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CANTO XVI
Siamo nella terza cornice, gli Iracondi.
Nella fine del quindicesimo canto, dante e Virgilio si trovano immersi in un’oscurità che non colpisce
solo la vista ma è fastidiosa anche per la pelle, un po' come a dire, che colore che sono stati accecati
dall’ira in vita, ora sono accecati i questo senso.
Posto a metà della seconda cantica, il canto XVI costituisce, insieme ai successivi, il punto centrale
dell’intero poema.
A tale posizione di rilievo è associata la trattazione di tematiche fondamentali nell’architettura della
Commedia, quali le cause della corruzione morale e politica del mondo, il libero arbitrio, la natura
dell’amore. Allo stesso tempo, questi canti riassumono l’intero poema: il XVI, attraverso un sistema di
rispondenze e analogie, l’Inferno (cfr. v. 1: Buio d’Inferno...); il XVII, con la riflessione sulla struttura del
secondo regno e sul processo di purificazione dell’anima, sui problemi del male, della corruzione del
mondo e della responsabilità umana, al Purgatorio; il XVIII, con i richiami a Beatrice (vv. 48 e 73) e il
discorso sulla natura dell’Amore, al Paradiso. La descrizione dell’ordinamento morale del Purgatorio
avviene in stretta analogia con la corrispondente situazione del canto XI dell’Inferno. In entrambi la
spiegazione è affidata a Virgilio (che si rivolge al discepolo come ad un figliuol: cfr. Inf. XI, 16 e qui al v.
92), durante una sosta in un punto significativo del cammino: nell’Inferno prima di affrontare i peccati
più gravi, in Purgatorio dopo averli superati, sul limitare della quarta cornice.
Profondamente diversa risulta invece la strutturazione morale dei due regni. Mentre infatti l’Inferno è
basato sull’etica pagana (Aristotele viene richiamato da Virgilio in Inf. XI, 80 e 101), il Purgatorio è
invece regolato dall’etica cristiana. Le cornici del monte corrispondono ai sette peccati capitali (i segni
P incisi dall’angelo sulla fronte di Dante), il cui sistema settenario si era andato elaborando lungo tutto
il Medioevo, fino ad arrivare a san Tommaso d’Aquino, che lo fissò definitivamente. Inoltre, tenuto conto
che ogni azione, sia virtuosa che peccaminosa, è determinata dall’amore (sementa... d’ogne virtute/
e d’ogne operazion che mertapene, vv. 104-105), i vizi capitali vengono definiti in relazione ad esso
(diversamente dall’Inferno, dove il peccato derivava da un traviamento della ragione, qui dipende
invece da amore insufficiente), e non è quindi un caso che la spiegazione di Virgilio sia collocata tra il
discorso sul libero arbitrio (canto XVI) e quello sulla natura stessa dell’amore (canto XVIII). I peccati, qui
come nell’Inferno, sono classificati in base ad una tripartizione.
Tre possono essere infatti le specie di errore, tutte derivanti da un amore errato: per malo obietto, in
quanto l’amore si volge al male anziché al bene (superbia, invidia, ira); per poco di vigore con cui si
rivolge al bene (accidia); per troppo di vigore con cui si indirizza ai beni terreni (avarizia, gola, lussuria).
Viene in tal modo sottolineata, nel cuore della cantica e del poema, la centralità dell’amore (principio
informatore dell’universo in virtù del quale ogni creatura, originata da Dio, desidera ritornare al proprio
creatore, che è essenza perfetta, d’ogne ben frutto e radice, v. 135), struttura portante del Purgatorio e,
allo stesso tempo, motore dell’intera Commedia, che si conclude all’insegna dell’amor che move il sole
e l’altre stelle (Par. XXXIII, 14).
Il personaggio che incontriamo è Marco Lombardo, e Dante autore sottolinea più volte che Marco non
può vedere con chi sta interloquendo.
È significativo perché dante fa pronunciare parole importante per la sorte dell’umanità,
ed è significativo perchè fa pronunciare queste parole da una persona che non lo vede ed affida discorsi
importanti a persone con poca importanza storica e che ora, nel corso dell’opera, gli viene dato
un impostata maggiore rispetto che in vita.
Buio d’inferno e di notte privata d’ogne pianeto, sotto pover cielo, quant’esser può di nuvol
tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch’ivi ci coperse, né a
sentir di così aspro pelo, che l’occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e
fidami s’accostò e l’omero m’offerse.
Nel buio dell’Inferno, né quello di una notte priva degli astri, osservando sotto un orizzonte limitato,
oscurato quanto più è possibile dalle nuvole, crearono mai davanti ai miei occhi un velo così spesso
come quel fumo che ci avvolse in quel cerchio, né così fu mai così pungente a sentirsi, al punto che i
miei occhi non riuscirono a stare aperti; per cui la mia esperta e fidata guida mi si accostò e mi offrì la
spalla.
L’oscurità impenetrabile avvolge la cornice degli iraconfi. Per rendere l’idea della fitta tenebra, il poeta
si sofferma più allungo sulle immagini, associando le similitudini dell’oltre mondo e quelle terrene; ci dà
l’idea di una notte in cui non risplende più nessuna stella, così che il cielo appare privo della sua
ricchezza di luci, ottenebrato dalle nubi più scure.
L’occhio non può resistere a stare aperto, Virgilio, guida esperta e fedele, si accosta al discepolo perché
questi si appoggi a lui, e si senta sicuro nel cammino.
Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che ’l
molesti, o forse ancida, m’andava io per l’aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che
diceva pur: "Guarda che da me tu non sia mozzo"
Così come un cieco segue la sua guida per non smarrirsi e per non urtare qualcosa che gli faccia male,
o persino lo uccida, così mi muovevo io attraverso quell’aria acre e sporca ascoltando la mia guida che
continuava a dire: “Fai attenzione a non separarti da me”.
Riprende la similitudine e la pietà per i ciechi, di cui già prima ha offerto le commosse immagini. Ora
questo cieco è in movimento, fidandosi della sua guida per non urtare in un ostacolo che gli procuri del
male o lo uccida.
Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l’Agnel di Dio che le
peccata leva. Pur ’Agnus Dei’ eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì
che parea tra esse ogne concordia.
Io sentivo delle voci, e ciascuna sembrava pregare per la pace e per la misericordia l’Agnello di Dio che
toglie i peccati.
L’agnello, associato all’idea sacrificale del Vecchio Testamento, diviene nel Nuovo Testamento
l’immagine di Cristo, e acquista nell’espressione un valore messianistico, in ordine alla redenzione. La
stessa formula, nella liturgia è un’invocazione ripetuta prima della comunione. Le anime che furono
accese di ira, ora ispirano i peccati mutando misericordia della vittima innocente.
"Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?", diss’io. Ed elli a me: "Tu vero apprendi, e d’iracundia
van solvendo il nodo".
Io dissi: «Maestro, sono degli spiriti quelli che sento?» E lui a me: «Dici il vero, ed essi scontano la pena
per la loro iracondia».
Il peccato veniva spesso rappresentato dagli autori ascetici come un legame che toglie la libertà.
"Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo
tempo per calendi?".
E tu chi sei, che attraversi il fumo della nostra Cornice e parli di noi come se tu dividessi ancora il
tempo, misurassi il tempo secondo i calendari (se fossi vivo)?»
Marco si introduce nel colloquio tra Virgilio e Dante, con un tono brusco di meraviglia, avvertendo la
presenza di un corpo vivo, di un uomo che spezza il denso fumo e parla degli spiriti, lì dove non ci sono
che spiriti, come se non appartenesse ad essi, e misura il tempo per mesi, secondo l’uso dei viventi.
Così per una voce detto fue; onde ’l maestro mio disse: "Rispondi, e domanda se quinci si
va sùe".
Così disse una voce; per cui il mio maestro mi disse: “Rispondi, e domanda se per di qui si sale”.
E io: "O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi
secondi".
E io: «O anima che ti purifichi, per tornare bella a colui che ti creò, se mi segui sentirai qualcosa di
straordinario».
«Io ti seguiterò quanto mi lece», rispuose; «e se veder fummo non lascia, l’udir ci terrà
giunti in quella vece
“Io ti seguirò quanto mi è concesso”, rispose; “e se il fumo non mi lascia vedere, il suono della voce ci
terr congiunti facendo le veci di quella”.
Dante autore sottolinea che questa cosa che i personaggi non si vedono.
Questo canto s’interrompe bruscamente nel momento in cui l’anima non può più andare avanti, perché
uscirebbe fuori dallo spazio che gli fu determinato.
Allora incominciai: «Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per
l’infernale ambascia.
Allora incominciai: “con quell’involucro esteriore che si risolve con la morte io salgo le pendici del
Purgatorio e arriva e qui attraversando l’Inferno e le sue pene.
Il corpo è raffigurato come una fascia che avvolge il corpo, e che viene a disciogliersi con la morte.
E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte per modo
tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi
s’i’ vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte».
E poiché Dio mi ha accolto nella sua grazia, tanto da voler che io veda il Paradiso in modo del tutto
diverso da quanto è solito, non celarmi chi sei stato prima della morte, ma dimmelo, e dimmi se
procedo nella direzione giusta per raggiungere il valico; e saranno le tue parole la nostra scorta”.
È un antico privilegio che era stato concesso a San Paolo. Il dialogo inizia con la soddisfazione delle
notizie richieste ottenute, in un giro di frasi ornate, ma coincise; più rapide e taglienti però, furono
quelle di Marco Lombardo, che individuarono subito i tratti spirituali della sua anima e del suo franco
carattere.
«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or
ciascun disteso l’arco. Per montar sù dirittamente vai». Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti
prego che per me prieghi quando sù sarai».
Sono stato Lombardo, e mi chiamavo Marco; conobb