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Estratto del documento

Per tre notti tempestose noto violento mi trascinò sull’acqua per gli immensi mari; a stento il quarto

giorno scorsi l’Italia in alto dalla cima di un’onda. A poco a poco nuotavo verso terra; già la tenevo

sicura se una gente crudele ed ignara non mi avesse assalito con le armi, appesantito dalla veste

inzuppata e mentre afferravo con le mani ricurve le aspre sporgenze del monte, e mi avesse reputato

una preda. Ora mi ha l’onda e i venti mi trasportano verso la spiaggia. Per cui ti prego per il lume

giocondo del cielo e per le brezze, per il padre, per la speranza di Iulio che cresce, strappami, o

invincibile, da questi mali: o tu gettami sopra la terra (e infatti puoi) e cerca il porto di Velia; o tu, se

vi è una qualche via, se qualcuna te ne mostra la dea creatrice (infatti non credo che senza il volere

degli dèi ti accingi a navigare il grande fiume e la palude Stigia), porgi la destra a un infelice e

prendimi con te sulle onde, affinché almeno in morte io riposi in tranquilla dimora”. Aveva detto tali

cose, quando la veggente/sacerdotessa cominciò così: “O Palinuro, da dove (ti viene) questo desiderio

tanto empio? Insepolto vedrai le onde Stigie ed il fiume severo delle Eumenidi, e senza comando

approderai alla riva? Smetti di sperare che le sorti degli dèi si pieghino pregando. Ma afferra memore

le parole (le cose dette), consolazione della dura sorte; infatti le popolazioni vicine, spinte in lungo e

largo attraverso le città da prodigi celesti, raccoglieranno le tue ossa ed innalzeranno un tumulto, e al

tumulo manderanno solenni offerte e il luogo avrà in eterno il nome di Palinuro.” Con queste parole

allontanato l’affanno e scacciato per un poco il dolore dal cuore triste; si rallegra dell’omonima (con

lo stesso nome) terra. Dunque proseguono il cammino intrapreso e si avvicinano al fiume. Quando il

nocchiero/marinaio fin dall’onda Stigia li scorse

[vv.386-425] andare attraverso il tacito bosco e rivolgere il passo verso la riva, per primo li assale a

parole e senz’altro li rimprovera: “Chiunque tu sia, che ti dirigi armato verso i nostri fiumi, forza dì

perché vieni, già da lì e ferma il passo. Questo è il luogo delle Ombre, del Sonno e della soporifera

Notte; la nave Stigia non può trasportare corpi vivi. Né in verità sono lieto di aver accolto sul lago

l’Alcide al suo venire né Teseo e Piritoo, sebbene fossero nati da dèi e fossero invincibili per la ( loro)

forza. Quello trascinò con forza in catene il guardiano del Tartaro dal trono stesso del re e lo portò via

tremante; questi tentarono di condurre via dal talamo la sposa di Dite”. Di contro a queste cose la

veggente Amfrisia replicò brevemente: “Qui nessuna tale insidia (cessa di adirarti), né le armi portano

violenza; l’immane guardiano nell’antro spaventa pure le ombre esangui latrando in eterno, la casta

Proserpina custodisca pure la casa dello zio paterno. Il troiano Enea, insigne per la devozione e le

armi, discende al padre verso le infime ombre dell’Erebo; se l'immagine di un così grande affetto non

ti muove, riconosci almeno questo ramo”. (rivela il ramo, che stava nascosto nella veste). Allora si

placa il cuore gonfio per l’ira, né più di questo (disse). Quello ammirando il venerabile dono del

ramoscello fatale, visto dopo lungo dopo, volge la cerulea poppa e si avvicina alla riva. Quindi scaccia

le altre anime, che stavano sedute sui lunghi banchi, e libera i sedili; insieme accoglie nello scafo il

grande Enea. Gemette sotto il peso la barchetta intrecciata e piena di fessure ricevette molta acqua.

Infine depose incolume al di là del fiume sia la veggente che l’eroe sull’informe fanghiglia e sulla

verdastra erba palustre. L’enorme Cerbero fa risuonare questi regni con un trifauce latrato, stando

sdraiato, enorme, davanti all’antro. A lui la veggente, vedendo già il collo ergersi di serpenti, getta

davanti una focaccia soporifera dal miele e da frutti avvelenati (non ne sono sicura); quello con fame

rabbiosa spalancando le tre gole afferra l’offerta e distende il dorso immenso, riversato verso terra ed

enorme si estende in tutta la grotta. Enea occupa l’ingresso, addormentatosi il guardiano, e lascia

velocemente la riva dell’onda da cui non si può far ritorno.

[vv.426-464] Subito udite voci e alti vagiti ed anime di bambini che piangono (piangenti) proprio

sulla soglia, che privati della dolce vita e strappati dal seno (materno) un tetro giorno portò via ed

sommerse in una precoce morte. Vicino a questi i condannati a morte con una falsa (ingiusta) accusa.

(Né in verità queste sedi sono date senza sorte/sorteggio, senza un giudice: il giudice Minosse muove

l’urna, quello convoca il concilio dei silenziosi (un’assemblea di silenziosi) e apprende le vite e le

colpe.) Poi occupano i tristi luoghi vicini, coloro che innocenti si procurarono la morte di propria

mano e avendo odiato la luce gettarono via le anime (la vita). Quanto vorrebbero adesso sotto l’alto

cielo sopportare la povertà e le dure fatiche! Si oppone il destino e la tenebrosa palude dall’onda

sgradevole li rinchiude e lo Stige scorrendo li circonda nove volte. E non lontano da lì si mostrano i

campi del Pianto estesi in ogni direzione: lo chiamano con questo nome. Qui segreti sentieri celano

coloro che un amore crudele consumò con struggimento crudele e intorno li protegge una selva di

mirto; neanche nella morte stessa gli affanni li abbandonano. In questi luoghi vede Fedra e Procri e la

mesta Erifile che mostra le ferite del figlio crudele, ed Evadne e Pasifae; con queste va come

compagna Laodamia e Ceneo, ragazzo un tempo, adesso donna, ritornata per sorte al vecchio aspetto.

Tra di esse, fresca della ferita, la fenicia Didone errava nella vasta selva. Appena l’eroe troiano si

fermò vicino a lei e la riconobbe indistinta attraverso le ombre, come chi all’inizio del mese o vede o

pensa di aver visto sorgere la luna tra le nubi, gli sgorgarono le lacrime e parlò con dolce amore: “O

infelice Didone, mi era giunta dunque vera la notizia che ti eri uccisa e avevi cercato la fine con il

ferro? Ahimè, sono stato io la causa della tua morte? Giuro per le stelle, per i celesti e se c’è la terra

profonda una qualche lealtà, controvoglia, o regina, mi allontanai dalla tua spiaggia. Ma gli ordini

degli dèi, che ora mi costringono ad andare attraverso queste ombre, attraverso luoghi orridi per lo

squallore e la notte profonda, mi spinse con i suoi comandi; non potei credere di darti con la mia

partenza questo così grande dolore.

[vv.465-505] Ferma il passo e non sottrarti al nostro/mio sguardo. Chi fuggi? Per destino, questa è

l’ultima volta che ti parlo”. Con tali parole Enea leniva quell’animo ardente e che torvo guardava,

scoppiava in lacrime. Quella, voltata, teneva gli occhi fissi al suolo, e non si commuove in volto,

intrapreso il discorso, più che se ferma stesse una dura selce o una roccia Marpesia. Alla fine si

sottrasse e ostile si rifugiò nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo corrisponde al suo affanno

e ne uguaglia l’amore. Non meno Enea, turbato dall’ingiusta sventura, la segue a lungo in lacrime e la

compiange fuggente (mentre se ne va). Quindi riprende il cammino dato. E ormai

percorrevano/tenevano gli ultimi campi, appartati che i gloriosi popolano in guerra. Qui gli viene

incontro Tideo, qui l’illustre alle armi Partenopeo e l’immagine / il fantasma del pallido Adrasto, qui i

Dardanidi caduti in guerra e molto pianti al di sopra (sulla terra), quello vedendoli tutti in lunga

schiera gemette, Glauco e Medonte e Tersiloco, i tre (figli) di Antenore, e Polibete sacro a Cerere ed

Ideo che ancora il carro, ancora le armi teneva. Gli stanno intorno le anime affollate a destra e a

sinistra; non è abbastanza vederlo una volta sola; piace indugiare ancora, e accompagnare il passo e

apprendere le cause dell’arrivo. Ma i capi dei Danai e le schiere di Agamennone come l’eroe e le armi

splendenti tra le ombre tremarono per la grande paura: parte volsero la spalle, come diressero un

tempo verso le navi: parte alzarono grida fioche, il grido iniziato si spegne nelle bocche aperte. E qui

vide Deifobo, figlio di Priamo, dilaniato in tutto il corpo, crudelmente deturpato in viso, nel viso e in

entrambe le mani e devastate le tempie, strappate le orecchie e mozzate le narici da deturpante ferita.

Dunque lo riconobbe a stento mentre tremava e copriva le orrende ferite e per primo lo chiama con la

nota voce (le note parole): “Deifobo possente nelle armi, stirpe dell’alto sangue di Teucro, chi ha

scelto di vendicarsi con una ferita così tanto crudele? A chi tanto fu permesso contro di te? Nell’ultima

notte mi giunse la fama/notizia che tu, stanco per l’immensa strage dei Pelasgi (dei Greci) eri caduto

sopra un mucchio di confusa carneficina. Allora ho alzato un vuoto tumulo sul lido Reteo

[vv.506-546] e a gran voce ho invocato i Mani per tre volte. Il nome e le armi custodiscono il luogo.

Non ho potuto, o amico, ritrovarti e partendo seppellirti nella terra patria”. A ciò il figlio di Priamo (il

Priamide): “Non hai tralasciato niente amico; tutto hai assolto a Deifobo e all’ombra del morto. Ma il

mio destino e il delitto funesto della Spartana mi sommersero in questa sventura; ella mi ha lasciato

questi ricordi. Infatti come abbiamo trascorso l’ultima notte in mezzo ad una falsa gioia, tu lo sai; ed è

necessario ricordarlo purtroppo. Quando il fatale cavallo con un salto venne sulla alta Pergamo, e

gravido portò nel ventre fanti armati, ella simulando una danza conduceva intorno le Frigie (le donne

frigie) che celebravano al grido di “Evan” i riti di Bacco (le orge); essa stessa, nel mezzo, teneva una

grande fiaccola e dalla sommità della rocca chiamava i Danai. Allora, sfinito dalle preoccupazioni e

appesantito dal sonno, quel funesto letto nuziale (quel talamo funesto) e una dolce e profonda quiete

incombeva su me sdraiato simile ad una placida morte. Nel frattempo la nobile sposa rimuove dalla

casa tutte le armi e aveva sottratto da sotto la testa la fidata spada; chiama dentro la dimora Menelao e

spalanca le porte, evidentemente sperando che ciò sarebbe stato un gran dono per l’amante e si

potesse così cancellare la fama delle antiche colpe. Perché indugio? Irrompono nella mia stanza da

letto, si unisce come compagno l’Eolide esortatore di delitti. O dèi, rinnovate ai greci tali cose, se

domando con pia bocca il castigo. Ma suvvia dì a tua volta quali vicende ti hanno portato qui da vivo.

Vieni forse spinto dal vagare sul mare o per ordine degli dèi? o quale destino ti spinge a venire nelle

tristi dimore senza sole, luoghi tenebrosi?” Con questo scambio di parole già l&rsq

Dettagli
A.A. 2024-2025
12 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/04 Lingua e letteratura latina

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Maribattaglia9940 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Lingua e letteratura latina i e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Palermo o del prof Marchese Rosa Rita.