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DI GIOLITTI
Nel 1° dopoguerra l’Italia affrontava una situazione difficile, le cui cause affondavano le origini fin dal percorso
risorgimentale: il problema maggiore era il disaccordo tra classe dirigente e masse che non era stato colmato
dall’élite liberale dal periodo dell’unificazione fino allo scoppio della 1^ guerra mondiale. Questo portò, nel 1°
dopoguerra, al riproporsi dello scontro di classe, alimentato anche dalle vicende della rivoluzione bolscevica. Ne
risultò una crisi economica, sociale, diplomatica e politica, non solo in Italia bensì anche in tutti gli Stati che
avevano partecipato al conflitto. La crisi economica era caratterizzata da una forte inflazione dovuta alla stampa di
tanta carta moneta, che in seguito al conflitto aveva perso valore. Il ceto medio, che aveva sostenuto
l’interventismo, ne uscì indebolito, e aumentò la disoccupazione, dovuta alla riconversione industriale postbellica.
Inoltre l’Italia aveva contratto forti debiti con Inghilterra, Francia e USA. A questi problemi si aggiungeva il fatto che
il periodo dal 1919 al 1920 ebbe il più alto tasso di scioperi e agitazioni nelle campagne (con l’occupazione delle
terre nel meridione d’Italia) nella storia dell’Italia liberale (biennio rosso). Ciò rischiava di portare a una rivoluzione
socialista anche in Italia. Queste situazioni si presentarono anche in paesi come la Germania di Weimar e
l’Ungheria.
Questi scioperi e proteste paralizzavano la vita politica del paese. Lo iato della classe dirigente e delle masse
popolari si era consumato anche di fronte alla necessità più o meno avvertita di entrare nel 1° conflitto mondiale. A
fronte di una classe dirigente che aveva spinto il Paese ad entrare nella Grande Guerra, in realtà la maggioranza
della popolazione era contraria all’intervento in guerra, ed era assente rispetto alle tematiche che avevano portato
la classe dirigente alla scelta interventista.
Questa tensione sociale si accompagnava anche al difficile reinserimento dei reduci, che avevano passato in
trincea 4 anni e trovavano difficoltà a riprendere il loro posto in società, sia dal punto di vista lavorativo che
psicologico, non riuscendo ad accettare un ruolo subalterno all’interno della società post-bellica. Questo li portò a
rivendicare un proprio ruolo politico, e si associarono in organizzazioni che partecipavano alle competizioni
elettorali (Associazione Nazionale Combattenti).
Durante la Conferenza di Pace di Versailles (1919) emerse come l’Italia fosse considerata inferiore rispetto agli altri
Stati. Questo era dovuto al fatto che l’Italia aveva visto la guerra unicamente in chiave anti-austroungarica. Le
rivendicazioni di Vittorio Emanuele Orlando e del Ministro degli Esteri Sidney Sonnino si riferivano al Venezia
Giulia, e in particolare a Fiume, che non era inserita nel patto di Londra, poiché non si pensava che l’Impero
austriaco si sarebbe dissolto.
Nel 1918 Fiume aveva chiesto di essere annessa all’Italia, rivendicando il principio di nazionalità e di
autodeterminazione ripreso nei 14 punti di Wilson. Questo metteva in difficoltà l’Italia, poiché da una parte si
richiedeva l’applicazione completa del Patto di Londra rivendicando territori che non rispettavano il principio di
nazionalità (Alto Adige e parte della Dalmazia), e dall’altra si chiedeva per Fiume il rispetto del principio di
nazionalità. Tale situazione di contraddittorietà fu abilmente sfruttata dai circoli politici sloveni e croati che indussero
il presidente statunitense Wilson a non fare molte concessioni all’Italia e a non cederle Fiume. L’Italia, per protesta,
ritirò la Delegazione italiana da Parigi nell’aprile 1919, salvo poi tornare su pressione degli Stati alleati, comunque
non disposti ad accogliere le rivendicazioni italiane.
In realtà considerando il ruolo che il Paese aveva avuto nel conflitto, i guadagni erano corretti, i successi territoriali
e l’annessione di quei territori che erano rimasti fuori dal Risorgimento nazionale andavano a completare lo sforzo
italiano nel conflitto. L’impressione nei circoli politici fu che l’Italia aveva vinto la guerra ma perso la pace. Fu questo
il presupposto da cui partì Gabriele D’annunzio, che aveva partecipato alla guerra come aviatore, per parlare di
“vittoria mutilata”.
Questo portò alla caduta di Vittorio Emanuele Orlando e all’ascesa di Francesco Saverio Nitti (giugno 1919 –
maggio 1920), con il quale questi conflitti vennero esasperati: Nitti capì e intuì la debolezza della classe dirigente
liberale del 1° dopoguerra e cercò un dialogo con quei settori cattolici e socialisti che erano rimasti fino a quel
momento sullo sfondo dell’esperienza dello Stato liberale italiano. Nel settembre 1919, alla testa di alcuni
legionari partiti da Ronchi, Gabriele D’Annunzio marciò sulla città di Fiume. Lungo il tragitto anche il regio
esercito, inviato a fermare il colpo, si unì all’azione dannunziana.
Dopo la presa di Fiume, D’Annunzio fondò la Reggenza italiana del Carnaro, che durò fino al dicembre 1920, e il
suo scopo era quello di preparare l'annessione della città al Regno d'Italia. In questa Reggenza D’Annunzio
elaborò una serie di rituali e miti che verranno ripresi da Mussolini durante il fascismo (es. affacciarsi dal balcone
per parlare alla popolazione). Il governo Nitti venne accusato di non aver fermato l’iniziativa.
D’Annunzio minacciò più volte azioni contro il regno SHS (Serbi, Croati e Sloveni, ossia la Jugoslavia), e anche di
marciare su Roma, per rimuovere la classe dirigente che considerava corrotta, stolta e incapace. Il sistema politico
italiano subì nel dopoguerra un passaggio della politica da una dimensione elitaria a una dimensione di massa,
segnata dalla creazione, nel gennaio 1919, del Partito Popolare Italiano (PPI) di Sturzo, che segnò l’ingresso dei
cattolici in politica.
Il programma era ampiamente riformista, basato sul decentramento amministrativo e sulla riforma del latifondo, con
l’abolizione della coscrizione obbligatoria. La nascita del partito era dovuta anche alla volontà della Santa Sede di
evitare che le masse popolari indirizzassero il consenso verso il Partito Socialista italiano, l’unico partito con
un’organizzazione di massa, e che godeva di un consenso vasto, dovuto al fatto di essersi opposto all’interventismo
nel 1° conflitto mondiale. Il PSI poteva giovare della situazione, in quanto era l’unico ad avere un'organizzazione
ramificata sul territorio attraverso le sue sezioni, attraverso la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro),
attraverso la Federterra, attraverso quindi una serie di istituzioni che catturavano il consenso delle masse popolari.
In questo quadro italiano, si svolsero le elezioni nel 1919, con sistema proporzionale, e suffragio universale
maschile. Il risultato fu eclatante, con PSI e cattolici che incrementarono moltissimo, mentre i liberali persero un
terzo dei deputati. Questo fatto portò a un’ulteriore instabilità, evidenziando come la classe dirigente non fosse
riuscita a dotarsi, fino a questo momento, di un sistema partitico efficiente. Tutte queste trasformazioni nella
società italiana, quindi, favorirono una dimensione di massa del dibattito politico e una partecipazione delle masse
alla vita politica del Paese, a fronte della quale la classe dirigente liberale non era pronta. Anche l’estensione del
suffragio andava proprio ad indicare questo cambiamento nella politica italiana: il passaggio da uno Stato liberale
ad uno Stato liberal-democratico.
La situazione sociale del periodo era caratterizzata da scioperi nelle fabbriche e occupazioni delle terre, che
sembravano presagire una rivoluzione socialista. La classe dirigente, di conseguenza, era divisa sulle
alleanze da stringere, con i cattolici o con i socialisti. Il governo Nitti ebbe vita difficile, e alla fine egli lasciò il
posto a Giovanni Giolitti (giugno 1920 – luglio 1921), che cercò di risolvere le questioni che avevano
indebolito il governo Nitti.
La prima questione da risolvere era quella di Fiume. Giolitti rinuncerà al mandato sull’Albania nel novembre 1920
col trattato di Rapallo tra Italia e Jugoslavia. L’Italia otteneva l’Istria e Zara, mentre Fiume diveniva una città-stato
indipendente. D’Annunzio rifiutò il compromesso, così Giolitti, ricorrendo all’esercito, organizzò il “Natale di sangue”
il 25 dicembre 1920, bombardando la Reggenza italiana del Carnaro di Fiume. Giolitti dovette affrontare anche la
conflittualità sociale interna che nel 1919–1921 era molto forte e caratterizzata dal contrasto tra la classe padronale
e le organizzazioni sindacali.
Le officine Romeo di Milano avevano effettuato la chiusura delle fabbriche, per rispondere alle agitazioni sociali e
agli scioperi sindacali. La perdita di giornate lavorative portò, nell’agosto 1920, la FIOM (federazione impiegati
operai metallurgici) a rispondere con l’occupazione delle fabbriche, che si estese ben presto a tutto il triangolo
industriale. Giolitti tenendo fede ai suoi precetti che andavano contro l’intervento militare nei confronti degli scioperi
di natura economica, decise di non far intervenire l’esercito e così a settembre i dirigenti dei sindacati e del PSI
decisero di non guidare un processo rivoluzionario. Questa decisione porterà nel gennaio 1921, in occasione del
Congresso di Livorno, alla nascita del Partito Comunista Italiano.
Per Giolitti però era difficile governare coi suoi soliti metodi, poiché l’Italia era molto cambiata con l’affermazione di
una società di massa e il quadro politico scomposto. Questo lo portò a indire le elezioni anticipate per il maggio
1921, per verificare il consenso che ancora godeva nel partito. In questa circostanza Giolitti creò i “Blocchi
Nazionali”, un’aggregazione politica di Destra, che comprendeva nazionalisti e fascisti. Le elezioni non
confermarono le previsioni ottimistiche di Giolitti, in quanto i socialisti persero 33 seggi, che vennero recuperati in
parte dai comunisti. Il PPI usciva più rafforzato rispetto alle precedenti elezioni.
Di fatto, però, l’elemento nuovo di queste elezioni, fu l’ingresso di 35 deputati fascisti, tra cui Mussolini. Infatti,
Giolitti aveva sottovalutato il fascismo, considerandolo come una forza che poteva essere inglobata nel sistema
dello Stato liberale. L’operazione di Giolitti accelerò la crisi delle istituzioni liberali. Non risolvendo le contraddizioni
interne del sistema politico, Giolitti abbandonò di nuovo il governo, questa volta per sempre.
CRISI MODELLO LIBERALE PT.1 | PATTO DI LOCARNO | CRISI DEL 1929
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