tutto questo porta anche a problemi importanti:
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