FAMILIARE”
Il dovere di collaborazione, distinto dal precedente dovere unitario di
assistenza reciproca, ha oggi autonomia ma la sua componente patrimoniale
trova piena attuazione nel dovere di contribuire ai bisogni della famiglia.
Diversamente dall’assistenza morale e materiale centrata sul rapporto tra
coniugi, la collaborazione riguarda l’interesse dell’intero nucleo familiare,
riferito a esigenze comuni assunte in una dimensione collettiva. Non coincide
con il vecchio “interesse superiore della famiglia”, perché coinvolge anche
aspettative di altri soggetti che la comunità familiare assume nell’interesse di
tutti. Consiste nell’osservare i comportamenti necessari alla vita familiare
condivisi da coniugi e figli, in coerenza con l’indirizzo familiare concordato.
Sono in violazione del dovere i comportamenti contrari o non conformi a tale
indirizzo, mentre la collaborazione può includere anche cure e affetti verso i
figli dell’altro coniuge quando ciò agevoli l’assolvimento dei doveri genitoriali di
quest’ultimo.
“IL DOVERE DI COABITAZIONE”
Prima della riforma del 1975 il dovere di coabitazione, posto al primo posto
tra i doveri coniugali, includeva non solo l’obbligo di vivere in un’unica casa ma
anche l’idea del focolare domestico, risentendo del potere del marito di fissare
la residenza familiare e dell’obbligo della moglie di seguirlo. Oggi il dovere si è
trasformato per l’ampliarsi della vita fuori casa e per la facoltà di ciascun
coniuge di avere un proprio domicilio nei luoghi dei propri affari o interessi; il
problema riguarda se coabitare significhi vivere nello stesso luogo o convivere
anche senza coincidenza spaziale. I termini “coabitare” e “convivere” non
hanno un uso univoco, ma la convivenza esprime un fenomeno più complesso,
legato alla comunione di vita materiale e morale. Se questo fosse il senso del
dovere, esso perderebbe rilevanza, come parte della dottrina ritiene non più
essenziale. Il dovere va considerato nell’unità della situazione coniugale,
comprendendo anche un profilo spirituale oltre la materialità della casa. L’art.
45 c.c. consente ai coniugi non una diversa residenza ma un diverso domicilio,
anche funzionale all’adempimento di altri doveri, come collaborazione e
contribuzione ai bisogni familiari. La coabitazione non si esaurisce nella
presenza fisica continua sotto lo stesso tetto, pur essendo questa parte
essenziale: mantiene una componente spirituale e non è violato il dovere se un
coniuge trascorre periodi altrove per motivi di lavoro.
“IL PRINCIPIO DELL’ACCORDO”
Il principio dell’accordo regola sia i rapporti personali sia quelli patrimoniali
tra coniugi ed è posto a tutela dell’eguaglianza e dell’autonomia familiare.
L’art. 144 c.c. stabilisce che i coniugi concordano l’indirizzo della vita familiare
e la residenza, e l’accordo diventa un vero dovere: non implica che l’intesa
debba sempre essere raggiunta, ma richiede l’impegno leale a trovarla,
evitando rifiuti ingiustificati o ostruzionismi. L’accordo è lo strumento
attraverso cui si esprime l’autonomia familiare, riguarda ogni aspetto della vita
di coppia e con i figli ed è quasi sempre tacito, flessibile e variabile nel tempo
secondo le esigenze della famiglia (rebus sic stantibus). Gli accordi sono negozi
giuridici particolari, soggetti a validità e meritevolezza: devono rispettare
norme imperative, ordine pubblico, buon costume e realizzare le finalità della
famiglia come comunità di affetti. L’autonomia non può derogare ai doveri
coniugali: i coniugi possono modularne l’adempimento, ma non eliminarli né
creare subordinazione. La vincolatività degli accordi non comporta coercibilità:
spesso non è possibile imporre esecuzioni specifiche, specie nei rapporti
personali (come patti sui rapporti sessuali o sul non avere figli). La rilevanza
deriva dal riconoscimento dell’ordinamento e dall’essere espressione dei
principi familiari. L’art. 144² c.c. attribuisce a ciascun coniuge il potere di
attuare l’indirizzo concordato, segno della volontà legislativa di vincolare alle
intese. La violazione dell’accordo, come quella degli altri doveri, può rilevare in
sede di separazione ai fini dell’addebitabilità, incidendo sull’intollerabilità della
convivenza e qualificando il comportamento contrario al principio dell’accordo.
“L’ACCORDO SULLA RESIDENZA FAMILIARE”
La residenza familiare, prevista dall’art. 144 c.c., è una decisione essenziale
della comunità familiare e non coincide con la residenza della persona, ma con
il luogo in cui i coniugi convivono, collegato al dovere di coabitazione. Essa
deve essere fissata considerando le esigenze di tutti i membri della famiglia,
inclusi i figli, e richiede un accordo che tenga conto di necessità di vita, lavoro,
studio e salute. Ciò che la norma impone è la volontà dei coniugi di raggiungere
un’intesa accettabile: il dovere di accordarsi è un vero dovere coniugale e la
sua violazione, tramite rifiuto ingiustificato e ostinato di concordare la
residenza, può determinare separazione giudiziale e addebito. Il semplice
rifiuto di aderire alla volontà dell’altro non è censurabile, perché il dissenso è
possibile; è invece rilevante sottrarsi alla decisione del giudice ex art. 145 c.c.,
che, pur non coercibile, resta vincolante al pari di qualsiasi accordo coniugale.
“IL COGNOME DELLA FAMIGLIA E DEI FIGLI”
Prima della riforma del 1975, il cognome della moglie veniva sostituito con
quello del marito, considerato “cognome della famiglia”. La riforma ha stabilito
che la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito, senza che il
marito assuma modifiche, eliminando il concetto di “cognome della famiglia” e
il ruolo di capo della famiglia. Alla separazione o al divorzio, la moglie può
perdere il cognome del marito, salvo autorizzazione del tribunale per motivi
legittimi, come l’interesse dei figli o pregiudizi professionali.
Per quanto riguarda i figli, prima della riforma assumevano automaticamente il
cognome del padre; oggi la prassi è stata criticata come tradizione patriarcale,
e la Corte costituzionale ha riconosciuto la possibilità, se concordata dai
genitori, di scegliere il cognome dei figli. Successive modifiche legislative e
giurisprudenziali consentono oggi di attribuire al neonato il solo cognome della
madre, o il doppio cognome, seguendo l’ordine paterno-materno, su richiesta
motivata dei genitori.
“L’INADEMPIMENTO DEI DOVERI CONIUGALI”
I doveri coniugali hanno natura giuridica e conseguenze diverse in caso di
inadempimento, a seconda che siano personali o patrimoniali. Per i doveri
personali, come la coabitazione o l’assistenza morale e materiale, l’esecuzione
in forma specifica è difficile; tuttavia, l’abbandono ingiustificato della residenza
familiare sospende il diritto del coniuge all’assistenza reciproca e può
determinare la separazione o l’addebito della stessa (art. 146 c.c.). In caso di
violenze familiari, il legislatore prevede ordini di protezione temporanei (artt.
342-bis e 342-ter c.c.) che tutelano integrità fisica, morale e libertà dei membri
della famiglia.
Per i doveri patrimoniali, come il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei
figli, si applicano tutele analoghe all’inadempimento delle obbligazioni: il
giudice può imporre garanzie, sequestri o pagamenti diretti ai beneficiari (artt.
1564-1566 e 316-bis c.c.). Inoltre, la giurisprudenza riconosce la possibilità di
risarcimento del danno per violazione dei doveri personali quando il danno sia
diretto e immediato, come nei casi di abbandono di un coniuge incapace di
provvedere a sé stesso o violazione del dovere di fedeltà.
CAPITOLO 6
“I RAPPORTI PATRIMONIALI”
“I RAPPORTI PATRIMONIALI”
I rapporti patrimoniali tra coniugi hanno la funzione di garantire il sostegno
economico necessario alla realizzazione della personalità dei membri della
famiglia, nel rispetto di solidarietà ed eguaglianza. Prima della riforma del
1975, la disciplina del codice del 1942 prevedeva una netta diseguaglianza: il
marito aveva l’obbligo di mantenere la moglie, mentre la partecipazione
economica della donna era eccezionale e subordinata al possesso di dote o
all’insufficienza dei mezzi del marito. Con l’evoluzione dei costumi e del ruolo
della donna, la riforma del 1975 ha eliminato strumenti di subordinazione come
la dote e ha introdotto il fondo patrimoniale e la comunione legale dei beni,
garantendo la contribuzione di entrambi i coniugi ai bisogni della famiglia
secondo le proprie capacità, riconoscendo pari dignità al lavoro professionale e
casalingo (artt. 143 e 148 c.c.).
Il regime patrimoniale legale può essere derogato tramite accordi dei coniugi,
che possono scegliere comunione convenzionale, separazione dei beni o altri
regimi, purché le intese siano lecite e meritevoli di tutela, nel rispetto della
solidarietà familiare e della parità economica dei coniugi.
“IL REGIME PATRIMONIALE PRIMARIO”
Il regime patrimoniale primario consiste nel reciproco dovere dei coniugi di
contribuire ai bisogni della famiglia secondo le proprie sostanze e capacità di
lavoro, professionale o casalingo (art. 143 c.c.). Questo dovere è inderogabile e
si applica indipendentemente dal regime patrimoniale scelto, distinguendosi
dai regimi secondari. Esso sostituisce il precedente dovere di mantenimento
previsto dal codice del 1942, che gravava principalmente sul marito, e realizza
un principio di eguaglianza e solidarietà all’interno della famiglia.
Il contributo riguarda bisogni concreti dei membri della famiglia, inclusi i figli, e
non si limita a esigenze astratte; esso integra i rapporti personali con un
supporto economico solidaristico. La proporzionalità del contributo non va
intesa in senso matematico, ma come parametro di riferimento flessibile per il
giudice, valutando le capacità e le risorse dei coniugi. Anche il lavoro casalingo
è riconosciuto come contributo essenziale. La misura dei bisogni e del
contributo è elastica e relativa alla situazione economica della famiglia,
garantendo che i bisogni individuali essenziali dei membri siano soddisfatti per
favorire lo sviluppo della loro personalità (artt. 2 e 29 Cost.).
“IL REGIME PATRIMONIALE SECONDARIO”
Il regime patrimoniale second
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