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UN SOLO TESTIMONE
Se il testo di cui vogliamo fare un’edizione è rappresentato da un solo testimone, allora il
testo di riferimento sarebbe uno soltanto. Si tratta di edizione unitestimoniale.
L’edizione unitestimoniale è la più semplice da realizzare, ma ha lo svantaggio che, in caso
di errore, non si ha la possibilità di correggere quel luogo confrontandolo con un altro
esemplare.
Conta comunque se quell’unico testimone è un originale oppure se è stato realizzato entro il
Cinquecento o no, se ha interesse linguistico o no.
Il compito dell’editore, stabilita l’unicità del documento, è quello di trascriverlo in edizione
diplomatica per poi lavorare sulla trascrizione diplomatica.
Bisogna allora eseguire tre operazioni fondamentali: (1)interpretare, (2)eliminare gli errori
(emendare) e (3)definire l’assetto grafico
(1)Interpretare: se il documento risale ai secoli dal XII al XVI mancherà di punteggiatura. Si
dovrà allora inserire in maniera coerente con il resto del brano. Anche la separazione o
l’accorpamento delle parole, l’inserimento di apostrofi, accenti o altri segni è conseguenza
dell’interpretazione. L’intervento del filologo sull’assetto del documento deve essere il più
limitato possibile.
(2)Emendare: ogni volta che l’editore si troverà davanti a un errore, sentirà la necessità di
correggerlo.
Se l’edizione è fondata su un unico testimone, la correzione può avvenire soltanto tramite
congettura, affidata all’intuizione dell’editore. Una correzione di questo tipo viene chiamata
emendatio ope ingenii, frutto dell’ingegno critico e distinta dall’ope codicum, effettuata
attraverso il confronto dello stesso passo su altri codici. È probabile che interventi di questo
tipo si rendano necessari su testi non autografi più che su testi autografi. È anche vero che
l’autore, nel momento in cui copia il proprio testo diventa copista di sé stesso, e quindi può
commettere degli errori.
Accadde persino a Petrarca, il quale era molto attento a sorvegliare il lavoro dei copisti.
Eppure il copista, nel trascrivere il componimento 105 del Canzoniere sbaglia e scrive
“addolcisse” al posto di “addolcisce”. È in dubbio se Petrarca non se ne sia accorto, o se
abbia deciso di mantenere la forma non toscana.
Può accadere quindi che un autore scriva qualcosa che noi giudichiamo sbagliato, e a quel
punto dovremo essere noi a correggerla. Se invece la forma, nonostante sia erronea, sembra
coincidere con la volontà dell’autore, dovremo lasciarla.
Un esempio è l’Elegia di Pico Farnese di Montale, in cui il poeta scrisse il termine “diaspori”
per intendere i cachi. Egli scrive sbagliando perché non si ricordava il termine fiorentino
corretto, che invece è “diospiri”, ma essendo ciò che l’autore intendeva scrivere, andrà
lasciato così.
Può accadere anche che l’editore, pur riconoscendo l’errore, non sia in grado di dare una
correzione; in questi casi marca la singola parola con il simbolo della croce (crux
desperationis) che è il segno di resa del filologo.
IL PROBLEMA DELLA GRAFIA
I testi in italiano antico rischiano di essere illeggibili perché mancano i segni
paragrafematici, perché li usano in modo diverso, perché accorpano o separano le parole. Si
rende quindi necessaria un’operazione di transcodifica e di adeguamento alla nostra
modalità di scrittura, che non deve però modificare la sostanza del testo. È abitudine
nella nostra tradizione filologica di ammodernare il testo per ricondurlo all’ortografia
moderna, purché non intacchi la sostanza fonetica del testo. Se uno scrittore
quattrocentesco scrive “actione”, si può ammodernare in “azione” perché si rispettano i
suoni. È la norma Barbi-Parodi che venne applicata alla Commedia di dante del 1921.
Guardando le edizioni dei classici italiani maggiori, l’unico testo che conserva la grafia
originale è il Canzoniere di Petrarca. Questa scelta si deve a Gianfranco Contini, e si
giustifica sia con l’autografia del manoscritto, sia con la cura che Petrarca mise nella sua
redazione.
Anche l’Hamilton 90 è autografo, ma è in grafia ammodernata. La grafia ammodernata
determina un appiattimento della nostra prospettiva storico-linguistica.
E’ maggiore il rispetto della grafia originale se il manoscritto è autografo e se si inscrive
nell’area culturale dell’Umanesimo
Dal Seicento in poi si stabilizza una norma ortografica, quindi gli ammodernamenti
diventano più controllati, fino a giungere ai testi ottocenteschi che si pubblicano
criticamente senza alcun intervento sulla grafia.
La consuetudine di ammodernare la grafia dei testi fino al Quattrocento ha determinato il
costituirsi di una prassi omogenea. Il criterio che si osserva è distinguere i tratti grafici
portatori di specifici contenuti fonetici o culturali da quelli che, seppur discordanti dagli usi
moderni, rispondono a pratiche di scritture prive di significatività: nel volgare perdura per
esempio l’uso di cha, cho, chu in analogia a che, chi, o di inserire il nesso latineggiante -ct-, o
ricorrere all’uso di scritture singolari come “quore” di Machiavelli In questi casi in genere
→
si ammoderna e i criteri adottati nell’ammodernamento devono essere esplicati dall’editore
in una sezione della nota al testo.
Ci sono testi che si pubblicano non per interesse letterario, ma perché documentano aspetti
interessanti della lingua e dei dialetti. In questi casi l’edizione deve essere necessariamente
diplomatico-interpretativa, poiché la conservazione della grafia originale ha valore
sostanziale.
Ariosto pubblicò la prima edizione dell’Orlando furioso nel 1516, ma seguirono altre due
edizioni nel 1521 e nel 1532. Nell’edizione del 1532 leggiamo il testo corretto che
corrisponde all’ultima volontà dell’autore. Dell’edizione del 1516 è stata realizzata
un’edizione critica in cui l’editore dà luogo a un’edizione conservativa: ha sciolto le
abbreviazioni, ha inserito segni interpuntivi, ha distinto tra u e v, ma non è intervenuto sulle
grafie etimologiche e non ha normalizzato l’uso delle maiuscole.
Il farsi carico della punteggiatura nel testo è un’operazione delicata perché in base alla
punteggiatura potrebbe cambiare il significato di un luogo del testo.
IL METODO DI LACHMANN
LA RECENSIO
Immaginando di avere più documenti che ci trasmettono un testo, nessuno dei quali è
l’originale, l’indagine filologica andrà condotta secondo il metodo sistematizzato da
Lachmann (1793-1851) nell’Ottocento.
Seguendo la procedura lachmanniana, una volta effettuata la ricognizione dei testimoni
bisogna classificarli, poiché comparando le differenze è possibile tentare di ricostruire il
dettato originario. Comparare significa confrontare i testimoni parola per parola.
La collazione (latino conferre, ‘riscontrare’, ‘confrontare’) è il momento dell’analisi
comparativa dei testi trasmessi.
Per collazionare i testi A e B si può procedere in uno dei seguenti modi: si trascrive
diplomaticamente il testo A e si trascrivono tutte le differenze tra i due.
La collazione è un passaggio cruciale del lavoro preparatorio dell’edizione che non si può
fare mediante l’uso di strumenti automatici.
Nel corso della collazione ci si fa un’idea dei rapporti tra i testimoni. Se i testi da
collazionare non presentano divergenze tali da risultare incomparabili, il risultato della
collazione sarà un elenco di lezioni varianti. Soprattutto se si ha a che fare con i testi dei
primi secoli della letteratura, alcune di queste varianti saranno di natura grafica o
grafico-culturale, altre di tipo fonomorfologico o di tipo sostanziale.
Tra le varianti sostanziali bisogna distinguere tra variante ed errore.
- una variante è una possibile alternativa al testo che non ne turba il senso anche
quando fosse poco consona allo stile dell’autore.
- un errore è invece una lezione che a nostro giudizio l’autore non avrebbe mai
riconosciuto come propria, sia perché inaccettabile linguisticamente, sia perché
contraria alla logica del testo.
Per stabilire i rapporti esistenti fra i testimoni si fa leva sugli errori, non sulle varianti; non
tutti gli errori però, solo quelli significativi, detti errori-guida.
- un errore comune a più testimoni (errore congiuntivo) si considera errore-guida se
è molto improbabile che quei testimoni vi siano potuti incorrere indipendentemente.
E’ in tal caso quindi un errore ereditato da un precedente comune.
- un errore presente in un testimone e non in un altro (errore disgiuntivo o
separativo) si considera guida se è molto improbabile che nel testimone che ne è
privo la lezione corretta possa essere stata ripristinata per congettura.
La presenza di un errore guida congiuntivo indica una parentela tra i testimoni, mentre la
presenza di almeno un un errore guida separativo, indica divisione tra i testimoni.
Teoricamente non esistono testimoni di un testo in cui gli errori siano del tutto coincidenti, e
inoltre molto spazio viene riservato alla soggettività e alla capacità di giudizio.
Per esempio: la lezione “splendissimo” invece di “splendidissimo” è un errore di aplografia.
Dal punto di vista separativo non sarebbe un errore guida.
Se lo stesso errore si trovasse identico in due testimoni, potrebbe essere significativo sul
piano congiuntivo.
Gli errori di saut du meme au meme (salto dallo stesso allo stesso) sono significativi sul
piano separativo, essendo impossibile ricostruire un pezzo di testo saltato durante la copia,
ma moderatamente significativi sul piano congiuntivo, perché potrebbero essersi trasmessi
indipendentemente.
Gli errori guida sono il mezzo attraverso cui possiamo ricostruire i rapporti genetici tra i
testimoni. Questa operazione si fonda su due postulati:
a) l’originale è per definizione privo di errori;
b) non esiste passaggio di copia che non comporti l’introduzione di almeno un errore
significativo.
Immaginando di avere due testimoni di cui nessuno dei due è l’originale, i rapporti
possibili tra i due sono quattro:
1) B viene esemplato da A: A non essendo l’originale avrà almeno un errore suo che
essendo significativo passa in B.
B copia di A avrà almeno un errore significativo nel testo.
A non può avere errori separa