CANTO I
Il canto primo dell' “Inferno” funge da proemio all'intero poema.
Come si addice ad un poema allegorico, è intriso di rappresentazioni allegoriche; ciononostante,
tutto il canto ha il pregio di una grande concretezza e icasticità, tanto da risultare avvincente alla
lettura anche a chi non conoscesse il signi cato allegorico dei singoli elementi.
I primi 30 versi trattano dello smarrimento di Dante in una “selva oscura”, avvenuto nell'anno
1300 dunque a trentacinque anni di età.
1,
Dante non sa dire come è nito in tale selva, poiché il suo animo era assonnato e intorpidito.
La selva signi ca, per Dante, un momento di traviamento spirituale, da cui lo libereranno la
considerazione delle gravi conseguenze del peccato (Inferno), l'espiazione (Purgatorio) e la
speranza dell'eterna beatitudine (Paradiso).
Smarrita la “diritta via”, ossia la via della virtù, anche denominata (al verso 12) “verace via”, egli
deve dunque compiere un cammino di redenzione.
Il cammino di salvezza che egli deve compiere in qualità di “homo viator” (uomo che segue una
via) è additato come cammino di salvezza dell'umanità tutta: egli scrive, infatti, “mi ritrovai” nel
mezzo del “cammin di nostra vita”.
Giunto al limite della selva, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi
del sole. Questo lo conforta: “Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata
2
la notte ch'i passai con tanta pieta”.
La rinnovata speranza lo spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche
istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come un naufrago che guarda le acque in
tempesta dalle quali è appena scampato).
Il colle rappresenta la via in salita della virtù.
Per accorgersi che il colle è illuminato dal sole, Dante guarda “in alto”: lo sguardo verso l'alto
indica l'anelito del poeta alle realtà eterne, in contrapposizione alle cose e mere e transeunti del
mondo. L'espressione “guardai in alto” è memore del Salmo 120: “Alzai i miei occhi verso i
monti”.
Come già accennato, il poeta decide di salire: “ripresi via per la piaggia diserta” - si legge al verso
29 - dove la “piaggia diserta” è da intendersi come il pendio che porta all'erta del monte.
Salendo, però, “'l piè fermo” è sempre “'l più basso”: il piede fermo, non in movimento, è quello
più in basso; tale immagine rimanda alla poca vigoria e sicurezza del poeta, ancora impacciato
dalle passioni terrene: i piedi sarebbero dunque da interpretare come i “piedi dell'anima” di cui
parla Sant'Agostino.
Apprestandosi a salire, vede tuttavia una lonza che gli sbarra il cammino.
Appaiono, inoltre, un leone che avanza minaccioso ed una lupa magra e a amata, che sembra
“carca ne la sua magrezza”, ossia carica di ogni cupidigia, e che ricaccia Dante, a poco a poco,
nella selva oscura.
La lonza è allegoria della lussuria, il leone della superbia (ha la “test'alta”, come chi è arrogante),
la lupa della cupidigia.
La lupa è, tra l'altro, “bestia sanza pace”: non ha mai pace perchè non soddisfa mai la sua
bramosia.
Delle tre ere emblematiche, la lupa è la più pericolosa: la cupidigia, da intendersi come sfrenata
brama di piaceri e beni materiali, è di cile da eliminare in quanto l'attaccamento a “quanto piace
al mondo” (come direbbe Petrarca in RVF, 1) è quasi istintivo nell'uomo.
1. Anno del grande Giubileo indetto da Bonifacio VIII.
2. Il è, secondo la tradizione medievale, la parte concava del cuore, il centro, dove
“lago del cor”
il sangue è sempre abbondante e dove si raccolgono gli spiriti vitali.
fi fi fi ffi fi ffi
ff
Mentre retrocede, Dante intravede, nella penombra, una gura umana, de nita come “chi per
lungo silenzio parea oco”.
Il verso è tormentatissimo e si presta a varie interpretazioni.
La più accreditata è riferita al signi cato simbolico della gura di Virgilio, cioè la ragione, che, a
lungo inascoltata dall'uomo smarritosi nel peccato, ha ormai perso il potere di farsi sentire.
Ad ogni modo, a quest'ombra Dante si rivolge chiedendo aiuto: “Miserere di me”.
L'ombra risponde di non essere più un uomo in vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di
essere originario di Mantova. Si presenta come Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare e
Augusto, “nel tempo de li dei falsi e bugiardi”, ovvero durante il paganesimo, e che ha cantato le
gesta di Enea nel poema a lui dedicato.
Esorta Dante a salire “il dilettoso monte”, vale a dire il colle illuminato dal sole, che rappresenta la
felicità terrena.
Dante lo dichiara suo maestro e modello di stile poetico (“lo bello stilo” è lo stile tragico che
Dante, sul modello dell' “Eneide”, impiega nelle canzoni morali e dottrinali) e lo prega di aiutarlo
liberandolo dal pericolo della lupa.
Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà incamminarsi per
una via diversa.
Difatti, la lupa è un animale particolarmente pericoloso e male co, che uccide chiunque incontri.
Virgilio profetizza poi la venuta di un “veltro”, un cane da caccia che ucciderà la lupa e la
ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita.
Tale veltro non si ciberà né di “terra” né di “peltro”, ma sarà nutrito solo di sapienza.
Il veltro del verso 101 è uno dei celebri enigmi del poema.
Letteralmente, il veltro è un cane da caccia, adatto quindi a snidare la lupa.
È chiaro, tuttavia, che esso va inteso anche come simbolo.
Sicuramente, il veltro simboleggia uno sperato e provvidenziale salvatore capace di riportare sulla
Terra la giustizia e la pace.
Sulla sua identità precisa, sono state formulate ipotesi varie e discordanti.
Una delle più accreditate lo identi ca con Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano Impero dal
1302 al 1313.
E ettivamente, anche nel “Paradiso” Dante parla dell' “alto Arrigo” e nel “Purgatorio” allude ad un
uomo savio che, si augura, riporrà l'Italia sotto il controllo imperiale, ponendo così ne al potere
temporale della Chiesa.
certuni commentatori vedono in lui Cangrande della Scala, altri intendono l'espressione “tra feltro
e feltro” del verso 105 come una designazione geogra ca che indicherebbe la nascita del futuro
salvatore tra Feltre (in Veneto) e Montefeltro (nella zona di Urbino).
Tornando al discorso di Virgilio, egli conclude dicendo a Dante che, per salvarsi, dovrà compiere
un viaggio attraverso l'Inferno ed il Purgatorio e poi a darsi ad una guida più degna per accedere
al regno dei beati.
L'Inferno è presentato, dal verso 114 al 117, come un “loco etterno” dove i dannati scongiurano di
avere una “seconda morte” , ossia la morte dell'anima.
3
Quanto alla guida più degna per il Paradiso, l'allusione è chiaramente a Beatrice; Virgilio, nato e
vissuto pagano senza avere la possibilità di credere in Cristo, non può entrare in Paradiso.
Dante accetta la proposta e i due si incamminano: “Allor si mosse, e io li tenni dietro”.
Il motivo del cammino torna alla ne del canto, ma si tratta, ora di un viaggio che muove verso la
salvezza, non più del percorso verso la dannazione.
3. Viene in mente la “morte la morte irrevocabile dell'anima, che, secondo quanto spiega
secunda”,
San Francesco nel Cantico delle Creature, non può far male a chi muore in grazia di Dio.
ff fi fi fi fi ffi fi fi fi fi fi fi
CANTO II
Il canto II inizia con il proemio alla prima cantica, che occupa i primi nove versi.
Nella fatica materiale e nell'a anno spirituale che il viaggio comporta (è la “guerra sì del cammino
e sì de la pietate”), Dante invoca l'assistenza delle Muse perchè lo aiutino a ricordare ciò che
vedrà.
Oltre alle muse, Dante invoca l' “alto ingegno”, ossia chiama a raccolta tutte le sue forze,
consapevole della propria eccezionale missione.
Dopo l'invocazione, la narrazione riprende.
Dante si rivolge a Virgilio e gli esprime i suoi dubbi.
Egli innanzitutto ricorda di Enea, del quale Virgilio cantò e che fu protagonista di una discesa agli
inferi quando era ancora vivo: da ciò discesero, però, profonde conseguenze (l' “alto e etto” del
verso 17: egli avrebbe contribuito alla fondazione di Roma), pertanto non c'è da stupirsi che Dio
gli abbia concesso un tale privilegio.
Si noti che Enea è presentato come “di Silvio il parente”, ossia come padre di Silvio, il glio avuto
da Lavinia; va osservata anche la perifrasi “loco santo u' siede il successor del maggior Piero”,
che sta ad indicare Roma, città ove risiede il ponte ce, successore del primo papa, il sommo
Pietro (San Pietro).
Anche San Paolo compì un viaggio nel mondo ultraterreno, un viaggio motivato dall'esigenza di
portare argomenti alla fede, principio di salvezza.
San Paolo è designato come “Vas d'elezione”, che riprende l'espressione “vas electionis”
presente negli Atti degli Apostoli.
Ma Dante non è Enea né Paolo e si chiede chi gli conceda di intraprendere un viaggio simile: “Ma
io, perchè venirvi? O chi 'l concede?”.
Egli aggiunge: “Se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle”, che signi ca
“temo che il mio venire possa essere un rischioso ardimento”.
“Folle” richiama il “folle volo” di Ulisse in If, XXVI.
Virgilio risponde accusando Dante di viltà, di quella viltà che allontana l'uomo dal ben operare:
“l'anima tua è da viltade o esa”, dove il sostantivo “viltade” è volutamente opposto all'aggettivo
“magnanimo” del verso precedente.
Difatti, Dante concepisce la pusillanimità come opposta alla magnanimità, secondo quanto spiega
nel “Convivio”: “Lo magnanimo si magni ca in suo cuore, lo pusillanimo per contrario sempre si
tiene meno che non è”, quindi il magnanimo è chi si sente capace di portare avanti grandi
imprese, il pusillanime o vile è colui che non è consapevole o addirittura disprezza le proprie forze.
Questo contrasto tra magn
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