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L’inserimento delle esternalità nella funzione di produzione implica il calcolo monetario del costo esterno e
la scelta dello strumento di internalizzazione, tra quelli fiscali come le tasse, i sussidi e i permessi negoziabili,
o tra quelli non fiscali come gli standard. Dato che l’esternalità si aggiunge al costo della collettività, causa
una diminuzione dell’offerta rappresentando un fallimento del mercato da un punto di vista prettamente
economico. Ma il danno sociale dell’inquinamento è molto elevato, ed evitarlo o contenerlo permette di
trarre benefici concreti. Appare ovvio che non è possibile azzerare l’inquinamento, in quanto significherebbe
non produrre affatto, quindi occorre trovare un ottimo sociale che corrisponde ad una quantità di produzione
Q* ed inquinamento accettabili. La retta MD rappresenta il danno sociale, che
va a sommarsi alla retta dei costi economici di
produzione MPC, intersecando la domanda
MB. Internalizzare il danno sociale
dell’inquinamento significa diminuire la
produzione a fronte di un risparmio collettivo:
infatti, si verifica un risparmio collettivo pari al
trapezio abfe. Il produttore però subisce una
sottrazione al profitto pari a dgc.
Ciononostante, la differenza tra guadagni
collettivi e perdite dei produttori (abfe – dcg)
restituisce un valore positivo pari al triangolo
dhg. La società ha di fatto giovato
dall’internalizzazione.
Le imposte pigouviane ricadono sui beni e servizi
maggiormente inquinanti. In termini tecnici, è l’imposta
unitaria pari al danno marginale inflitto in
corrispondenza di Q*, appare nel grafico come la
traslazione verso l’alto della curva del costo marginale
privato MPC. La conseguenza è un aumento dei costi
marginali di produzione, che ora includono anche
l’inquinamento prodotto, a cui segue una diminuzione
delle quantità prodotte (esattamente come prima).
L’ideale è che tali imposte siano utili al miglioramento
dell’efficienza in termini di prestazioni ambientali, dato
che ciò causerebbe un ribasso del costo dell’esternalità
e di conseguenza una diminuzione della tassa stessa.
Le tasse possono essere applicate anche al consumo, causando una traslazione della curva di domanda verso
il basso in quanto il potere d’acquisto del consumatore diminuisce inevitabilmente. Le implicazioni sono che
i beni e servizi maggiormente inquinanti vengono acquistati in quantità minori essendo più costosi. In ogni
caso si applichi una tassa, sia al produttore che al consumatore, si definisce cuneo fiscale lo sfasamento tra
la nuova curva traslata e l’altra curva inalterata. Il cuneo fiscale è il medesimo sia per tasse al produttore che
per tasse al consumatore, dato che la traslazione avviene sempre per la stessa quantità (pari al danno unitario
ambientale). Gli scambi dunque avvengono solo per quantità inferiori a Q*, in quanto solo in queste
condizioni il surplus del consumatore è maggiore della tassa; viceversa, per Q>Q* il surplus è inferiore alla
tassa. Le imposte pigouviane sono accise, ossia imposte indirette applicate alla produzione o al consumo; le
imposte dirette sono applicate al reddito o ai possedimenti di un soggetto. Inoltre si distinguono perché
interessano solo specifiche categorie di prodotti e gravano sulla quantità invece che sul prezzo. Vi sono dei
limiti per questa tassazione: occorre definire il prezzo del danno marginale ambientale; la tassazione impone
che siano noti sia il soggetto che compie esternalità sia la misura di quest’ ultima; si potrebbe avere
asimmetria informativa sulla tecnologia, quando rimane appannaggio di pochi; si deve considerare e
controllare come viene gestito il gettito fiscale derivato dalla tassa, si deve assicurare che venga utilizzato per
produrre reali benefici alla comunità e all’imprenditore che subisce la tassa.
I sussidi hanno una funzione speculare a quella delle tasse
pigouviane: la diminuzione della produzione in y* viene
ricompensata di una somma pari al danno marginale che
corrisponde alla y’ di mercato. Il danno sociale evitato
viene direttamente corrisposto al produttore. Nel lungo
periodo si può avere un effetto perverso: i sussidi possono
attrarre molti produttori in questi mercati altamente
inquinanti, si otterrebbe un risultato opposto a quello
desiderato.
Il terzo tipo di fallimento di mercato dopo il monopolio e l’esternalità è quello del bene pubblico, qualsiasi
bene che sia: non rivale, ossia il quale consumo da parte di un individuo non pregiudica il consumo di altri.
Significa che il costo marginale per la fornitura del bene a un consumatore addizionale è nullo; non
escludibile, per cui non è possibile ripartire i costi di produzione tra i soggetti dato che non si può escludere
dal consumo nessun individuo (ciò sussiste per beni come l’aria che respiriamo); non frazionabile o divisibile.
Si considerano beni pubblici puri l’aria, la difesa nazionale, la conoscenza e la ricerca di base, le strade non a
pagamento e l’illuminazione pubblica. Si definiscono risorse comuni quei beni soggetti a rivalità ma non ad
escludibilità: pesci nell’oceano, libri in biblioteca, parcheggi liberi. Infine, i beni soggetti ad escludibilità ma
non a rivalità sono detti pubblici locali o club goods: l’autostrada, la tv via cavo.
L’assenza di rivalità permette il consumo da parte di tutti, e ciò ha importanti implicazioni. Ad esempio,
poniamo che in una città abitino un numero fisso di persone che godono (consumano) dell’illuminazione
pubblica; ad un tratto un numero altissimo di stranieri passa per la città, ed anch’essi godono di tale bene
pubblico. Se fosse stato un bene privato per cui ogni persona possiede un lampione e lo usa solo per sé, gli
stranieri avrebbero dovuto comprare un nuovo lampione ciascuno incrementando enormemente il consumo.
Ma il bene è pubblico, quindi anche con un numero molto più elevato di persone il consumo rimane sempre
lo stesso, non si acquistano nuovi lampioni. In termini economici significa che un bene pubblico sarà
consumato sempre in maniera inferiore rispetto ad un bene privato, e questo implica un fallimento di
mercato. Accanto al problema del sottoconsumo si verifica anche una carenza di offerta del bene pubblico:
l’impossibilità di escludere qualcuno dal consumo si traduce nell’impossibilità di fissare un prezzo e trarre
profitto, così la produzione non è affatto incentivata. È necessario trovare dei metodi alternativi per la
fornitura dei beni pubblici, che esulino dalle normali dinamiche di mercato palesemente inadatte in questo
contesto. Generalmente è lo stato che provvede alla gestione del bene pubblico, ma dei problemi di fondo
permangono ugualmente data la difficoltà nel costruire un mercato efficiente. É necessario trovare sia la
quantità di produzione ottimale che il finanziamento adeguato a produrla in condizioni di efficienza, ossia
quando il prezzo del bene è pari al costo marginale. La prima è la quantità che massimizza l’utilità di tutti
senza scalfire quella di nessuno, in base al concetto di efficienza statica. Il finanziamento deve arrivare
direttamente dai consumatori. Quindi, la costruzione delle curve di domanda e offerta per un bene pubblico
avviene nel seguente modo:
- Per una stimata quantità di bene uguale per tutti, viene rilevata la disponibilità a pagare di ogni
consumatore. Ognuno proporrà un prezzo diverso per tale quantità in base al proprio reddito e all’utilità
marginale percepita dall’uso del bene. Ne risultano tante curve di domanda individuali con prezzi
(corrispondenti alle DAP) diversi per la medesima quantità.
- La somma di queste curve rispetto al prezzo (somma verticale) è:
- Dato che le Q sono uguali si ottiene: . Ponendo che il costo marginale sia pari a
- sostituendolo nella domanda al posto di prezzo si ha che e
Si ottiene così la quantità ottimale totale di bene pubblico da produrre ed il rispettivo finanziamento (prezzo
totale) necessario a produrre in condizioni di efficienza. Insomma, si è costruita la curva di domanda e si è
confrontata con i costi trovando il punto di mercato. L’ultimo passo è la distribuzione dell’onere monetario,
ossia il prezzo totale, tra i consumatori. Se ognuno dovesse pagare la stessa cifra, allora i soggetti con utilità
marginale più bassa rinuncerebbero immediatamente al bene pur di non pagare, si verificherebbe un
sottoconsumo ed un aumento relativo del prezzo per gli altri soggetti. Se invece ognuno pagasse un
ammontare pari alla propria disponibilità a pagare allora si raggiungerebbe una condizione ottimale (secondo
il cosiddetto equilibrio di Lindahl), ma: la libertà di decisione sulla somma da pagare porterebbe ad una
rivelazione fasulla o non accurata delle DAP, ognuno preferirebbe scaricare il costo della produzione sulla
collettività determinando il fenomeno del free riding, ossia un livello di produzione subottimale.
I permessi negoziabili sono essenzialmente permessi per inquinare, si tratta di uno strumento di
internalizzazione diverso da tasse o sussidi. Si presuma noto il livello di inquinamento socialmente accettabile
derivante dalla produzione, e la presenza di due aziende, una più e una meno energivora. I permessi
equivalgono a 200 ton di CO2 in totale, divisi equamente tra le due aziende. Accade che l’impresa con costi
di abbattimento inferiori vende i permessi a quella che li ha superiori. L’impresa virtuosa ha un limite ben
preciso entro il quale vende i permessi, e allo stesso modo quella energivora ha un limite entro il quale
comprarli. Tali limiti sono definiti dalla convenienza: per l’azienda virtuosa la vendita avviene se il guadagno
supera i costi di abbattimento, perciò il permesso non viene venduto se il ricavo è più basso del costo di
abbattimento; l’azienda energivora compra i permessi fintanto che costano meno della rispettiva riduzione
delle emissioni, smette di comprare quando è più economico ridurre l’inquinamento rispetto che acquistare
un permesso. I vantaggi di questo metodo sono molteplici: si può ottenere la riduzione di inquinamento
anche senza conoscenza dei costi di riduzione di inquinamento delle imprese, fattore imprescindibile invece
per la fissazione degli standard; la riduzione non dipende dalla distribuzione iniziale dei diritti alle imprese,
ma dagli scambi delle aziende. Inoltre, si ottiene una redistribuzione di reddito tra le imprese a favore di
quelle ambientalmente più virtuose. Il vantaggio più importante è che l’abbattimento delle emissioni avviene
al costo minimo, perché sara