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MOSTRANO RAGUNARE A RAGIONARE INSIEME SOTTO IL REGGIMENTO DI PAMPINEA SI RAGIONA DI
.
QUELLO CHE PIÚ AGGRADA A CIASCUNO
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte
pietose siate, tante conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá grave e noioso principio, sí
come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalitá trapassata, universalmente a ciascuno che
quella vide o altramenti conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa porta nella sua fronte.
Ma non voglio per ciò che questo di piú avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra’ sospiri e tra le
lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’
camminanti una montagna aspra ed erta, appresso la quale un bellissimo piano e dilettevole sia
riposto, il quale tanto piú viene loro piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello scendere la
gravezza. E sí come la stremitá dell’allegrezza il dolore occupa, cosí le miserie da sopravvegnente
letizia sono terminate. A questa brieve noia; dico brieve in quanto in poche lettere si contiene;
seguirá prestamente la dolcezza ed il piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse da cosí
fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per
altra parte menarvi a quello che io disidero che per cosí aspro sentiero come fia questo, io l’avrei
volentier fatto: ma per ciò che qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno
avvenissono, non si poteva senza questa rammemorazion dimostrare, quasi da necessitá costretto a
scriverle mi conduco.
In questa importante soglia del testo, BOCCACCIO riprende a usare la voce dell’autore, che è
intonata già, però, in forme e modalità che non sono più quelle autobiografiche viste nel Proemio.
Con questo paragrafo di passaggio (è quasi un anello di congiunzione) la voce di BOCCACCIO
sperimenterà una nuova modulazione narrativa: a partire da questo passaggio la voce di
BOCCACCIO diventerà quella del cronista, una voce molto più asciutta e meno melodiosa di quella
del Proemio. L’autore cambia registro, e lo fa con uno stile che è sicuramente più elevato di quello
“colloquiale” del Proemio: BOCCACCIO fa mostra, di fronte al lettore, di una nuova declinazione
della voce dell’autore.
Questo «orrido cominciamento» è un passo necessario, non può essere eluso prima di parlare delle
cose che il narratore ha in mente di proporre al lettore. Dunque, la descrizione della peste del 1948, il
grande flagello d'Europa, viene presentata qui al lettore, e non come un fatto solo italiano o addirittura
solo fiorentino, ma con una connotazione di grande respiro, con questa ombra nera che dall’Oriente
si è avvicinata all'Europa e ha radicalmente mutato l'esistenza di un intero continente, decimando la
popolazione e cambiando la demografia dell’Europa, ma anche incidendo, portando dei
mutamenti profondi dal punto di vista filosofico e religioso, artistico e letterario. Molti cronisti
del tempo, dice BOCCACCIO, preferirebbero (e preferiranno) non descrivere questo buio, mentre per
lui è un passaggio ineludibile.
Per vedere da vicino questa descrizione, mettiamo in luce alcune informazioni indispensabili. Intanto,
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ci sono molti studi che hanno indagato le fonti, ossia si sono chiesti quali siano le fonti che
BOCCACCIO ha di sicuro usato per descrivere la peste; di queste, colpiscono anche delle fonti un po’
bizzarre, che non ci si aspetterebbe, ma che lui dichiara espressamente. Una di queste fonti è la
Historia Langobardorum di Paolo DIACONO: DIACONO era un grammatico della corte di Carlo
Magno (dunque, è una fonte altomedievale: il testo è vergato tra il 787 e il 789), e la sua opera ebbe
grande diffusione. In modo particolare, BOCCACCIO ci orienta verso un paragrafo di quest’opera
che ha colpito la sua attenzione: in esso DIACONO descrive una «maxima pestilenza» fiorita in
Liguria, ed è questa una descrizione secca, lapidaria, che però si incide nella mente del
BOCCACCIO (ce lo dice lui stesso), perché da questa quasi schematica descrizione della peste
BOCCACCIO mutua la modalità, il timbro della narrazione, e ne ripropone in qualche modo
l'ordine degli argomenti e l’ordito della esposizione (gli serve come sinopia, per poi trarre la grande
tela dell’introduzione).
BOCCACCIO parte, come DIACONO, dalla descrizione dei sintomi del contagio, che sono riportati
da entrambi, poi passa alle conseguenze sociali dell’epidemia e quindi alle ripercussioni sulla vita
della popolazione e alla desolazione profonda della città e delle campagne limitrofe; inoltre, parla
anche (e si tratta di un dato che è presente pure in DIACONO) dell'inversione delle abitudini tra
uomini e bestie, perché c’è quasi una ferinizzazione in atto: gli uomini sono arresi allo sfacelo e
divengono parte anche del degrado morale (ed è la cosa che più importa a BOCCACCIO), mentre gli
animali seguitano i ritmi arcaici e primordiali della loro vita (questa immagine colpirà anche
LEOPARDI). Il testo di Paolo DIACONO, dunque, fornisce l’ordito della descrizione fatta da
BOCCACCIO, eppure, rispetto alla tutto sommato breve descrizione della Historia Langobardorum,
il testo di BOCCACCIO si carica di armoniche nuove, di profondità nello sguardo, di una sapienza
letteraria che manca nell’antecedente storico (che, d'altronde, è “solo” una cronaca). Dunque, la
descrizione della peste del ‘48, oltre ai contenuti e all’ordito, ha poco da spartire con la secca
descrizione di DIACONO: BOCCACCIO “mette le ali” a questo testo e lo trasfigura in un pezzo di
alta letteratura.
Dico adunque che giá erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá di Firenze, oltre ad ogni altra italica
nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le
nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni
davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantitá di viventi avendo private,
senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era
ampliata. Ed in quella non valendo alcun senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte
immondizie purgata la cittá da uficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno
infermo e molti consigli dati a conservazione della sanitá, né ancora umili supplicazioni non una
volta ma molte ed in processioni ordinate ed in altre guise a Dio fatte dalle divote persone; quasi nel
principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in
miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva
sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa
a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature , delle quali
alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcune piú ed alcun’altre
meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli». E dalle due parti predette del corpo infra brieve
spazio di tempo cominciò il giá detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello
a nascere ed a venire: ed appresso questo, si cominciò la qualitá della predetta infermitá a permutare
in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo
apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo
primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e cosí erano queste a
ciascuno a cui venivano. [...] E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi
di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose
secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E piú avanti ancora ebbe di male: ché non
solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermitá o cagione di comune morte, ma
ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata pareva
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seco quella cotale infermitá nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è ad udire quello che io
debbo dire, il che se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di
crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degna persona udito l’avessi. Dico che di tanta
efficacia fu la qualitá della pestilenza narrata nell’appiccarsi da uno ad altro, che non solamente
l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa
dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermitá, tócca da uno altro animale fuori della spezie
dell’uomo, non solamente della ’nfermitá il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio
uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte, un dí, cosí
fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermitá morto gittati nella via
publica ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il lor costume, prima molto col grifo e
poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento,
come se veleno avesser preso, ammenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Su questa immagine atroce dei porci che si contorcono e muoiono si chiude la prima parte della
descrizione della peste a Firenze. Per commentarla vediamo, innanzitutto, il trionfo della morte:
abbiamo questa peste nera che giunge dall’Oriente e avviluppa anche Firenze, poi l'occhio del cronista
si fa subito minuto e attento e descrive, come un medico, i referti del male, che sono questi
rigonfiamenti che si creano in alcune zone (inguine, ascelle) e le macchie nere che compaiono su
tutto il corpo. Ma perché BOCCACCIO parte da questi corpi, dall’esibizione secca e asciutta di
quanto il male possa corrodere il corpo umano? Intanto, questa descrizione consegna al lettore il senso
profondo della fatalità del morbo (l’abbiamo sperimentato anche noi, se ci pensiamo bene),
l’inconoscibilità del male e delle modalità di trasmissione della malattia; dunque, BOCCACCIO
orienta il lettore, causando una amplificazione del senso di fatalit&ag