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ENRICO IV O L’APOLOGO DELLA FOLLIA
= Senso allegorico e morale della follia.
Nell’Enrico IV Pirandello affronta un tema particolarmente importante nel XX secolo, la follia. Questa non
rappresenta, però, una condizione di minorità, come purtroppo spesso avviene per i personaggi dei suoi racconti,
ma anzi di superiorità intellettuale! È il finale della tragedia, con il tentato omicidio del rivale Belcredi da parte del
finto sovrano, racchiude la visione umoristica di Pirandello: non sono i pazzi ad occupare il terreno della follia, ma
i presunti “sani”. Il carattere distintivo della follia è l’accecamento, ma questo cambia valore a secondo di chi lo
giudica.
Tra Seicento e Settecento furono costruiti in Francia diversi ospedali in cui rinchiudere i considerati folli, ma solo
quando questi crebbero di numero furono formate delle nuove figure specializzate, gli odierni psichiatri. Contro
di loro si espresse un drammaturgo francese, Artaud, il quale sosteneva che non sono i folli a dover essere curati,
ma al contrario sono i medici incapaci di capire la follia (il suicidio di Van Gogh lo spinse all’analisi). Lo sguardo di
Van Gogh, secondo lui, così come quello di Nietzsche (alla fine entrambi chiusi in manicomio e considerati pazzi)
era così penetrante da spogliare l’anima, mettere a nudo l’uomo oltre il suo spirito, più di quanto potrebbe mai
fare qualsiasi altro psichiatra. Pirandello, dal canto suo, ha fronteggiato la follia in prima persona in maniera
inaspettata. Gli è successo di tutto, dal crollo economico, a quello nervoso della moglie, ai diversi lutti che si sono
susseguiti nella sua vita. Alcuni giornalisti gli hanno chiesto se effettivamente la condizione della moglie – Nietta -
possa aver influito in qualche modo sulla rappresentazione dei suoi personaggi. Lui ha risposto che
probabilmente ha contribuito a sviluppare il suo avvertimento del contrario, ma ciò non ha niente di logico,
perché <<il pazzo costruisce senza logica>> così come la vita stessa è di per sé illogica. Per questo motivo qua,
Pirandello crede che i pazzi siano quelli più vicini alla vita di chiunque altro. La figura del ‘pazzo’, in realtà, è insita
in ognuno di noi, basta allentare di pochissimo le catene della coscienza. Il problema di Nietta, però, è che non
era malinconica, era maniaca, a tratti violenta e comunque super fragile; quindi, dinnanzi a questa situazione
l’unica strada possibile rimane l’internamento.
Il rifugio privilegiato dell’autore dai drammi della vita, quindi, diventa l’arte. C’è da dire che l’accecamento
pirandelliano, però, non tocca né la gelosia né l’isterismo, anzi il tutto spinge i personaggi a vivere la propria vita
al massimo grado d’intensità. Certo, l’accecamento di Nietta era di tipo negativo, che la portò a chiudersi dentro
di sé con le proprie convinzioni e questo le bastava. Però la cosa importante da tenere a mente è che Pirandello
non utilizza mai la parola pazzia o follia, preferisce scrivere MALATTIA, perché è di quello che si tratta. Di
conseguenza, dice, è la malattia a dover essere curata, non la follia. Anzi, lui desiderava pure d’esser folle, perché
è la follia che ci può dare tutto ciò che la sorte ci ha negato.
L’accecamento della follia, invece, è positivo, perché consente di protrarre il sogno anche da svegli. In realtà il
rapporto tra pazzo e sognatore è molto importante perché chiama in gioco i principi di Freud nella sua
Interpretazione dei Sogni. Persino secondo Kant “il pazzo è un sognatore da sveglio”, mentre secondo
Schopenhauer il sogno è una breve follia visto che la follia funge da lungo sogno.
La follia è un sogno dove tutto, ogni desiderio, è possibile. I folli hanno smesso di rispondere ai richiami d’ordine
della società, perché la vita è un sogno ad occhi aperti in cui qualunque verità viene compresa, accettata, vissuta.
A questo proposito i termini follia e saggezza vengono istantaneamente associati, come già fatto da Nietzsche
qualche tempo prima nella Gaia Scienza, non a caso la profezia della morte di Dio viene affidata a un folle, perché
soltanto i folli possono rivelare verità scomode, solo i folli sono capaci di mettere in crisi la visione comune della
società umana, perché nessun altro ne avrebbe la forza o il coraggio. I ‘pazzi’ vivono in un mondo in cui passioni e
desideri non hanno limiti.
Nell’Enrico IV, in effetti, il tema della pazzia è osservata con una profondità d’indagine straordinaria. Il dottor
Dionisio Genoni, comprensibilmente, si mostra molto entusiasta di poter analizzare tale psicologia. Tuttavia, lui,
essendo un medico comune, riesce a dare come unica spiegazione soltanto uno schema prestabilito: Enrico IV è
soltanto un comune pazzo perché sottratto alla logica universalmente condivisa. Tale analisi è chiaramente
→
parziale, erronea, inadeguata crepe insanabili della scienza psichiatrica. Alla spiegazione del dr. Genoni si
contrappone la spiegazione del fasullo re. Lui dice che trovarsi davanti a un pazzo significa trovarsi davanti a
qualcuno capace di sradicare in due secondi fondamenta costruite dopo anni di sforzo e logica, perché i folli non
hanno mica bisogno di logica per costruire le cose. Il folle è come il bambino, capace di rendere reali anche i più
inverosimili fenomeni con il solo utilizzo della magica fantasia (Pascoli). <<Enrico IV è un Dorian Gray che non
accetta, però, di tenere il ritratto in soffitta, ma che lo tiene anzi in un luogo dove tutti, lui compreso, possono
vederlo>>. Perché le maschere possono sì oscurare i volti, ma non possono oscurare i meccanismi mentali che ne
guidano le azioni. È per questo che l’alienazione da sé, richiesta comunque ad ogni attore per incarnarsi
totalmente nel proprio personaggio, alla fine non riesce mai a compiersi.
L’azione di tingersi i capelli, ad esempio, vorrebbe dire ingannare la propria immagine, fissare un’idea di sé che è
puramente artificiale. E ancora una volta un folle lo farebbe semplicemente per burla, una persona qualunque lo
farebbe con serietà. Alla fine, Non vive chi si dà una forma universale da seguire, ma chi supera qualsiasi gabbia,
anche quelle dell’io e del tempo. Enrico IV non è pazzo, la sua ‘follia’ è il suo rifugio, un’evasione dell’oppressione
della logica comune, così come rappresenta liberazione anche per Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e
centomila.
Al tempo stesso, Enrico IV è il ‘sequestrato per eccellenza’, escluso dalla società per la sua pazzia e rinchiuso nella
sua prigione mentale. Dopo 12 anni in quella ‘gabbia’, che altro non è che un’alienazione volontaria, riapre gli
occhi, ma riscoprendo una vita perde automaticamente l’altra, e questo gli alimenta una furia irrefrenabile che
sfocia poi in vendetta. Nell’universo pirandelliano, d’altronde, così come in quello di Svevo, i concetti di ‘pazzo’ e
‘sano, di ‘ragione’ e ‘follia’ sono in realtà invertiti. Non è un caso che una volta “risvegliato”, non per sua volontà,
Enrico NON è anche accompagnato da una “resurrezione della ragione”, perché la ragione non dimora nella
logica comune o nella sottomissione alla solita regola dell’apparire. Enrico aveva semplicemente costruito quel
mondo, visto dagli altri come folle, per non rispondere a un torto subito, ovvero il furto della donna amata,
Donna Matilda, ad opera di Belcredi. Quindi la “follia” celava semplicemente un insospettabile intento di pace,
che sarebbe venuto a mancare con l’aggiunta della violenza se egli avesse continuare a sottostare alle vesti della
modernità.
Nell’epilogo della storia viene fatto l’esempio della vicenda di un prete irlandese che, in un giorno di novembre, si
rilassa sotto il sole e sogna sorridente. Poco dopo, però, si desta e ritorna serio, rigido e nascosto dalla maschera
ecclesiastica. Cioè, nella momentanea follia del sogno aveva gli occhi ridenti e il riso beato, ma una volta desto
smarrisce tutto. Possiamo ricavarne, dunque, che il vero sano è chi è consapevole della propria pazzia, chi sa
riconoscerla e chi sa comprenderla. L’apologo rende il significato generale immediatamente riscontrabile nel
caso particolare. Dunque, particolare e generale si riflettono l’uno sull’altro. In una lettera Pirandello scrive
<<tutti, dormendo, siamo folli>>. Tuttavia, a differenza di quanto accade in Uno, nessuno e centomila, nessuna
fuga è possibile, non ci si può continuare a rifugiare nella follia per sempre = tragedia. Destandosi, o non
addormentarsi proprio, si finisce per vendicarsi, e questo è considerato atto estremo di pazzia quando invece è
modo convenzionale di agire nell’ottica comune. Dunque, è chiaro che se l’adesione alla logica collettiva conduce
all’omicidio qualcosa non va, e non nel singolo individuo ma nella società nel suo complesso. La vera pazzia non
risiede nell’azione dell’uomo ma di chi lo obbliga effettivamente a vendicarsi.
L’individuo stava cercando, anzi, di isolarsi – nel caso di Enrico IV indossando vesti medievali, quindi è normale
che lui scelga di essere etichettato per sempre come folle e lasciato nel suo mondo onirico dove trovare la sua
propria pace. Tutto questo è possibile, però, solo comprendendo al tempo stesso anche le categorie mentali
degli uomini ‘sani’, in modo da accettare comunque la realtà in cui inevitabilmente si trova. Non è un caso, infatti,
che il dramma si chiude con l’esclamazione reiterata di Belcredi <<non sei pazzo! Non è pazzo!>> prima della
probabile morte della vittima (topos abbastanza comune nelle sue opere e nella drammaturgia in generale,
Goldoni compreso).
Belcredi rappresenta un po’ il gemello di Enrico IV che vive però dall’altra parte – tema del doppio. È la parte del
suo sé che ha scelto di accettare le regole sociali e di fare propria la logica comune. Persino Pascal, qualche
tempo prima – che Pirandello apprezzava particolarmente – sosteneva che gli uomini sono così pazzi che il non
esser pazzo è già di per sé una pazzia!
L’IDEA DELL’ETICA DI PIRANDELLO NELLA RAPP. DELL’ENRICO IV
La situazione del teatro italiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vede contrapposti artisti che
concepiscono l’arte come imitazione di opere già