caso specifico. [QUESTI CAPITOLI DEL LIBRO SONO IMPORTANTISSIMI E POSSONO
ESSERE BASE D’ESAME].
XIII. Gli ordinamenti giuridici cittadini. La città come forma.
Intorno all’anno 1000 ci troviamo di fronte ad un pullulare di ordinamenti, ciascuno con
caratteri propri e con sempre più rilevanza del territorio (contrariamente al radicato concetto
per cui il diritto era connesso alle persone). Il territorio non espunge l’idea dell’appartenenza
ad una comunità, che tuttavia si va a frammischiare con l’importanza del territorio (sul quale
la comunità vive ed insiste). Il territorio si leva a delimitare così lo spazio d’azione di chi
detiene il potere.
Messi da parte Impero, Imperatore e Papato, occorre volgere lo sguardo agli ordinamenti
che iniziano a prendere una forma di non minore importanza rispetto ai due poli classici del
potere. Siamo qui all’origine di quella pluralità di ordinamenti giuridici e
conseguentemente di giurisdizioni che è caratteristica del basso medioevo (è questa la
visione che spesso viene data di medioevo, come età di pluralismo giuridica).
Come sappiamo, l’impero carolingio era entrato in crisi in tempi brevissimi, sino dalla morte
di Carlo Magno, quattordici anni dopo la sua incoronazione. Gli Ottoni avevano iniziato una
politica di rilancio dell’Impero, che si era indebolito a causa della estrema feudalizzazione
del sistema socio-politico. In un Impero debole, nel vulnus dell’assenza di un potere forte,
sono i poteri locali che si organizzano per difendersi (a suo tempo, si era originata così la
figura del feudo, dando luogo alla signoria fondiaria col presupposto del rapporto
vassallatico). Il feudo tende ad evolvere, nel mutato contesto storico, ed i grandi signori
feudali prendono il sopravvento all’interno dell’Impero, anche a danno della Chiesa, fino
addirittura a fare da forze centrifughe.
Forti sono i poteri feudali, che sono tanto robusti da riuscire ad espandere sé stessi anche
oltre la signoria fondiaria in senso stretto, gestita in nome del rapporto vassallatico: essi
tendono ad allargarsi sul territorio, aggiungendo alla loro signoria fondiaria anche una
signoria di natura territoriale. Questa viene esercitata non tanto sulle persone quanto sul
territorio (il dato territoriale emerge accanto ai soggetti, non individui, quale elemento
determinante per la costruzione della nuova esperienza giuridica). Ad avere potere è chi ha
territori – ossia possedimenti terrieri – e ha armi (si crea così un’aristocrazia militare e
agricola, cioè la nobiltà del momento, che è tale perché ha i mezzi per sostenere sé e gli
altri). È questo un momento di scontri esterni (invasioni degli ungari, poi dei saraceni) e
interni tra i singoli signori feudali (la signoria feudale che tende ad espandersi oltre il feudo,
costruisce castelli fortificati – incastellamento – per difendersi dalle aggressioni esterne e
produrre).
All’interno della grande idea di universalità tipica della struttura ecclesiastica esiste questa
immensa, sfaccetta, realtà che origina una serie di ordinamenti che si muovono nella
direzione dell’autonomia.
Le origini di ciò erano già visibili nel V sec., ma ora – specie con la riforma gregoriana che
ha scosso il feudo – si è data una spinta alle realtà autonome territoriali. Tra le cause di
rimessa in circolazione dei testi giustinianei occorre, peraltro, tener conto anche di queste
autonomie (e non solo i vantaggi anzi visti circa Papato e Impero): il giuridicizzarsi di questi
vari ordinamenti più piccoli che vivono nella compagine imperiale. Si staglia così la
differenza tra potere centrale, sovranità assoluta, e autonomia, in una relazione tra genere
a specie (ordinamenti universali e ordinamenti particolari, autonomi): qui passa una delle
eredità più interessanti del Medioevo, circa il concetto di autonomia in relazione al concetto
di sovranità.
Proprio da questa relazione nascono le varie forme moderne di federalismo, di potere
gerarchizzati, regionalismo, etc., e tutte le varie forme di cui ancora oggi ci serviamo (la
relazione sovranità-autonomia è creazione originale dell’epoca medioevale). Il Corpus è
importante non solo per la causa imperiale e pontificia ma anche per queste nuove realtà
cittadine, pluralità di ordinamenti, che caratterizzano il secolo XII.
In questo quadro si colloca il fenomeno dell’inurbamento (XI-XII sec.) e della epifania delle
città. Qui si colloca il paragrafo 4 del cap. 2, dedicato precipuamente alla città nuova.
Soprattutto da noi la città non è fenomeno popolare, ma aristocratico (e ciò contro il cliché
atavico che ha sostenuto la storiografia del fatto che siano stati i popolani a spostarsi per
primi, per sfuggire alle egemonie dei signori feudali).
A spostarsi non sono i grandi signori feudali ma la piccola aristocrazia, che cerca di
consolidare il potere uscendo dalla campagna (signori di terre o signori territoriali, con potere
di fatto su un territorio cioè, che non esercitavano un potere vassallatico ma un mero potere
frutto di protezione attraverso le armi [un potere solo di fatto il loro, non formalmente insigniti
del vincolo feudale]). I signori di terre si muovono con i proprietari di terre allodiali (l’allodio,
ossia le terre libere da soggezioni di natura feudale). Questi formano nell’insieme un ceto
agrario: non gli viene difficile farlo, avendo vissuto fino a quel momento di ricchezze agricole,
che ben riescono a tradurre in ricchezza patrimoniale. Ed essi smaniano di divenire cittadini.
Tra i piccoli signori si stringono dei patti, le coniurationes, che visibilmente assumono la
forma di una piccola torre (simbolo di difesa interna ed esterna della nuova città costituita)
costruita tra le mura.
La città ha una forma (architettonica anzitutto) ben precisa: essa è instrumentum (come
l’equitas constituta) poiché strumento in cui e per cui si realizza il diritto. Il simbolo della città
è la sua forma architettonica, con le sue mura come un patto che stringono i piccoli signori
per dare vita ad un piccolo ordinamento che è la città.
Per Pietro Costa (in Cittadinanza) la città è forma di convivenza (una convivenza non allo
stato libero, ma una convivenza a cui è stata data forma, la forma giuridica) che si pone
all’origine del discorso politico occidentale e continua a proporsi come suo punto di
riferimento per un periodo lunghissimo. Per Aristotele la città è un microcosmo omogeneo
e autosufficiente, dove i cittadini esercitano la virtù: emerge la figura giuridica nuova del
cittadino, civis. Egli ha un ruolo fondamentale, in quanto non c’è più il soggetto col doppio
status ma anzi il cittadino, colui che ha un ruolo preciso nel garantire il buon andamento
della civitas che è rimesso nelle mani dello stesso.
Perciò, intorno alla metà del XIII sec., si creeranno le condizioni per un’ulteriore riemersione,
quella dei testi dell’Aristotele maggiore (la Politica, in quanto la città ha fatto sì che si siano
create le condizioni di riemersione di questi).
La città è un’unità di cui le componenti sono partecipi: essa non è la somma dei singoli
cittadini, ma è l’unicuum, una piccola universitas immersa nell’Impero, l’universitas maxima
(secondo Bartolo da Sassoferrato). Chiesa e Impero sono le universitates più ampie, ma
anche le città lo sono esse stesse, sia pure in piccolo. La sola differenza è che, mentre
l’universitas imperiale non ha nessuno fuorché Dio al di sopra di sé, le città hanno l’Impero
sovrano al di sopra di loro. L’impero non potrebbe essere l’universitas che è se al suo interno
non avesse le piccole universitates che lo sorreggono; e viceversa esse non esisterebbero
se non vi fosse come presupposto l’universitas maxima dell’Impero. La città, come
universitas, è un’unità e non la somma di singoli: attraverso la compresenza di queste
universitates noi comprendiamo il rapporto tra universalità e autonomie. Non a caso, sono
questi i tempi in cui la dottrina giuridica elabora il concetto di persone giuridiche, e non di
individui, cioè di universitates. È la comunità nel suo insieme che esercita il potere: tant’è
che i singoli cittadini saranno onorati e rispettati quanto più potranno incidere sulle sorti della
vita della città. Nasce così il nuovo ceto politico.
La città è quindi una comunità unitaria; la partecipazione dei cittadini alla vita cittadina è
strettamente egualitaria (nasce il concetto eguaglianza, sul presupposto che tutti i cittadini
sono liberi allo stesso modo e dotati di pari dignitas, poiché tutti virtuosi). Non c’è tra essi il
vincolo di sottoposizione feudale: tutti i cittadini sono privi del doppio status di dipendenza,
ma hanno un solo status, quello di cittadino.
La città è una comunità di eguali, che ha come scopo l’esercizio di una vita buona e la
misura dell’eguaglianza è data dalla disposizione di tutti ad essere fungibili nel comandare
e nell’obbedire volta a volta.
C’è solo il civis, non il vassallo: ma la graduazione gerarchica, poi, nella città si manifesta
nella partecipazione politica alla vita della città, più o meno attiva. Quanto più si partecipa
alla vita politica, tanto più si sale verticalmente. La città è duplicemente inclusiva (include
tutti nella stessa natura di civis, e poiché tali dotati di meesima dignitas) ed esclusiva (nel
momento in cui il civis non partecipa al bene della comunità, esso viene escluso, bandito
[ossia essi sono banniti, esiliati, collocati ex-communio] dalla comunità).
Il popolo è dunque entità socialmente, economicamente e politicamente differenziata; la
libertà di cui gode si esprime nella gerarchia sociale e politica. Il principio di eguaglianza che
discende dalla qualifica di civis si traduce in gerarchia, poi, nella civitas.
L’unità della città postula la differenziazione delle sue componenti e non già una sua
meccanica uguaglianza (cade così il cliché del comune medioevale come emblema,
sopravvaluto, del mondo cittadino libero e democratico: questa visione inesatta merita di
essere osteggiata; vero che in tanto in quanto cittadini sono tutti uguali, ma poi la
partecipazione alla vita politica cittadina crea le differenze sostanziali). L’eguaglianza esiste
nel senso di appartenere comunemente alla medesima civitas, di spartire con gl
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