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Concetti Chiave

  • The aftermath of World War I led to the Treaty of Versailles, which imposed severe reparations and territorial losses on Germany, fostering resentment that contributed to the rise of nationalism.
  • The foundation of the Fascist movement in Italy was marked by Mussolini's break from socialism and his adoption of nationalist ideas, emphasizing Italy's need for respect and power on the international stage.
  • Squadrismo, a violent practice by fascist squads, was supported by landowners and tolerated by law enforcement, aiming to crush socialist influence and enforce nationalist ideals.
  • The rise of the Fascist dictatorship in Italy was facilitated by Mussolini's strategic alliances and the passive stance of King Victor Emmanuel III, ultimately dismantling the liberal state.
  • The murder of socialist deputy Giacomo Matteotti underscored the regime's use of violence and intimidation to suppress opposition, cementing Mussolini's grip on power.

Indice

  1. La fine della prima guerra mondiale
  2. La conferenza di Parigi del 1919
  3. I Quattordici punti di Wilson
  4. Le rivendicazioni francesi e tedesche
  5. Il trattato di Versailles e le sue conseguenze
  6. Altri trattati di pace
  7. La delusione italiana post-guerra
  8. La nascita del Partito Popolare Italiano
  9. La crescita del socialismo in Italia
  10. La nascita del fascismo
  11. L'ascesa di Mussolini e la marcia su Roma
  12. Il consolidamento del regime fascista
  13. La militarizzazione della politica fascista
  14. La violenza squadrista e il mito della giovinezza

La fine della prima guerra mondiale

L’11 novembre del 1918 si conclude la prima guerra mondiale, un conflitto che sembrava dovesse durare per sempre, lasciando un Europa devastata e ponendo le basi per ulteriori lotte e rivincite, che più tardi avrebbero dato luogo alla Seconda guerra mondiale.

La conferenza di Parigi del 1919

Terminata la guerra, si tiene in Francia la conferenza di Parigi del 1919, ossia un congresso di pace organizzato dai paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, il cui obiettivo era quello di mettere ordine in Europa, delineando una nuova situazione geopolitica. Al tavolo dei trattati di Parigi si sedettero il presidente degli Stati Uniti d’America, Wilson, il primo ministro d’Inghilterra Lloyd e il presidente della Francia, Clemancea, mentre l’Italia assunse un ruolo di secondo piano. Nel corso del congresso appaiono subito chiari i contrasti tra America ed Europa.

I Quattordici punti di Wilson

Protagonista con poca fortuna delle discussioni di Versailles fu il presidente statunitense Woodrow Wilson, che con i suoi Quattordici punti avrebbe dovuto ispirare i negoziatori dei trattati e dare la risposta con cui l'Occidente avrebbe contrastato l'assolutismo e il militarismo degli Imperi Centrali, e l'internazionalismo leninista. Ma questi quattordici punti, in cui si rivendicava la nazionalità e l'autodeterminazione dei popoli nello stabilire le nuove frontiere, si trovarono a dover competere con le diverse componenti nazionalistiche nei Balcani, con la necessità di creare stati "cuscinetto" contro la Russia bolscevica, con le rivendicazioni italiane sugli slavi e con le rivendicazioni e i risentimenti che i francesi covavano nei confronti dei tedeschi fin dall'epoca napoleonica. Lo stesso Wilson ben presto capì che i suoi programmi non sarebbero stati seguiti dagli altri vincitori.

Le rivendicazioni francesi e tedesche

In un incontro con Raymond Poincaré il 14 dicembre 1918 a Parigi, il presidente francese espose a Wilson, quasi con ultimativa chiarezza, l'idea centrale della presenza e dell'azione della delegazione francese alla conferenza: La Francia invece è intenzionata ad annientare economicamente e militarmente la Germania, allo scopo di umiliarla. In tal modo si renderà in parte responsabile della nascita del forte spirito nazionalista tedesco, che a sua volta darà origine alla Seconda Guerra Mondiale. mentre Wilson fino ad allora non aveva mai parlato di "punizione, ma solo di preparare una situazione in cui la classe dirigente tedesca, aristocratica, autocratica e militarista, non avrebbe potuto più nuocere e ciò avrebbe favorito una democratizzazione della nazione. Una dura "punizione" avrebbe colpito, secondo Wilson, non l'autocrazia, bensì proprio gli sviluppi democratici che in quel momento il popolo tedesco stava faticosamente cercando.

Il trattato di Versailles e le sue conseguenze

Dopo la fine della guerra, la maggioranza della popolazione tedesca dava per scontato che si sarebbe arrivati ad una pace già prima della fine del 1919 sulla base dei Quattordici punti di Wilson; i tedeschi si aspettavano quindi riguardo, nonostante poco tempo prima avessero imposto durissime condizioni alla Russia (trattato di Brest-Litovsk). Già nel novembre 1918 i tedeschi scoprirono tramite informatori che gli Alleati avrebbero fatto in modo che il peso e la colpa del conflitto sarebbero stati attribuiti in toto alla Germania e ben presto intensificarono gli sforzi per negare o almeno attenuare la responsabilità e quindi recuperare prestigio internazionale. Nonostante i dissidi fra gli Alleati, le proteste in patria ed il pericolo bolscevico, non riuscì a scongiurare che alla Germania fosse data l'intera responsabilità della guerra ed il pagamento degli indennizzi. Con la tagliola del blocco navale britannico e l'autoaffondamento della flotta tedesca a Scapa Flow, la Germania fu quindi "costretta" alla firma del trattato, nonostante si fosse anche testata l'ipotesi di una ripresa dei combattimenti.

Altri trattati di pace

Al congresso di Parigi seguiranno cinque trattati con cui si porrà fine alla Prima Guerra mondiale. Primo fra tutti il Trattato di Versailles, secondo cui la Germania deve rinunciare a tutte le colonia, all’Alsazia, alla Lorena e alla Slesia. Dovrà inoltre pagare tutti i suoi debiti alle nazioni vincitrici, il suo esercito dovrà contare 100.000 uomini e non di più, e la riva destra del Reno sarà occupata per 15 anni da un esercito alleato mantenuto dalla Germania. La Prussia si separa dalla Germania, e la Polonia viene dichiarata libera, e gli viene assegnato uno sbocco verso Danzica. Questa umiliazione, l’aver escluso i vinti dalle trattative di pace e l’aver determinato la povertà tedesca saranno resi a duro prezzo. 2) Trattato di Saint Germain, secondo cui il territorio austriaco viene smembrato. Si creano dunque la Cecoslovacchia, il Regno iugoslavo (comprendente Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Dalmazia. Esso avrà negli anni non pochi problemi di “convivenza”) e l’Albania. L’Austria, che non può assolutamente essere unita alla Germania, diventa stato a sé. Con il Trattato di Trianon nasce la Repubblica Ungherese, così come nascono l’Estonia, la Lettonia, la Lituania e la Finlandia. Lo stesso trattato di Saint Gérmain regola i rapporti tra l’Austria e l’Italia: i territori irredenti vengono ceduti all’Italia. 3) Trattato di Neully, il quale priva la Bulgaria di ogni sbocco al mare. Gli viene tolta anche la Macedonia, che viene invece inserita nella nascente Iugoslavia, e parte dei suoi territori vengono annessi alla Romania. E in ultimo il Trattato di Sevres (1920), secondo cui la Turchia viene ridotta alla sola Penisola Anatolica. Francia e Inghilterra si erano in precedenza spartiti in segreto le zone orientali con il Patto di Londra generando non poca indignazione da parte della Turchia.

La delusione italiana post-guerra

Il Regno d’Italia vinse la Grande Guerra. Il Paese, tuttavia, aveva affrontato una prova durissima e ne era uscito profondamente provato. Molti settori dell’opinione pubblica chiedevano a gran voce che l’Italia ottenesse un compenso degno degli sforzi compiuti: pertanto, si sperava di ottenere una consistente parte delle colonie tedesche e una significativa espansione verso oriente, nelle terre che, fino al 1918, erano appartenute all’impero austro-ungarico. (Al di là di Trento e Trieste, nelle attuali regioni della Slovenia e della Croazia.) La delusione fu rapida e acuta, in quanto il presidente americano Wilson chiese il rigoroso rispetto del principio di nazionalità: pertanto, a suo giudizio, territori che fossero abitati in prevalenza da slavi non dovevano passare sotto controllo italiano. Gabriele D’Annunzio e altri esponenti nazionalisti gridarono a gran voce che gli Alleati stavano umiliando l’Italia, al punto che la vittoria costata enormi sacrifici risultava mutilata, a causa dell’egoismo delle grandi potenze tradizionali, che non volevano lasciare spazio alla giovane e dinamica nazione italiana. La protesta del poeta abruzzese non si limitò al piano verbale: D’Annunzio, infatti, si mise a guida di alcuni reparti dell’esercito (che lo seguirono, disubbidendo agli ordini dei loro superiori) e occupò la città di Fiume.

La nascita del Partito Popolare Italiano

Sul territorio nazionale, registriamo una grande eccitazione e la nascita di numerosi e nuovi soggetti politici: primo fra tutti, il Partito Popolare Italiano, sorto nel 1919 per iniziativa di don Luigi Sturzo. Si trattò del primo vero partito politico cattolico, dopo che – per circa sessant’anni – i fedeli che accettavano la guida del papa si erano rifiutati di partecipare alla vita del nuovo Stato unitario.

La crescita del socialismo in Italia

In effetti, nel 1861, la Santa Sede aveva dichiarato che il Regno d’Italia era un’entità del tutto illegittima, per il fatto che: - era sorto calpestando i diritti dello Stato della Chiesa; - aveva posto fine al potere temporale del pontefice; - si era dato un ordinamento liberale, che concedeva ad ebrei, protestanti e atei gli stessi diritti dei credenti, a cominciare dalla libertà di opinione, di stampa e di associazione. A giudizio della Chiesa, ciò era del tutto inaccettabile, perché significava porre sullo stesso piano la verità (il messaggio della Chiesa di Roma) e l’errore (le altre fedi, in primo luogo, ma anche le ideologie moderne, comprese il positivismo, il materialismo e il socialismo). Proprio la crescente diffusione del movimento socialista, però, spinse la Chiesa a mutare il suo atteggiamento intransigente. Pertanto, ai cattolici fu concesso di organizzare un proprio partito, di partecipare alla vita politica italiana e di proporre riforme ispirate ai valori cristiani, percorrendo la via legale e parlamentare. La decisione di fondare il PPI (Partito Popolare Italiano) nacque da una constatazione: in un paese che ormai votava a suffragio semi-universale (maschile), il partito marxista rischiava di diventare forza di maggioranza alla Camera dei deputati. (ricordiamo che all’epoca il Senato esisteva ma era di nomina regia.) In effetti, i socialisti stavano diventando sempre più forti, soprattutto nel Nord del Paese. Il PSI, tuttavia, era profondamente diviso, lacerato al suo interno in almeno tre correnti: - i riformisti (o gradualisti), che avevano i loro esponenti più importanti in Filippo Turati e Giacomo Matteotti. Erano determinati ad usare solo vie legali e pacifiche, per migliorare a piccoli passi (gradualmente) le condizioni di vita e di lavoro degli operai e dei contadini; - i massimalisti, che promettevano una rivoluzione proletaria imminente. Tuttavia, non avevano alcun progetto concreto, e alle loro parole non seguiva (né, di fatto, avrebbe potuto seguire, perché le condizioni non lo consentivano) alcuno sforzo organizzativo concreto per conquistare il potere; - i comunisti, che nacquero nel 1921; al congresso di Livorno, un gruppo di estremisti dichiarò di voler imitare il modello leninista (il loro grido di battaglia era: «Facciamo come in Russia!») ed accusò i massimalisti di inconcludenza e scarso spirito di iniziativa. Di conseguenza, uscirono dal PSI e fondarono una nuova organizzazione politica, il Partito Comunista d’Italia, che si legò subito al partito bolscevico russo.

A giudizio dei principali esponenti comunisti (come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci), l’Italia era pronta per la rivoluzione proletaria, come mostrava l’agitazione degli operai nelle grandi città e quella dei contadini nelle campagne. Gli episodi più importanti si verificarono nel 1920, allorché i lavoratori dei centri industriali del Nord occuparono le fabbriche, mentre i braccianti dell’Emilia Romagna (una regione che, a quell’epoca, era ancora prevalentemente agricola) dopo un lungo sciopero ottennero salari più alti e garanzie di lavoro sicuro, soprattutto nel periodo dei raccolti. In realtà, l’Italia non era affatto sull’orlo di una rivoluzione: in entrambi i casi, si trattò solo di vertenze sindacali particolarmente dure, finalizzate ad ottenere consistenti miglioramenti salariali. Eppure, la borghesia italiana (cioè gli industriali e, ancor più, i proprietari terrieri: i cosiddetti agrari) iniziò a temere che lo Stato liberale non fosse più in grado di imporsi, di difendere l’ordine sociale e di tenere a bada i bolscevichi.

La nascita del fascismo

Il risultato di tale paura fu l’alleanza della borghesia agraria con il movimento fascista, nato l’anno precedente. Il 23 marzo 1919, a Milano, Benito Mussolini aveva in effetti fondato una nuova organizzazione politica, che aveva preso il nome di Fasci italiani di combattimento. Abbiamo già detto che, nel primo decennio del Novecento, Mussolini era stato un dirigente socialista; qui possiamo precisare che, insieme ai borghesi, il grande avversario del giovane Mussolini erano i socialisti riformisti, che di fatto avevano abbandonato l’idea di una grandiosa rivoluzione, grazie alla quale sarebbe sorta una nuova epoca, di giustizia ed uguaglianza universale. Una volta consumato il suo strappo con il socialismo, Mussolini intraprese un lungo percorso, alla ricerca di una propria originale proposta politica, alternativa al marxismo. Nel 1919, però, anche se l’esperienza russa l’aveva definitivamente distolto da qualsiasi sogno rivoluzionario, le posizioni del futuro Duce del fascismo erano ancora per molti versi confuse. In effetti, il programma proposto il 23 marzo alla riunione che si tenne in Piazza San Sepolcro, a Milano, conteneva ancora diverse rivendicazioni decisamente audaci e radicali (si pensi, ad esempio, alla nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi, o alla promulgazione di «una forte imposta straordinaria sul capitale… che abbia la forma di una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze») molto simili a quelle della sinistra più estrema. Mussolini assunse le sue posizioni definitive nel 1920, allorché il fascismo nascente recepì e assimilò i principali concetti del movimento nazionalista: - l’idea secondo cui l’Italia doveva farsi rispettare a livello internazionale, conquistare un impero coloniale e diventare una grande potenza; - la convinzione secondo cui il marxismo, esortando alla lotta di classe, indeboliva la nazione dall’interno, spingendo i proletari allo scontro con i borghesi; la nazione, al contrario, avrebbe dovuto unirsi, diventare un gruppo compatto, per lottare (all’esterno) contro le altre nazioni; - l’idea secondo cui il sistema liberale era debole (nella lotta contro i socialisti) e inetto. Il posto del parlamento doveva essere preso da un’élite o da un Duce, capaci di guidare il Paese verso il suo destino di gloria, perché determinati a schiacciare con la forza il nemico marxista. A queste idee nazionaliste (già vive in Italia da una ventina d’anni), il fascismo aggiunse solo pochi elementi. Il primo fu il simbolo del fascio littorio: da un lato, esso evocava l’unità della nazione, considerata come presupposto essenziale per la lotta a livello internazionale. Nel medesimo tempo, però, essendo un simbolo di origine romana, il fascio indicava l’obiettivo da raggiungere: una potenza pari a quella di Roma, che aveva esteso il suo impero a tutto il Mediterraneo e a gran parte dell’Europa.

Da un punto di vista teorico, il fascismo non invento quasi nulla che non fosse già presente nel bagaglio ideologico del nazionalismo. Il suo contributo più importante riguardò la prassi, ovvero quel comportamento che può essere definito «militarizzazione della politica». Infatti, per la maggior parte, coloro che aderirono al movimento fascista nel 1920 erano ex-combattenti, che trasferirono al confronto politico metodi e mentalità tipici del tempo di guerra. Di conseguenza, l’avversario politico fu considerato un nemico, da abbattere, da colpire ed eliminare, con la stessa radicalità e brutalità con cui il soldato si era comportato in trincea, fino a qualche anno prima. Ovviamente, un simile comportamento è lontanissimo da quello che caratterizza una democrazia o uno stato liberale, in cui il contrasto politico può assumere toni molto aspri, ma poggia sul rispetto dell’altro, sulla possibilità per tutti i partiti di far udire la propria voce, sulla libertà di stampa e di voto. Per i fascisti, questi metodi erano superati e pericolosi per la nazione: in tempi minacciosi, in cui i sovversivi rossi sembravano inarrestabili, e il rispetto formale delle regole andava solo a vantaggio di chi voleva rovesciare le istituzioni e l’ordine sociale, occorreva agire in modo nuovo, senza tener conto delle tradizionali modalità di funzionamento del meccanismo politico. Le prime clamorose azioni dei fascisti ebbero luogo a Trieste (13 luglio 1920) e a Bologna (21 novembre 1920). Nel primo caso, fu attaccata la sede di un’associazione che, nel capoluogo giuliano, difendeva i diritti e l’identità culturale della minoranza slava; nella città emiliana, invece, i fascisti cercarono di impedire l’insediamento del nuovo sindaco socialista. A partire da quel momento, il movimento fascista si organizzò in «squadre d’azione» sempre più efficienti e brutali, che attaccavano le sedi del partito socialista, uccidevano i sindacalisti che tutelavano gli interessi dei contadini e degli operai e picchiavano i sindaci e gli assessori delle giunte municipali rosse. Con lo squadrismo, il fascismo assunse il suo aspetto definitivo. Iniziato (nel 1919) come movimento urbano (radicato, innanzi tutto, a Milano) e caratterizzato da alcuni aspetti antiborghesi, un anno dopo esso era schierato su posizioni essenzialmente anti-socialiste e si era trasformato in una forza violenta, decisa a schiacciare con la forza qualsiasi avversario. A proposito dello squadrismo e della sua violenza, tuttavia, occorre fare alcune importanti precisazioni: - in Emilia Romagna e in altre zone della Val Padana, le squadre d’azione furono ampiamente finanziate dagli agrari, cioè dai proprietari terrieri, desiderosi di ottenere una rivalsa, dopo che lo sciopero socialista dell’estate 1920 li aveva costretti ad aumentare i salari dei lavoratori stagionali nelle campagne e ad assumere il numero di braccianti deciso dal sindacato; - le forze dell’ordine (esercito, polizia e carabinieri) tollerarono le violenze dei fascisti, in quanto i vertici militari (e, più in generale, la classe dirigente italiana) li considerava dei difensori della patria e della nazione, che finalmente davano ai rossi la lezione che essi si meritavano. In varie circostanze, l’esercito fornì alle squadre armi, camion e carburante, mentre in certi casi i carabinieri intervennero a sostegno dei fascisti, quando questi si trovarono in difficoltà, a causa di una reazione dei socialisti; - le squadre d’azione erano guidate da capi fascisti locali (Italo Balbo, a Ferrara; Dino Grandi, a Bologna; Roberto Farinacci, a Cremona), dotati di ampia autonomia d’azione. In questa prima fase, Mussolini era solo un primo tra pari, anche se tutti gli riconoscevano un ruolo di guida (di Duce del fascismo), per il fatto che era il personaggio più noto, a livello nazionale. Per rafforzare il suo ruolo di capo, nel 1921 Mussolini procedette alla trasformazione del movimento in Partito Nazionale Fascista. A lungo, tuttavia, il Duce dovette competere con i leader locali, che non volevano cedere il potere e il prestigio che avevano acquisito nella loro qualità di comandanti delle squadre d’azione in una particolare regione.

L'ascesa di Mussolini e la marcia su Roma

Dopo due anni di violenze (1920-1922), il fascismo riuscì a salire al potere. Dopo una fase di assestamento, a partire dal 1924 lo Stato liberale, in Italia, fu smantellato in tutti i suoi principali elementi e il fascismo divenne regime. In tutti i momenti decisivi, il re Vittorio Emanuele III svolse un ruolo fondamentale: avrebbe potuto fermare Mussolini nella sua corsa verso il governo, ma non fece nulla per impedirne la vittoria (oppure, peggio ancora, la facilitò in varie maniere). La prima svolta decisiva si verificò nell’ottobre 1922, in occasione di una crisi di governo. Consapevole della disponibilità del re (e di gran parte della classe dirigente italiana) nei suoi confronti, Mussolini organizzò la cosiddetta «marcia su Roma». In pratica, circa 14 000 squadristi si accamparono in alcune località nei pressi della capitale, mentre il Duce dichiarava che il Capo dello Stato avrebbe dovuto assegnare a lui l’incarico di formare il nuovo governo. Si trattava di un gesto puramente dimostrativo: le forze dell’ordine, infatti, avrebbero potuto disperdere in fretta i militanti fascisti, mal armati e disorganizzati. Vittorio Emanuele III, tuttavia, si rifiutò di firmare il decreto che proclamava lo «stato d’assedio» e avrebbe permesso alle truppe di agire. Anzi, determinato a permettere a Mussolini di completare la sua azione di demolizione del movimento socialista, il re gli affidò il ruolo di Presidente del Consiglio. In questo momento, il fascismo aveva alla Camera un numero molto ristretto di deputati; il governo Mussolini era sostenuto da numerosi conservatori, convinti di poter manovrare il fascismo, cioè di metterlo facilmente da parte, dopo che esso aveva svolto il suo utile ruolo di martello e di diga, nei confronti della minaccia socialista. Solo pochi intellettuali (tra cui il torinese Piero Gobetti) e uomini politici (tra cui Giovanni Amendola e Luigi Sturzo) intuirono per tempo che il fascismo era una forza politica di tipo nuovo, perché determinato ad una conquista totalitaria dello Stato e della società, all’interno della quale non avrebbe lasciato alcuno spazio ad altre organizzazioni (diverse dal Partito fascista) o a ideologie e opinioni concorrenti. In questo suo comportamento, il fascismo era completamente diverso dal liberalismo: piuttosto (paradossalmente) l’unico parallelo legittimo appariva all’epoca quello con il comunismo, che in Russia aveva istituito un regime dittatoriale a partito unico e si era imposto come ideologia infallibile e indiscutibile, che non lasciava spazio a confronti o dissensi di sorta.

Il consolidamento del regime fascista

Il 6 aprile 1924, si tennero le elezioni politiche; per essere sicuro di ottenere la maggioranza, i fascisti operarono numerosi brogli e intimidazioni. Il 30 maggio, di fronte ad una Camera che ormai era occupata, in prevalenza, da parlamentari fascisti, il deputato socialista Giacomo Matteotti ebbe il coraggio di denunciare tutti gli episodi illegali di cui era venuto a conoscenza e chiese che le elezioni fosse invalidate, perché viziate da innumerevoli violenze e operazioni illegali, compiute dalle squadre d’azione. Dieci giorni dopo, Matteotti fu rapito ed ucciso (10 giugno). Tutti gli antifascisti sperarono che il re, di fronte ad fatto così grave come il rapimento e l’assassinio di un deputato, avrebbe preso posizione contro Mussolini; Vittorio Emanuele III, al contrario, non fece assolutamente nulla: il che significò, ancora una volta, spianare la strada al fascismo, lasciandolo libero di eliminare gli ultimi spazi di libertà presenti in Italia. Alla fine della vicenda, protetto dall’assoluta passività di Vittorio Emanuele III, nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, Mussolini poté assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto», cioè del delitto Matteotti e di tutti gli altri crimini compiuti fino ad allora dal fascismo. E concludeva con aria trionfale: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, - continuò Mussolini - se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perchè questo clima storico, politico, morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi». Nel 1925, un Mussolini ormai invincibile ottenne dalla Camera l’eliminazione della separazione dei poteri: il principio più tipico dello Stato liberale, insieme al rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino, da parte dello Stato stesso. Ricordiamo che i tre poteri fondamentali dello Stato sono quelli di fare le leggi, di applicarle e di punire chi le viola. In altre parole si tratta del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Secondo la concezione liberale ognuno di tali poteri deve essere autonomo e non entrare nella sfera di competenza di un altro. Invece, in virtù della legge sulle prerogative del Capo del Governo (approvata nel dicembre 1925), Mussolini riuscì a impedire che qualsiasi argomento fosse discusso dal Parlamento, senza la previa autorizzazione del Primo Ministro. Il che significava che il potere esecutivo prevaricava quello legislativo e lo privava di qualsiasi indipendenza. Nel 1926 (dopo che il Duce, il 31 ottobre, a Bologna, era scampato ad un pericoloso attentato) furono sciolti tutti i partiti, ad eccezione del PNF, e fu istituito un Tribunale speciale, incaricato di processare e condannare tutti gli antifascisti, accusati di essere nemici dello Stato e della nazione. La dittatura, di fatto, era iniziata: il fascismo era diventato regime.

La militarizzazione della politica fascista

Il fascismo trasferì l’esperienza della Grande Guerra nell’ambito della politica e questo comportò una «militarizzazione della politica». Come nelle trincee, la lotta politica si fondava, ora, su un antagonismo irriducibile, sull’antitesi amico-nemico, e dunque, in conseguenza di ciò, i fascisti ritenevano che fosse assolutamente necessario, nonché del tutto legittimo sul piano etico, far ricorso alla violenza per colpire e per terrorizzare gli avversari. Questi ultimi, del resto, non erano considerati dei semplici oppositori, ma venivano invariabilmente bollati con il marchio d’infamia di “antinazionali”. Vale a dire nemici da annientare ad ogni costo in quanto “nemici interni”, poiché legati a centrali antitaliane come la Russia bolscevica e il Vaticano, oppure perché traditori della patria in quanto “parassiti” o “imboscati”. Come scriveva lo squadrista fiorentino Umberto Banchelli, «i nemici interni, per mezzo dei loro organi avvelenatori» avevano preso «Verità e Patria prostituendole all’oro dei varii Lenin esteri e dei castrati interni». Mussolini aveva incominciato a identificare gli antinazionali fin dall’inverno 1918-19, quando aveva indicato quale dovessero essere i compiti che attendevano i combattenti dopo la conclusione del conflitto. In alcuni discorsi e in alcuni articoli apparsi su «Il Popolo d’Italia» nel dicembre del 1918, Mussolini aveva detto, in sostanza, che l’Italia dei combattenti dichiarava guerra all’Italia degli antinazionali. Il 21 dicembre 1918 Mussolini aveva pronunciato un discorso a Trieste, nel cortile della caserma «Guglielmo Oberdan», sede della IV Brigata Bersaglieri, su invito del comandante della brigata generale Coralli e aveva esortato i bersaglieri a non abbassare la guardia. Dopo aver battuto il nemico storico, dopo aver «sconquassato» l’Austria per «virtù di baionette e di cuore», essi avrebbero dovuto affrontare, ora, i “nemici interni”, i «parassiti», i «vigliacchi» e gli «imboscati». Ossia coloro che se ne erano stati acquattati mentre i bersaglieri morivano di «fuoco e di freddo», che avrebbero tentato di «svalutare la vittoria» e che avrebbero cercato di convincere gli eroi della Grande Guerra che essi si erano battuti, in realtà, «per i signori, per i padroni, per ingrassare gli ignavi». [...] In vista della fondazione dei Fasci italiani di combattimento, Mussolini aveva precisato ancora più esattamente il suo pensiero sul ruolo “antinazionale” dei socialisti italiani. E dopo aver scritto che avevano lavorato «direttamente o indirettamente [...] per realizzare la vittoria tedesca», li aveva sprezzantemente definiti dei «controrivoluzionari, dei reazionari [e] dei carnefici della libertà». Dopodiché, nel discorso conclusivo tenuto all’adunata di Piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919, aveva detto testualmente: «noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione». Ricordando quell’adunata, Roberto Farinacci aveva scritto che era stato «un ordine solenne di continuare la guerra. Innanzi tutto contro la matta bestialità del socialismo [...]; poi contro qualcosa di meno visibile e superficiale, di più intimo, di più indefinibile e pericoloso che logorava le viscere della Nazione [...] Era la decisione di farla finita ad ogni costo con le idee e gli uomini del ceto parlamentare». Nella primavera e nell’estate del 1919, la dichiarazione di Mussolini contro gli “antinazionali” fu continuamente rilanciata dagli organi di stampa fascisti. E ciò è testimoniato, ad esempio, da quanto scriveva «Il Fascio» del 6 settembre 1919. In un articolo in cui invitava all’«unione di tutte le forze interventiste», G.E. Pessina affermava: «Per noi la guerra non è cessata. Ai nemici esterni sono subentrati nemici interni [...] da una parte gli italiani veri, amanti della grandezza della patria; dall’altra i nemici di essa, i vigliacchi che attentano a tale grandezza e che ne premeditano la distruzione. [...] È l’azione diretta che occorre, l’azione energica, decisa, coraggiosa! Ed è a noi, interventisti della prima ora che spetta questo sacro compito!». L’invocazione dell’azione energica, decisa e coraggiosa altro non era, in realtà, che la rivendicazione del legittimo uso della violenza nei confronti degli “antinazionali”. E questo concretamente significò che tra la fondazione dei Fasci italiani di combattimento e la conquista del potere il >, come lo definì Sergio Panunzio, si abbatté come una vera e propria valanga sugli “antinazionali”. Infatti, sebbene il numero esatto dei caduti per mano fascista prima della Marcia su Roma non si conosca, essi sarebbero stati, secondo Salvemini, circa tremila tra il 1921 e il 1922; di questi, seicento sarebbero stati socialisti. Nel complesso, un numero imponente, che rappresenta un preciso indicatore della propensione dei fascisti a impiegare la violenza nella lotta politica. (L. Di Nucci, «Lo Stato fascista e gli italiani “antinazionali”», in L. Di Nucci – E. Galli Della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp.

La violenza squadrista e il mito della giovinezza

129-132) Lo squadrismo tra mito della giovinezza e culto della violenza: il legame con l’interventismo La minore tra le sanzioni riservate ai sovversivi, la somministrazione dell’olio di ricino, ha in sé l’elemento della beffa e dell’umiliazione di un avversario che si vuole pronto a «farsela addosso», materialmente per effetto del lassativo, moralmente per la sua indegnità di traditore della nazione. Poi gli squadristi potranno salire lungo la scala della «rappresaglia» aggiungendo al manganello (definito «santo» persino da Giovanni Gentile) argomenti via via più convincenti come il pugnale, il revolver, la bomba a mano, sempre al fine supremo di purificare il corpo dell’Italia nuova. Essi spaccano i crani, secondo l’efficace espressione usata in diverse occasioni da Mussolini, pretendendo di farvi entrare un po’ di buon senso, e particolarmente l’etica della responsabilità verso la patria. I più colti assimilano la velocità delle azioni squadriste a quella propugnata dall’estetica futurista, e sentono quel ritmo come il segno della modernità da contrapporre alla greve tradizione. I precedenti della mobilitazione squadrista stanno d’altronde in buona parte nella cultura, oltre che nella pratica, dell’interventismo. Già D’Annunzio nel maggio del 1915 aveva incitato a stilare una «lista di proscrizione [= un elenco dei nemici della patria, da arrestare ed eliminare – n.d.r.], senza pietà», aveva esortato «i più maneschi» tra i patrioti a formare «una milizia vigilante»: «codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno; [...] fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli». Poi c’era stata la guerra, e sul finire di essa le azioni degli arditi,dannunzianamente basate sulla beffa e sul gesto esemplare, ideologicamente connotate da un aggressivo nazionalismo. Si ascoltino le parole gravide di futuro con cui Marinetti nell’ottobre 1918 aveva arringati i membri di questo corpo d’élite: «Siete diventati arditi per amore della violenza, spirito novatore, spirito rivoluzionario, spirito futurista. – Siete diventati arditi per amore della violenza e del bel gesto eroico. Schiaffi in tempo di pace ai vigliacchi, alle carogne, ai traditori. Pugnalate e bombe a mano in guerra ai tedeschi. – Siete diventati arditi per desiderio di mafia [= cameratismo, spirito di comunità – n.d.r.] e spavalderia giovanile. [...] Bella mafia trionfante degli arditi d’Italia che amano le belle donne e le conquistano come trincee con un gesto eroico. Non preoccupatevi delle smorfie e dei sussieghi degl’imboscati [...]. Siete voi i primi, i più alti, i più degni. Siete voi i padroni della nuova Italia. Io amo la vostra disinvoltura insolente». Ritroviamo qui i temi del combattentismo, la contrapposizione tra gli uomini delle trincee e gli imboscati o i traditori, la legittimazione dei reduci a governare, e in più questa «bella mafia» che allegramente i più determinati tra i combattenti potranno imporre all’Italia nuova, la quale attende come una femmina smaniosa di essere presa, seppure con un po’ di violenza. Anche le squadre – in cui sono numerosi gli ex arditi – sentono se stesse come un corpo di volontari che esercita la bella mafia, e delle leggi e di tutto il resto «se ne frega»; ovvero, come una guardia nazionale che dà forma a se stessa nell’interesse superiore della patria, a prescindere da quanto decide lo Stato, e per questo combatte, uccide e muore. [...] Molti avevano meno di vent’anni. Chi osserva oggi le facce imberbi dei non pochi diciassettenni caduti per la rivoluzione fascista non può non avere un momento di sconcerto trovandosi di fronte, più che a dei giovani, a dei bambini. Bambini tutti «disperatamente» innamorati della patria e, peraltro, tutti inferociti dalla guerra. Vediamoli nella descrizione, dovuta alla penna di uno sconcertato Paolo Valera, dell’assassinio a colpi di mazza piombata di Attilio Boldori, vicepresidente della deputazione provinciale cremonese: «Divenne il loro materazzo [= materasso, sacco da riempire di colpi – n.d.r.]. Dopo una mazzolata, un’altra. Coi loro rompicapi lo piegarono in due. In ginocchio la vittima impallidiva e rantolava. Ricevette i colpi di grazia. Rotolò sul pavimento. Gli aggressori furono implacabili. Non se la diedero a gambe che quando lo videro in lotta con gli spasimi della morte e dopo che qualcuno di loro gli aveva schiacciato la testa con colpi di tacco [...]. Il massimo dei suoi uccisori si è confessato con baldanza. “Sono io, Giorgio Passani, studente di 16 anni”». Mussolini e gli altri membri del gruppo dirigente «milanese» si affacciano sulla maturità, ma i capi delle squadre hanno solo qualche anno in più dei loro gregari: la loro età varia, al 1921, dai 33 anni di Augusto Turati ai 24-25 di Carlo Scorza e Italo Balbo. Così il giovanilismo fascista esprime da un lato l’ideologia della forza e dell’energia vitale, ma dall’altro anche la realtà di fatto di una generazione passata tutta, in qualche modo, attraverso la guerra. Ad indicare la contaminazione tra queste esperienze di vita giovanile può essere citata la vicenda della più nota tra le canzoni fasciste, intitolata appunto Giovinezza, nel 1909 inno di congedo dagli studi degli studenti universitari, qualche anno dopo – con gli opportuni adattamenti nel testo – adottato dagli alpini e dagli arditi al fronte, poi dagli squadristi, e infine (1926) dal partito unico del ventennio.

Domande da interrogazione

  1. Quali furono le conseguenze del Trattato di Versailles per la Germania?
  2. Il Trattato di Versailles impose alla Germania di rinunciare a tutte le colonie, all'Alsazia, alla Lorena e alla Slesia, di pagare i debiti alle nazioni vincitrici, di limitare l'esercito a 100.000 uomini e di accettare l'occupazione della riva destra del Reno per 15 anni.

  3. Come reagì l'Italia alla conferenza di Parigi del 1919?
  4. L'Italia si sentì delusa e umiliata dalla conferenza di Parigi, poiché non ottenne i territori desiderati a causa del principio di nazionalità sostenuto da Wilson, portando a proteste nazionaliste e all'occupazione di Fiume da parte di D'Annunzio.

  5. Quali furono le origini del movimento fascista in Italia?
  6. Il movimento fascista nacque il 23 marzo 1919 a Milano, fondato da Benito Mussolini come Fasci italiani di combattimento, inizialmente con posizioni confuse e radicali, ma successivamente orientato verso il nazionalismo e l'anti-socialismo.

  7. In che modo il fascismo si affermò in Italia?
  8. Il fascismo si affermò attraverso la violenza dello squadrismo, il sostegno della borghesia agraria e la tolleranza delle forze dell'ordine, culminando nella marcia su Roma e nell'ascesa al potere di Mussolini con il supporto del re Vittorio Emanuele III.

  9. Qual è stato l'impatto del delitto Matteotti sul regime fascista?
  10. Il delitto Matteotti, avvenuto dopo le elezioni del 1924, consolidò il potere di Mussolini, poiché il re non intervenne contro il fascismo, permettendo a Mussolini di assumere la responsabilità politica e di instaurare una dittatura eliminando la separazione dei poteri.

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