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Profilo che riguarda lo stato soggettivo

Questa questione non ha solo una valenza teorica e dogmatica, ma si pone anche concretamente perché se noi leggiamo la disciplina dell’indebito ci accorgiamo che la stessa (artt 2033 ss) stride un po’ con il meccanismo della risoluzione e in particolare con il meccanismo della retroattività della risoluzione.

Articolo 2033

ART. 2033: "Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda."

  • Nell’indebito c’è un riferimento esplicito agli stati soggettivi di buona e mala fede
  • Nella risoluzione invece lo stato soggettivo di buona o mala fede non può avere alcuna rilevanza, né si potrebbe dire che mala fede è equiparabile al concetto di inadempimento.

Se l’inadempiente fosse considerato in mala fede, in base al 2033, per quanto riguarda frutti e interessi dovremmo prendere in considerazione il momento del pagamento. Esempio: io ho ricevuto denaro, sono inadempiente, vengo equiparato ad un soggetto che riceve la prestazione in male fede e quindi sono tenuto a restituire interessi non solo dal momento (più recente) in cui viene esercitata la domanda, ma addirittura dal momento del pagamento.

Questo ci fa capire che la disciplina della risoluzione e il congegno retroattivo che fa venir meno il titolo stride con il congegno della ripetizione dell’indebito: infatti, se noi prendessimo sul serio la retroattività della risoluzione dovremmo dire che i frutti e interessi sono dovuti sempre dal momento del pagamento e non invece dal momento della domanda e non guardando alla buona o mala fede.

In altri termini, guardando alla retroattività della risoluzione, la disciplina del 2033 è da intendersi nel senso che frutti e interessi sono dovuti sempre al momento del pagamento e non al momento della domanda.

Giurisprudenza in materia

Cass. 3912/2018: “L’efficacia retroattiva della risoluzione del contratto per inadempimento non comporta il maturare di interessi sulle somme versate dall’una e dall’altra parte in esecuzione del contratto a decorrere dalla data del versamento, giacché il venir meno ex tunc del vincolo contrattuale rende privo di causa il pagamento già eseguito in forza del contratto successivamente risolto, ma, appunto per questo, impone di far capo ai principi sulla ripetizione dell’indebito e qualificare giuridicamente la pretesa volta a ottenere la restituzione di quel pagamento, dove ai sensi del 2033 l’indebito produce interessi solo a seguito della proposizione della domanda, gravando, quindi, su chi richiede la decorrenza dalla data del versamento l’onere di provare che questi era in male fede.”

Alla luce di questa posizione resta da capire cosa si debba intendere per mala fede: la dottrina tende ad escludere una sovrapposizione con l’inadempimento perché l’inadempimento è un comportamento e non uno stato soggettivo, è una condotta non conforme a ciò a cui il contraente si è impegnato e non dovrebbe avere nulla a che fare con lo stato di buona o male fede.

La giurisprudenza dice: vero è che l’effetto della risoluzione è retroattivo (a rigore, si retroagisce al momento del pagamento), ma siccome il titolo viene meno retroattivamente, come se non fosse mai esistito, allora non può che applicarsi la disciplina dell’indebito che fa quella distinzione tra buona e male fede, e siccome solo nel caso di mala fede la restituzione verrebbe agganciata al momento del pagamento, la regola (salvo la prova della male fede) per la Cassazione è quella del momento della domanda. Quindi alla fine si applica la disciplina dell’indebito.

Profilo che riguarda la corrispettività

La risoluzione è un rimedio che riguarda solo il contratto a prestazioni corrispettive. Ora, la disciplina dell’indebito non è pensata per un rapporto sinallagmatico, ma è pensata per una prestazione isolata. Per cui, così come un contraente può rifiutarsi legittimamente di eseguire la prestazione eccependo l’inadempimento dell’altra parte (art 1460) in quanto c’è un sinallagma tra le prestazioni, allo stesso modo, potrebbe farsi un discorso analogo con riferimento non all’originaria obbligazione di eseguire la prestazione, ma all’obbligazione successiva di restituire la prestazione; per cui un contraente può eccepire l’inadempimento dell’altra parte rispetto all’obbligazione restitutoria e, quindi, potrebbe rifiutarsi a sua volta di restituire la prestazione ricevuta.

Importando la disciplina delle restituzioni nel rapporto contrattuale la conseguenza sarà che la corrispettività non riguarda solo le prestazioni da eseguire ma anche le prestazioni restitutorie.

Però, la dottrina e la giurisprudenza non sempre ragionano in questi termini. Ad esempio: Cass. 4442/2014 non sembra ragionare, a proposito delle restituzioni, in termini di corrispettività. Questo è un altro punto di attrito tra la disciplina dell’indebito, che diffusamente si ritiene applicabile in questo caso, e la corrispettività che caratterizza il contratto a prestazioni corrispettive che viene risolto. Emerge come la disciplina dell’indebito che da più parti si ritiene debba essere applicata in caso di risoluzione rilevi dei profili di inadeguatezza rispetto al meccanismo delle restituzioni (per come dovrebbe essere) nella risoluzione.

Obbligazione restitutoria e risarcimento

L’obbligazione restitutoria, per definizione, non è risarcitoria. La restituzione non è un risarcimento del danno, ciò significa che:

  • Se è una prestazione di dare, come una prestazione in denaro, è un debito di valuta e non di valore (quindi vige il principio nominalista: non ci sarà rivalutazione), senza che rilevi se l’obbligazione grava sul contraente inadempiente o meno. Anche se l’obbligazione grava sull’inadempiente non si può dire che si tratta di risarcimento, ma è sempre di restituzione.
  • Se la prestazione ha ad oggetto un fare, è possibile la restituzione del facere? Non è possibile la restituzione materialmente, ma si potrebbe restituire in equivalente economico il valore della prestazione.

Esempio: immaginiamo che venga stipulato un contratto con un professionista intellettuale. Immaginiamo che il cliente non sia soddisfatto del lavoro del professionista e lo ritenga inadempiente (inesatto inadempimento) e decida di risolvere il contratto. In che cosa consisteranno in questo caso le restituzioni? Il professionista che ha eseguito una prestazione di fare, a fronte della risoluzione del contratto, cosa può chiedere indietro?

La prestazione torna indietro per equivalente e poi si potrebbe valutare se ci sono danni (che non dovrebbero mai essere confusi con la prestazione in sé). Il cliente potrebbe essere costretto ad andare da un altro dentista che ha costi superiori; questi costi superiori possono derivare, ed è questo il danno emergente, dal fatto che non partendo dalla situazione originaria impiegherà più tempo per rimuovere l’impianto precedentemente installato e poi fare l’operazione. Immaginiamo poi che la cattiva operazione abbia costretto il cliente a giorni di convalescenza e che quindi non abbia potuto lavorare: anche in questo caso si tratta di un danno. In questo caso il valore della prestazione che torna indietro potrebbe essere 0, soprattutto se il cliente si ritrova in una situazione peggiore rispetto a quella iniziale. Quindi, è del tutto verosimile che la restituzione materialmente non sia possibile, sarebbe invece possibile la restituzione per equivalente economico e tuttavia la prestazione eseguita inesattamente è talmente inutile da non avere alcun valore per chi l’ha ricevuta.

Risarcimento del danno

Circa il tema del risarcimento del danno, in dottrina si incontrano due posizioni. La prima posizione, ritiene che occorra risarcire l’interesse positivo. Altri autori sostengono che è quella prevalente, invece il risarcimento dell’interesse negativo.

L’interesse consiste nell’interesse all’esecuzione del contratto. I sostenitori della prima posizione, dunque, ritengono che il risarcimento comporti che il contraente fedele debba essere portato nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato se il contratto fosse stato eseguito. Quindi in questo caso si guarda al valore del risultato atteso e ai danni consequenziali al suo venire meno. Questo vuol dire che la retroattività della risoluzione non elimina proprio ogni effetto del contratto, ma rimane comunque la circostanza della precedente violazione.

Dunque, sotto questa visione, il risarcimento sarebbe innanzitutto un risarcimento netto, cioè un risarcimento al netto del valore della prestazione non eseguita o della prestazione recuperata. Mentre, per quanto riguarda il lucro cessante, ovvero i diritti che sarebbero stati conseguiti se il contratto fosse stato eseguito, il valore della prestazione non deve essere considerato nel calcolo.

Per quanto riguarda, invece, l’interesse a non essere negativo, questo consiste nel fatto che il contraente fedele sia portato nella condizione precedente alla stipulazione del contratto.

Accanto a queste due posizioni, vi sono poi autori che adottano posizioni intermedie. Per esempio, Villa, che adotta un approccio pragmatico, è un sostenitore dell’interesse positivo salvo poi però introdurre, nella sua teoria, anche componenti di danno proprie dell’interesse negativo. Quindi da un lato esclude il risarcimento per le occasioni di guadagno alternative perdute ma dall’altro ammette il risarcimento per le spese sostenute nel caso in cui l’interesse positivo non sia facilmente dimostrabile, quindi sostanzialmente si tratta di un danno non patrimoniale (per esempio, l’organizzazione di un convegno scientifico o di una convention politica che poi però non ha luogo).

Un altro autore, Della Casa, anche lui sostenitore dell’interesse positivo, ritiene opportuna una valutazione differenziata delle componenti dell’interesse negativo. Per cui, per esempio, riconosce come risarcibili le spese sostenute se risulta non facile dimostrare la variazione di valore (per esempio, un contratto preliminare).

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