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È
e House sulle richieste. stato domandato a dei soggetti di scrivere cosa avrebbero detto in mandato in varie situazioni:
una di esse, ad esempio, era quella in cui una studentessa trova la cucina in disordine dopo che una sua compagna di casa
l'ha usata, e le chiede di riordinarla, ecc. I soggetti erano australiani, tedeschi, francesi, israeliani e argentini: si voleva
osservarec se e come la realizzazione di un atto linguistico come la richiesta variasse tra culture diverse. Sono emerse
più
differenze interessanti e statisticamente significative. In particolar, gli argentini e gli israeliani usavano molte richieste
dirette degli australiani.
Es: argentini (pulisci la cucina per favore); israeliani ( lava i piatti per favore); australiani (per favore, potresti riordinare il
disordine che hai fatto?).
Sono numerosi gli studi che descrivono lo stile comunicativo del giapponese, caratterizzandolo come meno diretto
rispetto a quello degli anglofoni. In giappone non si sente quasi mai, specialmente tra persone di status diverso, richiedere
è
qualcosa direttamente, attraverso un imperativo; ugualmente molto raro trovare dei rifiuti espliciti, come no o non
voglio.
Le differenze transculturali non si limitano ai modi di realizzazione degli atti linguistici, ma investono anche gli aspetti
è
sequenziali dell'interazione. Negli ultimi anni stato condotto in italia e in gran bretagna un ampio progetto di ricerca che
si propone di indagare i diversi modi in cui i parlanti italiani e inglesi conducono un incontro di servizio in una libreria. Si
è benchè
osservato che, in entrambi i gruppi si compiano gli stessi atti linguistici (richiedere, rispondere, ringraziare,
salutare, ecc), esitono delle variazioni sistematiche e significative negli aspetti sequenziali dell'interazione, per cui certi
atti linguistici vengono prodotti prima di altri in inglese e dopo in italiano, certe pause significative si trovano in diverse
posizioni nelle due lingue, certi atti linguistici che in inghilterra sono prodotti dal commesso sono invece prodotto dal
cliente in italia e viceversa. Secondo Zorzi Calò, molte di queste differenze sono dovute al modo in cui avviene la
sequenza-chiave dell'incontro, quella composta dalle due mosse a) richiesta del libro da parte del cliente e b) risposta del
commesso. In particolare, esiste una differenza fondamentale tra le due culture nel modo in cui viene gestita questa
sequenza nel caso in cui il commesso debba riconoscere che il libro non è disponibile e la richiesta del cliente non può
quindi venire soddisfatta; mentre i commessi italiani rispondono immediatamente 'no', quelli inglesi cercano di mitigare il
no facendolo precedere da esitazioni, borbottii, schiarimenti di gola.
Tannen ha osservato differenze anche tra parlanti la stessa lingua, ma con diversi background culturali. -> i parlanti
più
dell'inglese britannici e californiani tendono a lasciare spazio tra un turno e l'altro rispetto ai newyorkesi, i quali
invece fanno partire il proprio contributo immediatamente dopo la fine del turno precedente se non addirittura in parziale
più
sovrapposizione con le ultime sillabe. -> Tannen chiama questo stile "mitragliatore" e nota che, in una cena con
è
invitati, i mitragliatori hanno il sopravvento sugli altri. Ma, si noti, per loro mitragliare parole non un segno di
aggressività o prepotenza, ma al contrario rappresenta un alto livello di partecipazione e coinvolgimento nella
"più
conversazione. Solo che questo aspetto viene compreso e apprezzato da altri mitragliatori, mentre i parlanti lenti" si
sentiranno semplicemente sopraffatti. -> le interazioni tra mitragliatori e mitragliati ci portano a parlare degli incidenti, o
scontri, che possono accadere quando diversi stili comunicativi vengono a contatto: si tratta del campo della pragmatica
interculturale.
Incontri interculturali
È facile immaginare come possano facilmente verificarsi dei problemi applicando le regole di una lingua-cultura mentre
passerà
si conversa con membri di un'altra. Un americano in giappone molto probabilmente per un maleducato quando
risponderà seccamente e francamente "no" a una proposta. Abbiamo qui a che fare con forme di transfer pragmatico: le
è
abitudini della propria lingua vengono trasferite alla L2, senza rendersi conto che non sempre sono appropriate. Si soliti
distinguere tra transfer sociopragmatico (riguarda la percezione del contesto extralinguistico; ad esempio stabile se un
rapporto tra studente e professore debba essere molto o poco formale, oppure se una particolare situazione richieda delle
scuse oppure no) e pragmatico (ha a che fare con i mezzi linguistici utilizzati per costruire i rapporti sociali, come le è
formule indirette, le espressioni mitiganti, le routine di cortesia) -> un esempio di tipo di transfer pragmalinguistico
quello dei giapponesi che per ringraziare dicono "mi dispiace", trasferendo la formula fissa giapponese sumimasen che
più
significa appunto 'mi dispiace' ma che viene normalmente usata come ringraziamento verso persone di status elevato;
lo stesso fanno gli italiani che rispondono please (in analogia con prego) a un inglese che gli ha detto thank you.
Il transfer pragmatico si verifica a tutti i livelli di apprendimento, anche in individui che hanno una padronanza quasi
è
completa della L2. Come notano Scollon e Scollon: il problema principale nella comunicazione interetnica non causato
è difficoltà
dalla grammatica, ma il sistema del discorso che produce le maggiori . I fraintendimenti sono causati dal modo
in cui le idee sono collegate in un ragionamento, dal modo in cui sono messe in evidenza, o dal modo in cui si trasmettono
informazioni di tipo emotivo sulle idee stesse. Il sistema grammaticale fornisce il messaggio mentre il sistema del
discorso ci dice come interpretarlo. La causa principale dei problemi interetnici non sta nella comprensione di cosa uno
perché perché
sta dicendo, ma del lo sta dicendo. Queste informazioni sul le persone parlano non sono segnalate allo
così
stesso modo in tutti i gruppi etnici, che possono sorgere fraintendimenti anche quando i sistemi grammaticali sono
pressochè identici. -> Scollon e Scollon mostrano come queste sottili differenze a livello di organizzazione del discorso
producano non solo dei fraintendimenti, ma portano alla formazione di veri e propri stereotipi negativi. Dopo aver visto
questi esempi di interferenza negativa tra la pragmatica della L1 e dalla L2, proviamo a esaminare alcuni casi di transfer
positivo. In italiano un modo di mitigare le richieste consiste nell'usare forme interrogative, eventualmente condizionali,
relative a espressioni di abilità, piuttosto che imperativi diretti: si dice cioè "puoi/potresti prestarmi 50€?" e non "prestami
50€". Questa strategia risulta perfettamente trasferibile in inglese (e in molte altre lingue europee), dove si dice "can/could
you lend me 50 dollars?" e non "lend me 50 dollars". Il transfer pragmatico positivo porta a interrogarsi sull'esistenza di
eventuali universali pragmatici: esistono cioè strategie trasferibili in tutte le lingue umane? Come accade ogni volta in cui
si parla di universali, la risposta non può che essere che cauta: Kasper e Schmidt, tuttavia, avanzano in merito le seguenti
proposte. Innanzitutto, pare che in tutte le comunità umane esistano mezzi per realizzare in modo indiretto gli atti
linguistici; universale è pure il fatto che forme linguistiche sono associate a particolari variabili situazionali; universale è
infine l'esistenza di formule fisse per realizzare certe azioni pragmatiche. Pare inoltre che certe macro-categorie di atti
linguistici siano rappresentate in tutti i popoli della terra, anche perché sarebbe difficile immaginare una forma di
comunicazione umana che ne facesse a meno: per usare la tassonomia di Searle, si potrebbero considerare universali le
categorie degli atti rappresentativi (descrizioni, asserzioni), direttivi (richieste, comandi), commissivi (promesse, offerte),
espressivi (scuse, felicitazioni), dichiarativi (atti linguistici che fanno 'esistere' delle realtà, come sposare, dichiarare
guerra, eleggere). Ammesso che certi fenomeni pragmatici siano universali, ciò non significa che siano universali i modi
in cui essi vengono realizzati. Per riprendere il nostro esempio, non si può affermare che in tutte le culture le richieste
vengono mitigate come dichiarazioni di abilità: in italiano, in inglese e in molte altre lingue invece di dire "dammi le
cassette" si dirà "puoi darmi le cassette?"; questa strategia, però, non viene impiegata dai parlanti polacchi. Date queste
difficoltà, Kasper e Schmidt propongono di considerare universali le diverse modalità di realizzazione delle richieste in
senso generale, cioè il modo diretto (apra la finestra), quello non convenzionalmente indiretto (puoi aprire la finestra?) e
quello non convenzionalmente indiretto (che caldo che fa qui dentro), anche se i mezzi linguistici per realizzare ciascuna
di queste modalità possono variare tra culture. Aston propone di integrare questa prospettiva che spiega la comunicazione
interculturale solo in termini di deficit, errori, con un approccio che enfatizzi invece i modi in cui i parlanti non nativi
riescono, nonostante le loro limitate risorse linguistiche, a stabilire un senso di solidarietà, di condivisione, con i parlanti
nativi. Tra queste strategie si possono includere le ammissioni di incompetenza, che inducono spesso un atteggiamento di
benevolenza nell'interlocutore; l'ironia sugli stereotipi relativi agli stranieri; il porsi come un individuo e non come il
rappresentante di una certa cultura fissa. -> Aston nota che per raggiungere questo obiettivo, non è necessario sviluppare
una competenza pragmatica identica a quella dei nativi; anzi, c'è chi si chiede se ciò sia desiderabile. Il livello pragmatico
del linguaggio è infatti quello che ha più a che fare con nozioni quali l'identità, la personalità, i rapporti sociali: molti
apprendenti potrebbero non desiderare di 'cambiare volto' quando parlano alla L2, ma ne seguono così scrupolosamente le
norme pragmatiche da atteggiarsi come i nativi. A livello di pragmatica, dunque, il modello per un apprendente avanzato
non sarebbe il parlante nativo (quale non potrà mai diventare, per definizione), ma un parlante bilingue fluente.
Fattori esterni: input, interazione, socializzazione
Introduzione è
perché
Due sono i macro-fattori indispensabili si possa parlare di acquisizione della seconda lingua. Da un lato,
è
cioè
necessario un essere umano, una creatura con determinate caratteristiche. Dall'altro, necessario un determinato
potrà
ambiente: un essere umano che non senta mai parlare cinese e non incontri mai quella lingua non acquisirla. Tutto
è
questo molto banale, ma ci pe