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Ricordiamo anche altri maestri che sentirono il bisogno di cambiare strada, tra tutti il maestro umbro Orlando
Spigarelli e Maria Maltoni della scuola di San Gersolè, i quali puntarono sulla valorizzazione della lingua e
delle esperienze di vita dei loro bambini, lasciandone anche testimonianza scritta. Da un lato, il maestro
Spigarelli invitava i suoi alunni a utilizzare il dialetto e li incoraggiava a produrre deliziosi pezzi mistilingui.
Dall’altra parte, i ragazzi di Maria Maltoni, scrivono dei diari, i Quaderni di San Gersolé, in cui raccontano di
sé e descrivono la natura che li circonda usando un italiano semplice e scarno, funzionale al contenuto. Un
esempio sono i passi, tratti da Il libro della natura, una raccolta di disegni di piante e animali accompagnati
dalle descrizioni dei ragazzi, una sorta di enciclopedia della natura vista attraverso gli occhi dei bambini, (“il
susino” e “il geco”).
Se confrontiamo questi testi con le produzioni scritte della scuola ufficiale, possiamo forse capire lo scandalo
che questi maestri rappresentarono nella scuola del tempo. C'era tuttavia, dietro questa scelta
apparentemente lassista e permissiva, l'idea che il retroterra linguistico degli allievi fosse non già un insieme
di cattive abitudini da correggere e possibilmente sradicare, ma un patrimonio da salvare, un mezzo in grado
di veicolare esperienze di vita importanti, delle quali la scuola doveva insegnare a parlare, e a scrivere, con i
dovuti mezzi e con il dovuto rispetto.
Infine, un'altra figura eccezionale fu Don Roberto Sardelli, un prete che svolse la sua opera educativa nelle
borgate romane, tra i ragazzi del sottoproletariato urbano, di cui colse lo sradicamento culturale e linguistico.
Con uno stile e un linguaggio che ricordano la Lettera a una professoressa, i suoi allievi scrivono cose non
molto dissimili.
Commentando questa esperienza quasi trent'anni dopo, Tullio De Mauro ne sottolinea un aspetto che la
rende estremamente interessante: a differenza dei ragazzi di Oreste Spigarelli e di Maria Maltoni che,
confinati nei loro paesini, hanno tuttavia a disposizione una lingua (il dialetto) con la quale sono ancora in
grado di esprimere la loro cultura, i ragazzi di Don Sardelli vivono una realtà linguistica (e culturale) dissociata.
Non sono più dialettofoni e non sono ancora, e forse non lo diventeranno mai, italofoni. Privati della loro
lingua, conoscono della nuova soltanto "poche parole". Ciò è dovuto al fatto che lo sviluppo delle società
moderne funziona in modo tale che sradica molti dalle loro matrici linguistiche, ma non gli consente
l'acquisizione di altre matrici. Nascono così degli "sradicati" linguistici, cioè gruppi sempre più folti,
soprattutto di ragazzini, e di parlanti, che non sanno più l'idioma nativo dei padri e delle madri e non hanno
avuto i mezzi per acquisire il controllo di un idioma nuovo e diverso. In Italia, infatti, hanno perduto il dialetto,
ma non sanno l'italiano. I LINGUISTI
Mentre si compivano le esperienze educative che ribaltavano le pratiche della pedagogia linguistica
tradizionale, il mondo della linguistica italiana era in fermento. Uno dei primi atti pubblici di questa nuova
linguistica italiana fu la costituzione della Società di Linguistica Italiana (SLI), il cui anno di nascita (1967)
coincide, significativamente, con l'anno di pubblicazione della Lettera a una professoressa.
In particolare, l’articolo 3 dello Statuto della SLI è dedicato alle Finalità dell'associazione e individua sia un
interesse teorico che applicativo, consistente nel promuovere la creazione di una comunità di studiosi nel
cui ambito ogni prospettiva di ricerca linguistica trovi pieno riconoscimento e appoggio.
Subito dopo, dalla SLI nacque per filiazione diretta una nuova associazione, il GISCEL (Gruppo di Intervento e
Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica), che farà del rinnovamento della pedagogia linguistica
tradizionale il suo cavallo di battaglia, anzi la sua unica ragion d'essere.
La storia linguistica dell’Italia unita:
È il titolo di un libro importante per la storia della nostra disciplina, il cui autore è Tullio De Mauro. È stato
pubblicato nel 1963, qualche anno prima della nascita della SLI, e lo ripropose in versione ampliata nel 1970.
In quest'opera si traccia il quadro della situazione linguistica italiana a partire dall'unificazione politica (1861)
e fino agli anni del secondo dopoguerra. De Mauro ricorda come la storia linguistica di un paese sia
intimamente e inestricabilmente connessa con le sue vicende economiche, sociali, politiche, culturali (come
l'asseto demografico delle arie aree del paese, l'urbanesimo, le migrazioni interne ed esterne, il livello di
scolarità ecc.), e come sia dunque impossibile per lo storico della lingua pretendere di operare in piena
"autonomia", chiuso nell'ambito della propria disciplina, con «esclusione di ogni cenno a dati e fatti non
linguistici».
Fu dunque anche grazie alla Storia che si imposero all'attenzione dei linguisti temi come l'analfabetismo, i
risvolti linguistici delle trasformazioni sociali che hanno interessato l'Italia dall'Ottocento in poi, il
plurilinguismo diffuso nella società italiana, le responsabilità della scuola nell'adozione di modelli linguistici
superati, e quindi la denuncia di una «aulicità spropositata» e della assoluta «negligenza delle reali
condizioni linguistiche dei discenti».
De Mauro, tuttavia, non nasconde che ai fini dell'insegnamento dell'italiano nella scuola la sua opera
presenta limiti strutturali che la sua buona volontà non può bastare, nell'immediato, a colmare. Mancavano,
infatti nel 1970, alcuni supporti scientifici ritenuti indispensabili ad un reale rinnovamento dell'insegnamento
linguistico: la mancanza di una descrizione analitica del sistema grammaticale e sintattico italiano; l’assenza
di un'analisi sociolinguistica che desse conto della pluralità di modelli regionali e del loro ambito di legittimità
spaziale e sociologico-stilistica; la mancanza di un quadro sociolinguistico e stilistico delle diverse norme di
utilizzazione della lingua, dal livello colloquiale, familiare e popolare più informale, ai livelli formali. Questo
libro né poteva né doveva dare tutto questo, tuttavia, ha contribuito a diffondere la consapevolezza di queste
esigenze.
Oggi, a più di quaranta anni di distanza, le priorità indicate da De Mauro sono state soddisfatte, e le carenze
denunciate sono state in gran parte colmate, grazie allo sforzo congiunto di grammatici, storici della lingua e
sociolinguisti.
Suggestioni esterne: il dibattito sulla deprivazione verbale:
E’ bene presentare la posizione di alcuni linguisti e sociologi dell'educazione di area anglosassone, i quali
influirono non poco sul dibattito interno. Pensiamo soprattutto a Basil Bernstein e a William Labov, e, per
anni più vicini a noi, Berruto.
Il nome di Basil Bernstein è legato alla teoria della cosiddetta "deprivazione verbale", elaborata e resa nota
in Italia nel periodo a cavallo tra gli ultimi anni Sessanta e i primi anni Settanta. Secondo questa teoria le
differenze socioeconomiche influiscono in modo determinante sul linguaggio e quindi sul rendimento
scolastico. Attraverso la tecnica dell'intervista e l'applicazione di una serie di test a gruppi distinti di ragazzi,
Bernstein trovò infatti che «il successo scolastico dipende in larga misura dalla capacità verbale, a sua volta
correlata positivamente con lo status sociale medio e alto». La ragione di questa correlazione sta nelle
abitudini linguistiche e sociali delle diverse classi, e tali abitudini si originano nel momento stesso
dell'apprendimento della lingua da parte del bambino, nel suo rapporto privilegiato con la madre e nel ruolo
da ciascun membro occupato nell'ambito familiare:
➢ La famiglia di classe media è una famiglia orientata sulla persona, che tende cioè a sviluppare la
personalità di ogni suo membro, e in cui i rapporti interpersonali sono mediati continuamente attraverso
il linguaggio. Quindi, fin dall'inizio il bambino è esposto ad una vasta gamma di possibilità e scelte
linguistiche. Questo tipo di linguaggio viene da Bernstein definito "linguaggio formale" e,
successivamente, "codice elaborato". Un linguaggio di questo tipo presenterà un alto grado di
imprevedibilità perché saranno presenti in misura elevata le scelte e le modificazioni individuali, e inoltre
sarà reso del tutto esplicito, in quanto non riferibile ad una base comune di esperienze codificate. È
evidente come un linguaggio di questo tipo sia funzionale alla scuola, e garantisca buone possibilità di
successo a chi lo possegga;
➢ La lingua delle classi basse è al contrario una lingua poco adatta alla scuola, e anche qui le origini vanno
cercate lontano, nelle prime e fondamentali esperienze linguistiche del bambino nell'ambito familiare. La
famiglia operaia e contadina è in genere una famiglia posizionale, orientata non già sulla persona ma sulle
"parti", vale a dire sui ruoli ricoperti da ciascun membro al suo interno: l'individuo non vale per sé stesso,
ma come "padre", o "madre", o "moglie", o "figlio" ecc. è legato ad un ruolo fisso, ad una parte
prestabilita non suscettibile di grandi modificazioni. Dunque, l'individuo ha poco da inventare perché ha
bisogno di poche parole per definirsi e realizzarsi. Da ciò emerge una lingua elementare, che Bernstein
chiamò prima «linguaggio pubblico» (nel senso di linguaggio di un gruppo, povero o addirittura privo di
elementi creativi individuali), poi «codice ristretto», che si caratterizza per la scarsità degli elementi
formali che concorrono alla sua organizzazione, per la rigidità e la prevedibilità della sua struttura. Il suo
contenuto sarà piuttosto concreto e descrittivo che analitico e astratto e, proprio per il fatto che gli
interlocutori condividono già il modo di essere, di pensare e di agire, parte del significato trasmesso
resterà implicito e il discorso presenterà conseguentemente salti logici.
Bernstein ritiene preferibile il codice elaborato, l'unico in grado di garantire le molteplici esigenze della
comunicazione e lo sviluppo cognitivo dell'individuo, anche se riconosce al codice ristretto alcune
caratteristiche positive quali la semplicità, l'immediatezza e il vigore espressivo.
La teoria di Bernstein, tuttavia, fu fatta oggetto di critiche severe, soprattutto riguardo la relazione, giudicata
troppo semplicistica, tra codice ristretto/elaborato e classe sociale, anche se in sviluppi successivi de