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Segue la supplica al destinatario, l’anonimo “vuestra merced” di cui non sappiamo nulla
tranne che, come viene rivelato nel settimo capitolo, è amico dell'arciprete di San Salvador.
Si rivela dunque il carattere di epistola del testo, e si allude a un non precisato “caso” che
verrà rivelato solo nell’ultimo capitolo. Solo alla fine comprendiamo dunque i contorni della
vicenda
La narrazione in prima persona, allo scopo di tracciare una descriptio personarum, viene
rappresentata come epidittica attraverso un altro luogo comune, ossia l’esaltazione
rinascimentale degli homines novi. In realtà la finalità è ovviamente giudiziale.
La struttura retorica è complessa: si può mettere a fuoco partendo dal presupposto che, così
come l’epistola si risolve quasi per intero in una lunga narratio che contraddice i tre canonici
imperativi di chiarezza, brevità e verosimilità, anche la narrazione a sua volta si articola
come una descriptio personarum dilatata in modo abnorme. L’architettura dell'intero Lazarillo
è sorretta dal 'accavallamento di due modelli di descrizione personale: giudiziale (Lazaro si
scagiona da un’accusa attraverso la sua biografia), camuffata e presentata
come una descrizione epidittica. Si tratta dunque di un testo apparentemente semplice ma in
realtà denso e complesso, in cui il senso di ciò che si legge è spesso l’esatto contrario del
senso letterale.
Il prologo si apre con l’istintenza sulle cosas e si chiude annunciando il caso: si tratta di
anagrammi.
Questi anagrammi non sono affatto casuali, ma ci fanno capire che questo è il nucleo del
testo: il Lazarillo parla di una “cosa” che è un “caso”, i contorni del quale ci verranno svelati
solo alla fine.
L’autore gioca costantemente con le bisemie di ciascuna parola: difficile è rendere la dilogia
di señaladas: da un lato “notevoli”, dall’altro “additate”, “chiaccherate” dei cittadini di Toledo:
il riferimento è al menage a trois che coinvolge Lazaro, sua moglie e l’arciprete di Santiago.
Troviamo il topos del “talento sepolto”: la conoscenza deve essere trasmessa a più
persone possibili, e la falsa promessa di trattare una res elevata, da cui si possa ricavare un
insegnamento e soprattutto diletto: è il connubio oraziano di docere e delectare.
La prima citazione esplicita, di Plinio il Vecchio, si accompagna a un’altra implicita: forse
l’allusione alla diversità dei gusti è di matrice oraziana, forse deriva dal Dialogo de la Lengua
di Juan de Valdès, uno dei papabili autori del Lazarillo.
Secondo Lazaro, tutto va comunicato a meno che non sia detestable, cioè infamante per
una o più persone specifiche. Il Lazarillo è però proprio questo: Lazaro tenta di scagionarsi
dall’accusa di aver sposato per convenienza l’amante di un chierico, ma in fare ciò accusa la
moglie e l’arciprete di San Salvador di averlo costretto a questo matrimonio. Il testo è
dunque detestable perchè diffama persone identificabili. Inoltre, l’autore ribadisce la sua
intenzione di docere, di scrivere un testo da cui si può ottenere qualche frutto: in realtà, dal
Lazarillo forse non si può ricavare nessun frutto, ma è sicuramente un testo infamante.
Viene ora introdotto il tema del deseo de alabanza: con una certa ironia, essendo il testo
anonimo. Chi lo scrisse, lo fece per divertimento o per i denari, ma non per la fama: di nuovo
dobbiamo rovesciare il testo per comprenderlo.
A questo punto, dopo la citazione di Cicerone, troviamo i tre esempi che illustrano il deseo
de alabanza: da quello del soldato (con topos del connubio fra armi e lettere per via del
velato riferimento a Garcilaso), a quello farsesco del cavaliere inetto ingannato da un
adulatore, passando per un giovane predicatore vanesio.
Se il deseo de alabanza è credibile nel primo esempio, non può esserlo negli altri due:
perché è grave che un predicatore anteponga il desiderio di essere elogiato alla salvezza
delle anime, ed è ridicolo il comportamento del cavaliere che dà un premio a un buffone per
false lodi.
Poi, il topos humiltatis: esso è
1. riferito alla persona
2. riferito all’opera
3. riferito allo stile
Vi è un doppio pubblico: il primo è quello indeterminato dei lettori, ma subito dopo troviamo
il secondo: Vuestra merced, il destinatario dell’epistola.
La presenza del primo pubblico è una caratteristica delle carte messaggiere, cioè
dell’epistolografia umanistica.
La supplica, alla fine del testo, è il nucleo del prologo, così come il nucleo del testo si trova
nell’ultimo tratado, il settimo. Questi due nuclei sono speculari, e presentano molti nessi
intertestuali.
Probabilmente, Vuestra Merced non ha scritto a Lazaro per avere notizie sul caso, ma
quest’ultimo, sapendo che Vuestra Merced voleva notizie sul caso, ha deciso di scrivere un
memoriale difensivo a Vuestra Merced: è una risposta non richiesta, o almeno non chiesta a
Lazaro. Ciò si deduce dall’uso della locuzione escribe se le escriba: tipica del genere
epistolare, però qui in una formulazione anonima (di solito era ME escribe que se le
escriba).
L’entera noticia de mi persona rimanda all’esercizio retorico della descriptio personarum,
che può essere epidittica o giudiziale: qui Lazaro la presenta come epidittica, ma in realtà e
giudiziale e serve per scagionare sè stesso e accusare la moglie e l’arciprete.
Per presentarsi come un esempio morale, Lazaro realizza una parodia del topos degli
homines novi: uomini nuovi, che erano stati dotati di nobiltà d’ingegno, paragonata
positivamente a quella di nascita. L’ingegno è però quello di un picaro: tutto è ridicolo.
Questo topos serve al camuffamento epidittico della descriptio personarum.
C’è il luogo comune della fortuna/fortunale: chi supera la tempesta raggiunge un buon
porto.
Il ‘buen puerto’ della fine del prologo è speculare alla ‘cumbre de toda buena fortuna’ della
conclusione del romanzo, dove Lazaro dice di essere scampato al fortunale.
Dato che la descrizione è epidittica, Lazaro deve indicare quali sono le sue due virtù. Di
solito in una descrizione epidittica erano incluse virtù stoiche, come la fortitudo. Qui abbiamo
la ‘fuerza (che non è la fortitudo dell’animo ma indica la resistenza alle botte) y maña’: le
ambigue virtù del pícaro.
La maña non ha nulla a che vedere con le virtù cardinali del cristianesimo o lo stoicismo, ma
si tratta della virtù principale del picaro, che riesce a ingannare gli altri grazie alla sua
astuzia.
Forse “fuerza y maña” andrebbe vista come un’endiadi: “forza dell’astuzia”.
Lezione 3
Tratado I:
L’esordio “pues”, come osserva Claudio Guillén, rende l’idea di una “epistola hablada”, cioè
di una missiva recitata.
Il personaggio è chiamato Lazaro de Tormes dagli abitanti di Toledo, dove è banditore di vini.
In realtà, nel resto del testo è semplicemente chiamato Lazarillo. Tormes è il fiume che
attraversa Salamanca, dove il protagonista nacque.
Il nome completo del protagonista, tenendo contro del patronimico e matronimico, sarebbe
Lazaro González Pérez.
Forse, in questi nomi, si nasconde un’allusione a Gonzalo Pérez, importante personaggio
alla corte di Carlo V, figlio di Bartolomé (da cui Tomè), che aveva un figlio riconosciuto, ma
fuori dal matrimonio, di nome Antonio.
È significativo il fatto che Lazaro insista sulla verità della sua nascita nel fiume, perché così
facendo istituisce un confronto in absentia con il personaggio più importante dei romanzi
cavallereschi spagnoli, Amadìs de Gaula, il quale era nato nel fiume. È come se Lazaro
stesse affermando che, a differenza del cavaliere, lui in un fiume ci è nato davvero. Inoltre, si
può creare anche un parallelismo con Mosè, il quale venne affidato al Nilo dopo la nascita.
Si nota anche quella che potremmo definire la retorica della reticenza e dell’anfibologia:
da una parte Lazaro è un narratore reticente che ci obbliga a fare uno sforzo di
ricostruzione; dall’altra, Lazaro sfrutta ogni ambiguità, dunque c’è anche la retorica
dell’anfibologia. Un lettore attento infatti si chiederebbe cosa ci facesse la madre di notte in
un mulino; forse aveva raggiunto il marito mugnaio per rubare il grano praticando sangrìas
nei sacchi, forse era lì per altre losche ragioni; la madre esercitava infatti anche la
professione di prostituta e poteva trovarsi lì per incontrare un cliente. Non lo sappiamo con
certezza e non è necessario saperlo: la bellezza del testo sta anche nella sua reticenza.
Si parla di salassi: troviamo la metafora del chirurgo incapace: il padre di Lazaro fa
sangrìas mal hechas en los costales, cioè ruba il grano dai sacchi. Con la parola costales
Lazaro fa riferimento ai sacchi di grano, ma il termine richiama la parola molto simile
costado, fianco; quest’uso del vocabolo potrebbe far riferimento in modo caricaturale al
costato di Cristo crocifisso ferito dalla lancia di Longino, come sostiene Gargano. Infatti,
subito dopo troviamo una serie di reminiscenze parodiche del Vangelo (Giovanni, I, 20 e
Marco, V, 10).
Geniale è la resa ambigua di Marco V, 10, “beati qui persecutionem patiuntur propter
iustitiam”: por justicia in spagnolo è un complemento d’agente, però potrebbe anche
significare “per la giustizia, per il fatto di essere un giusto”. In effetti, nel versetto di Marco
troviamo “propter iustitiam”, cioè “per la loro giustizia, sono perseguitati ingiustamente per il
fatto di essere dei giusti”.
Ruffinatto vede in queste immagini una crittografia erotica, perché la parola “ sangrìa” è
usata nella poesia burlesca per indicare la deflorazione, e “costal” allude alla fornicazione.
Lazaro getta il dubbio sul fatto che suo padre fosse un maomettano; probabilmente la
spedizione contro i Mori a cui si fa riferimento è quella a Gerba del 1510 (o forse 1520). È
interessante l’anfibologia offerta dal verbo fue, che può significare fu o andò: non si sa da
che parte abbia combattuto il padre.
Sono importanti le origini umili ed infamanti di Lazaro, figlio di un maomettano, e di una
probabile establera, prostituta di infimo rang