L’attività deve essere pericolosa; il giudizio di pericolosità, ove non possa essere formulato sulla base
della qualificazione ad altri fini contenuta in leggi speciali, postula una disamina della natura
dell’attività o della natura dei mezzi adoperati. L’attività o i mezzi, per poter dare luogo
all’applicazione dell’art. 2050, debbono essere intrinsecamente pericolosi, mentre un’attività
normalmente innocua ma che diventi pericolosa in relazione agli errori di chi la svolge ricade nella
previsione generale dell’art. 2043.
Prova liberatoria
L’esercente l’attività pericolosa si libera dalla responsabilità dando la prova di avere adottato tutte le
misure idonee a prevenire il danno. Tale prova liberatoria è intesa con particolare rigore dalla
giurisprudenza, secondo cui è insufficiente la mera prova negativa di non avere violato alcuna norma
di legge o di comune prudenza, occorrendo invece la prova positiva di avere impiegato ogni cura o
misura volta ad impedire l’evento dannoso. È evidente anche la distanza dalla previsione generale
dell’art. 2043 dell’ipotesi disciplinata dall’art. 2050, poiché in quest’ultimo caso non è il danneggiato
a dover provare la colpa del danneggiante, ma è quest’ultimo a dover fornire la prova di avere
adottato ogni possibile cautela per evitare il danno.
(4) Il danno non patrimoniale
Danno non patrimoniale
La funzione della responsabilità civile si articola in termini non coincidenti a seconda che la perdita di
utilità lamentata dalla vittima si riferisca ad utilità apprezzabili patrimonialmente o meno; nel caso di
utilità non apprezzabili economicamente non vi è infatti un saldo economico negativo da riportare a
pareggio nella sfera giuridica della vittima. Tale articolazione della responsabilità civile spiega perché
il nostro ordinamento giuridico, accanto ad una regola generale di risarcibilità del danno patrimoniale,
conosca una regola di risarcibilità del danno non patrimoniale circoscritta ad alcune limitate ipotesi.
Ambito di risarcibilità del danno non patrimoniale
Ai sensi dell’art. 2059 il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, dove per
danno non patrimoniale deve intendersi ogni perdita di utilità non suscettibile di un’immediata
valutazione in danaro. È opportuno sottolineare che non vi è un’immediata correlazione tra
patrimonialità (o non patrimonialità) dell’interesse leso e patrimonialità della perdita, nel senso che
dalla lesione di un interesse di natura patrimoniale può anche discendere un danno non patrimoniale
e viceversa. Si consideri l’esempio della lesione del diritto di proprietà su un bene che abbia per il
proprietario un valore affettivo e la lesione di un diritto della personalità di per sé costituente un
interesse non patrimoniale ma suscettibile di significative ricadute patrimoniali. Premesso che la
risarcibilità del danno non patrimoniale si ricollega al particolare disvalore normativo della condotta
dell’autore dell’illecito ovvero all’esigenza di rafforzare la tutela di una determinata situazione
giuridica soggettiva, l’opinione largamente prevalente era nel senso che il danno non patrimoniale
fosse risarcibile solo in presenza di una specifica previsione normativa.
Art. 185 c.p. / Trattamento dati personali
Il più importante di questi luoghi normativi era considerato certamente l’art. 158 c.p. secondo il quale
“ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Da tale
disposizione si desume dunque la regola secondo la quale, quando il fatto illecito integri altresì un
reato, la vittima ha il diritto anche al risarcimento del danno non patrimoniale; è sufficiente che il reato
sia ritenuto sussistente in astratto, nel senso che non è necessaria una sentenza penale di condanna
a carico del responsabile, ben potendo il giudice civile accertare incidentalmente la ricorrenza del
fatto corrispondente a quello descritto dalla norma incriminatrice. L’opinione fino a poco tempo fa
dominante richiedeva che il fatto fosse accertato in tutte le sue componenti, compreso l’elemento
soggettivo, il quale, trattandosi di verificare la sussistenza di un reato, non avrebbe potuto essere
presunto; da questa premessa si faceva discendere l’inapplicabilità, al fine di fondare la sussistenza
di un danno non patrimoniale risarcibile, dell’art. 2054, co. 2, in quanto istitutivo di una presunzione di
colpa. Di recente tuttavia si è sostenuto da autorevole giurisprudenza che ha la risarcibilità del danno
non patrimoniale sulla base del combinato disposto dell’art. 2059 e dell’art. 185 c.p. non costituisce
ostacolo la mancanza del positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se la stessa debba
ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe
qualificabile come reato. Al di fuori del diritto penale, e a parte qualche altra ipotesi di minor rilievo
pratico, l’ambito più ampio di risarcibilità del danno non patrimoniale a livello di specifiche previsioni
normative e da tempo quello disegnato dalle disposizioni degli artt. 11 e 15, co. 2 cdp, ora sostituito
dal d.lgs. n. 101/2018, dalle quali si desume che un trattamento di dati personali in violazione della
regola di correttezza, ovvero difforme o non pertinente rispetto alle finalità legittime per le quali i dati
erano stati raccolti, dà luogo al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’interessato. La
portata di tale regola si coglie agevolmente, ove si consideri l’ampiezza della nozione di dato
personale. Si segnala che la materia del trattamento dei dati personali e delle conseguenze
risarcitorie derivanti da un illegittimo trattamento di tali dati è ora affidata al Regolamento 2016/679/
UE relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati circolari, nonché
alla loro libera circolazione.
Danno non patrimoniale ed elaborazione della giurisprudenza
L’ampliamento della sfera di risarcibilità del danno non patrimoniale va ricollegato fondamentalmente
all’elaborazione della giurisprudenza. In particolare, secondo un indirizzo giurisprudenziale
accreditatosi presso la Corte di Cassazione nei primi anni di questo secolo, tutte le volte che si fosse
verificata la lesione di un interesse della personalità costituzionalmente protetto, il pregiudizio
consequenziale integrante un danno non patrimoniale o un danno morale soggettivo doveva dirsi
risarcibile benché il fatto non fosse configurabile come reato; tuttavia, questo indirizzo doveva essere
letto alla luce della precisazione che l’accertamento della protezione costituzionale di un interesse, di
per sé certo idonea ad assicurare la rilevanza normativa del medesimo, non era invece in quanto tale
sufficiente affondare la conclusione della sussistenza di un danno risarcibile, occorrendo che il
soggetto leso desse la prova della perdita di utilità personali di vita. Nello stesso arco temporale e nel
solco di linee di pensiero dottrinali, la giurisprudenza è venuta accreditando anche categorie come
quella del danno esistenziale; si tratta di una figura che è stata costruita al fine di eludere i limiti al
risarcimento del danno non patrimoniale posti dall’art. 2059, affermandosi così che l’art. 2043
dovrebbe essere inteso sino a ricomprendervi il risarcimento di tutti i pregiudizi che ostacolano le
attività realizzatrici della persona umana – a prescindere dalle loro ricadute patrimoniali (attività
areddituali). In altre parole, l’elaborazione della nozione del danno esistenziale riproponeva un
percorso di pensiero analogo a quello che aveva condotto alla costruzione della categoria del danno
biologico. Peraltro, anche la possibilità di ottenere un risarcimento del danno esistenziale, derivante
dalla privazione di attività areddituali, fonti di utilità personali di vita per la vittima, postulava che
quest’ultima alle gasse e provasse l’esistenza di tali perdite. La vittima del fatto dannoso, al fine di
ottenere la liquidazione in proprio favore del danno esistenziale avrebbe dovuto dimostrare di avere
interrotto la frequentazione di un’associazione, alle cui attività in precedenza partecipava con
regolarità, ovvero di avere cessato la pratica di un hobby. La categoria del danno esistenziale è stata
tuttavia oggetto di serrate critiche che ponevano l’accento sul fatto che la stessa finiva per
determinare un aggiramento della concezione bipolare della responsabilità civile, secondo la quale
nel nostro sistema giuridico solo il danno patrimoniale sarebbe risarcibile in via generale, in presenza
del requisito dell’ingiustizia del danno, mentre il danno non patrimoniale sarebbe risarcibile solo in
presenza dell’ulteriore requisito della previsione di legge in tal senso. Dal punto di vista applicativo
poi gli orientamenti critici della categoria del danno esistenziale sottolineavano che la stessa aveva
dato vita ad un proliferare di pretese risarcitorie bagatellari; era inoltre avvertito il rischio della
duplicazione o triplicazione delle pretese risarcitorie a titolo di danno non patrimoniale, poiché a
questo punto potevano venire in considerazioni quattro distinte voci di danno non patrimoniale
(danno non patrimoniale in senso ampio – danno biologico – danno esistenziale – danno morale
soggettivo). Di qui, nel 2008, un ulteriore intervento della Cass. SS.UU. che ha affermato l’unitarietà
della categoria del danno non patrimoniale, insuscettibile di articolazioni al proprio interno, con
conseguente tendenziale assorbimento nella categoria unitaria così costruita di ogni profilo di danno
non patrimoniale; tale affermazione è dichiaratamente funzionale allo scopo di evitare duplicazioni
risarcitorie, ma nella produzione normativa così come nell’elaborazione giurisprudenziale successive
continuano ad essere largamente utilizzate le categorie del danno morale soggettivo, del danno o
pregiudizio esistenziale o del danno biologico. Le SS.UU. hanno ritenuto che presupposto per la
risarcibilità del danno non patrimoniale sia che lo stesso venga arrecato in violazione di un diritto
inviolabile della persona costituzionalmente garantito (ingiustizia del danno costituzionalmente
qualificata); non è dunque sufficiente la mera protezione costituzionale dell’interesse al fine di fondare
la sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile, ma è necessario che l’interesse stesso
corrisponda ad un
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