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LA PESTE NEI PROMESSI SPOSI
La peste del 1630 è uno degli eventi più drammatici dei Promessi Sposi, un
episodio che segna profondamente la trama e trasforma il destino dei
personaggi. Alessandro Manzoni non si limita a descriverla come una
calamità naturale, ma la usa per mettere in discussione l’ordine sociale,
rivelando le sue ingiustizie e le sue debolezze. La peste, infatti, non è solo
un flagello fisico, ma un dispositivo narrativo e simbolico attraverso il
quale Manzoni mostra il disfacimento delle istituzioni, l’inconsistenza del
potere e la precarietà della condizione umana. Colpendo ricchi e poveri
senza distinzioni, la peste si trasforma in una sorta di giustizia sociale
naturale, che punisce i malvagi e pone fine alle loro oppressioni, mentre
offre ai giusti e agli umili la possibilità di redenzione o di crescita
interiore.
Nei Promessi Sposi, la peste viene introdotta gradualmente nei capitoli
XXXI e XXXII, in un crescendo narrativo che ne mostra l’arrivo, la
diffusione e gli effetti devastanti. Manzoni attinge a fonti storiche
come Giuseppe Ripamonti, storico dell’epoca, per ricostruire con
precisione il propagarsi del morbo e l’incapacità delle autorità di gestire
l’epidemia.
La peste arriva a Milano a seguito delle guerre tra Francia e Spagna e
trova terreno fertile nella carestia e nella miseria della popolazione. Già nei
capitoli precedenti, Manzoni ha mostrato le difficoltà economiche del
popolo: la scarsità di cibo, l’avidità dei commercianti e l’ingiustizia dei
potenti che accumulano risorse per sé stessi. Quando la peste si diffonde, è
evidente che la società era già malata ben prima dell’arrivo del contagio: la
vera peste, infatti, è la corruzione morale e politica che domina la città.
Uno degli aspetti più significativi della rappresentazione della peste è
la negazione iniziale da parte delle autorità. Manzoni descrive il
comportamento delle classi dirigenti, che rifiutano di riconoscere il
pericolo fino a quando l’epidemia è ormai fuori controllo. Questo mostra
l’incapacità del potere di affrontare le crisi e la tendenza a negare la realtà
per evitare responsabilità.
Allo stesso tempo, Manzoni mette in evidenza l’irrazionalità della folla,
che, invece di cercare soluzioni concrete, cade vittima della superstizione e
cerca un capro espiatorio negli "untori", accusati di diffondere il morbo
con sostanze velenose. Questo episodio, con la folla che si abbandona alla
violenza contro innocenti, dimostra come il vero nemico della società non
sia solo la peste, ma l’ignoranza e la paura che portano alla distruzione
della razionalità.
Se fino a questo momento nel romanzo il potere era stato saldamente nelle
mani dei nobili e dei potenti, la peste ribalta questa gerarchia. Il
contagio non fa distinzioni di classe: i nobili, che fino a quel momento
avevano goduto di privilegi e immunità, si trovano improvvisamente
vulnerabili come tutti gli altri.
LA PESTE COME STRUMENTO DI GIUSTIZIA
Uno degli esempi più emblematici della peste come strumento di giustizia
è la fine di Don Rodrigo, il nobile prepotente che ha perseguitato Renzo e
Lucia per tutto il romanzo. Mentre nei capitoli precedenti il suo potere
sembrava incontrastabile, ora si ritrova solo, abbandonato e divorato
dalla malattia, fino a morire in un lazzaretto senza alcuna dignità.
Manzoni descrive la sua agonia con toni cupi e quasi macabri,
sottolineando la sua disperazione e l’assenza di aiuto. Questo evento
assume una forte valenza simbolica: la giustizia umana non è riuscita a
punire Don Rodrigo, ma la peste sì. Se la società non è stata capace di
fermare l’ingiustizia con la legge, la natura lo ha fatto attraverso il
contagio.
Mentre i potenti soccombono, gli umili e i giusti trovano nella peste
un’opportunità di riscatto morale. Padre Cristoforo, che già nel romanzo
aveva mostrato la sua grandezza d’animo, diventa un vero e proprio
martire: si dedica interamente alla cura degli appestati nel
lazzaretto, sacrificando la propria vita per gli altri.
Anche Renzo subisce una trasformazione: da giovane ingenuo e
impulsivo, attraversa l’esperienza del lazzaretto e ne esce cambiato.
Inizialmente animato da desiderio di vendetta contro Don Rodrigo, arriva a
vederlo morente e prova compassione per lui, segno di una crescita
interiore che lo porta a una maggiore maturità.
Lucia, invece, vive la peste con una fede incrollabile: pur soffrendo per la
perdita di persone care e per la paura del futuro, mantiene la speranza e
la fiducia nella Provvidenza, che alla fine la porterà a riunirsi con Renzo.
Oltre a essere un evento storico, la peste diventa un simbolo della
malattia morale della società. Manzoni ci mostra come il morbo non sia
solo fisico, ma anche etico e politico.
L’incapacità delle autorità di gestire l’epidemia è il riflesso
dell’inefficienza e della corruzione del potere.
Il comportamento irrazionale della folla dimostra come la paura
possa trasformare le persone in strumenti di ingiustizia, proprio come
era accaduto con il sistema feudale.