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I risultati, per il momento, sembrano dare soddisfazioni agli alunni, ai genitori e agli insegnanti. Però per valutare con ponderazione gli effetti a lungo termine bisognerà aspettare ancora qualche tempo. Intanto già cominciano i primi studi alla Sapienza in merito a questo rivoluzionario tentativo di rinnovare il sistema scolastico.
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Il liceo senza voti
Tutto è iniziato da un’idea di Enzo Arte, professore di matematica e fisica del liceo Morgagni. Il docente spiega a Il Corriere della Sera come è nata la sua iniziativa: stava organizzando la visita al museo della Scienza quando gli è venuta l’ispirazione. “I ragazzi erano entusiasti, non vedevano l’ora. Ma quando ho spiegato loro che al ritorno avrebbero dovuto portarmi una relazione, una studentessa è sbottata: ‘Ecco, tutto rovinato, e pensare che lo sognavo da mesi’. Sono rimasto stupito: poi ho capito che proponendogli un report, avrei rovinato un’esperienza, che non l'avrebbero più vissuta con gli occhi della curiosità e dell’entusiasmo”. Il professore ha così iniziato a elaborare un nuovo e sostenibile sistema senza valutazione, dando poi vita al liceo senza voti.
Sono già due le classi giunte al diploma attraverso il sistema sperimentale. Ma, nel pratico, come funziona? Più o meno come in una scuola normale: i professori continuano a interrogare e a sottoporre gli studenti alle verifiche, ma sempre senza dare loro un voto. I docenti si limitano infatti a consigliare, spronare e correggere i ragazzi cercando di instradarli verso un miglioramento, ma tutto questo senza ricorrere a una valutazione numerica. I voti fanno la loro comparsa solo alla fine del quadrimestre, nel rispetto delle norme istituzionali. Prima vengono però sempre condivisi e discussi in classe.
Un percorso tortuoso: “Qualcuno ha portato via suo figlio, non condividendo”
Come sta andando? E quali sono state le difficoltà incontrate durante il percorso? “Quando ho presentato il progetto in collegio docenti, non tutti erano convinti”, spiega Enzo Arte. “Ma la preside mi ha appoggiato e alcuni colleghi mi hanno dato una sponda meravigliosa, e così siamo partiti. Se togli i voti, ovviamente togli l’obiettivo finale dell’insegnante, e allora devi capovolgere tutto: i professori devono coinvolgere e motivare tantissimo. E poiché tutti gli studi di pedagogia dicono che si impara meglio tra pari, bisogna anche promuovere la collaborazione tra studenti. Così è partita l’idea dei lavori di gruppo, di tutoring, di cooperative learning. I ragazzi interagiscono tra di loro sia a casa che in classe, e usano il tempo a scuola in maniera efficace. La scuola italiana si fa così: si spiega e poi si fanno i compiti, siamo la scuola dove si fanno più ore in classe e più ore a casa, non dare compiti a casa per l’insegnante è una bestemmia. Noi cerchiamo di invertire la rotta: a scuola si fa tanto e si impara”.
E le famiglie come hanno reagito? “Qualcuno ha portato via suo figlio, non condividendo. Molti hanno avanzato dei dubbi, ma poi si sono ricreduti: vedere i propri figli che vengono a scuola con il sorriso sulle labbra è una gioia”.
Naturalmente ancora non si può compiere un vero e proprio confronto con i risultati ottenuti dalla scuola tradizionale. Quello adottato è un metodo sperimentale, suscettibile di andare incontro a qualche modifica di aggiustamento. C’è già chi si è rimboccato le maniche e ha cominciato a studiare il nuovo sistema. Stiamo parlando di un corso di Pedagogia sperimentale all’Università La Sapienza di Roma, che ha iniziato a monitorare la situazione da vicino, dedicando parte dei propri studi proprio al liceo Morgagni.
Testimonianze
Gianluca Petrassi, 19enne iscritto alla facoltà di Economia e Commercio, parla della sua esperienza al quotidiano: “I lavori di gruppo mi sono tornati utili, perché sono già impostato rispetto ad altri. E poi sono riuscito a sviluppare tante attività extracurricolari: sono riuscito ad ottenere la certificazione massima di inglese, a entrare alla Bocconi, ho partecipato al campionato di agonistica di rugby. In una sezione normale avrei dovuto rinunciare a qualcosa”. Anche per quanto riguarda il rapporto con i professori il suo giudizio è in definitiva positivo: “Il rapporto con i prof era molto più leggero e proficuo, non c’erano paure a comunicare. Certo, forse ci mette un po’ a prendere piede, è un metodo diverso di approccio allo studio, e quindi magari lasci qualcosa indietro: all’inizio la differenza si sente tanto a livello di impatto, non si ha ancora la maturità per cogliere appieno il progetto. Ma una volta che lo comprendi, capisci che funziona”.Altra testimonianza è quella di Irene Giampaolo, studentessa diplomata al Morgagni e ora iscritta alla facoltà di Scenza e cultura enogastronomica all’Università Roma Tre di Roma. Irene parla in particolare dei pregiudizi e delle difficoltà iniziali poi superate con il passare del tempo: “Eravamo noti come la sezione dove non si fa niente. E all’inizio non tutti i prof rispettavano il metodo, quindi dovevamo alternarci tra studio classico e non. Poi man mano abbiamo trovato un equilibrio e alla fine posso dire che ho vissuto il liceo come un’esperienza bella e rilassante, positiva, non stressata dal dovere di fare compiti e interrogazioni”.
Un’ulteriore opinione positiva viene da Ariana Chihai, adesso iscritta a Scienze naturali: “Con le interrogazioni programmate ci concentravamo meglio ed esponevamo al meglio, davamo sempre il massimo. E con pochi compiti a casa avevamo molto più tempo per fare anche altro”.
Daniela Chiassi, consigliera parlamentare e madre di un figlio che frequenta il terzo anno del liceo, racconta come sia riuscito, grazie al sistema sperimentale di Enzo Arte, a compiere molti passi in avanti nella socialità: “Io sono la mamma di un ragazzo di sedici anni molto sensibile, che frequenta il terzo anno: non doversi confrontare continuamente con voti e valutazioni è confortante. Ma non è solo quello: il senza voto ha senso perché inserito in una cornice di un più ampia. Il metodo è farli lavorare insieme, in modo non frontale, scoprire la materia, lavorandoci in gruppo, favorire la socializzazione, creare un contesto diverso di apprendimento, che va molto meglio soprattutto per ragazzi, non disabili, ma semplicemente che hanno una timidezza, o una esuberanza eccessiva, e invece così hanno modo di autoregolamentarsi e stare insieme. Mio figlio si trova bene, è contento: Davide ha un po’ di asperger, ma ha trovato un contesto che lo gratifica molto, l’ho visto migliorare moltissimo nella socialità. Credo che dovrebbe essere così tutta la scuola: far venire voglia di apprendere, e non paura di starci per il timore di essere giudicati”.